40 morti e ottantadue feriti. Un bilancio spaventoso, non c’è che dire, anche per chi soffre un po’ di assuefazione da cifre tragiche. Non è il risultato di una sciagura imprevista o di un incidente, non è un nuovo morbo né il risultato di un conflitto criminale. 40 sono le persone morte, dal settembre 2004 a ieri, a causa della caccia, la cui turpe stagione si chiude a gennaio. Non sto parlando dei 150 milioni di animali uccisi, di cui pure mi dispiace, ma di persone, che per errore, imprudenza, incapacità, stupidità, sono state uccise durante battute di caccia, colpite da proiettili vaganti.
Faccio solo una riflessione. Io non so che soddisfazione dia tornare a casa con il cadavere insanguinato di qualche uccellino spennato; non riesco a comprendere l’emozione di svegliarsi la mattina presto, fare un bel po’ di strada e aspettare ore con un arma impugnata in mano, in religioso silenzio, quando si potrebbe trascorrere quel tempo a passeggiare chiacchierando; non sono capace di considerare un’attività sportiva quella di chi si rilassa seminando morte. Ma questi sono limiti miei. Se però quaranta persone non si sveglieranno più per colpa di questa, come dire, difficilmente comprensibile passione, allora bisogna che a riflettere sia la comunità, e in fretta anche. C’era un tempo in cui l’uomo doveva cacciare per nutrirsi, doveva vivere nelle caverne per difendersi dal freddo, doveva muoversi vicino a fiumi e stagni per abbeverarsi. Oggi viviamo in case riscaldate e abbiamo l’acqua dal rubinetto. Perché cacciamo ancora?