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Sulla neve coi tacchi

Cosa mai penseranno i miei colleghi quando mi vedranno dieci centimetri più vicina al suolo del solito? Cosa ne sarà del mio sex-appeal quando il ragazzo che ho cominciato a frequentare non risuscirà più a guardarmi negli occhi e dovrà chinarsi per (se quel lesso si decide una buona volta) baciarmi? Come farò a essere sicura di me e decisa in ufficio, guardando il mondo da una prospettiva diversa, molto più vicina all’orizzonte? Cosa dirà il mio capo quando, anziché sbirciare nella scollatura mentre gli parlo, si troverà a guardarmi la messa in piega? No, non è accettabile, neanche a parlarne. Finchè non inventeranno degli scarponcini da neve col tacco (col tacco come dico io), non ci penso neanche a indossare quei mostruosi calzari che mi deformano e mi fanno più bassa. No no, non se ne parla neanche, non scherziamo. Cosa vuoi che sia un po’ di neve, posso andare a lavoro con i miei tacchi come se niente fosse, al limite indosserò un paio di calze velate un po’ più pesanti. Ma sì, mi aggrapperò a qualcuno in autobus, strillerò prima di scivolare sui marciapiedi, mi toglierò le scarpe appena arrivata a lavoro e mi asciugherò i piedi in bagno, tanto ho il phon Turbine Caliente 2000 sempre in borsetta. Cosa vuoi che sia un po’ di neve, non sono una che si lascia spaventare così. Sono una donna del terzo millennio, io.


Nevica a Bologna

Vabbé la moda, ma come fate?

Ogni sera ripeto lo stesso rito da meridionale che non si abitua al climaccio padano (la cucina è buona e la gente simpatica, ma no, cari bolognesi, il vostro clima non è buono, suvvia, è proprio una schifezza, gelido d’inverno e bollente d’estate). Cioè mi metto pigiama, felpa, mi rannicchio sotto il piumone e la coperta accessoria sul piumone, dopo di che mi infilo per bene la cannottiera nell’elastico delle mutande, come un Fantozzi freddoloso, perché odio risvegliarmi con la pancia scoperta. Succede inevitabilmente lo stesso perché non indosso il cilicio ma normalissimi slip e perché l’elastico troppo stretto pregiudicherebbe le funzioni circolatorie (giammai); ma nonostante restino piumone e coperta accessoria a copirmi, sento un gran freddo. Allora mi fomando come fate. Voi donne. Certe, non tutte. Come fate, a gennaio, con zero gradi, con i pinguini che passeggiano in piazza e il Nettuno che sembra l’uomo ghiaccio, ad andare in giro con la maglia così corta? E senza niente sotto? Non sono un puritano, semmai il contrario, visto che noto questi dettagli; e nemmeno qui voglio contestare l’usanza di alcune che potrebbero proprio risparmiarsi di mostraci il rotolino di pancetta. Qui faccio solo una domanda: come fate? Non avete freddo? C’è qualche unguento speciale, una dieta particolare da seguire? Come si fa? Lo dite anche a me?

Befane pelle e ossa

Avrete visto anche voi i trailer del secondo episodio cinematografico dedicato a Bridget Jones. Il primo era molto divertente, il secondo non mi attrae particolarmente, a giudicare dagli spezzoni sa di minestra riscaldata. Guardando appunto questi spezzoni, e poi le interviste alla protagonista Renée Zellweger, sono rimasto sbigottito. Il tormentone era più o meno sempre lo stesso: l’attrice, per adeguarsi al personaggio, ha dovuto ingrassare ci 15 chili, diventare cicciottella, eccettera eccetera, ma dopo la dieta è tornata in forma smagliante. A parte l’invidia nei confronti di chi riesce a gestire così bene il suo peso corporeo, sono rimasto sbigottito perché, secondo me, secondo i miei canoni di bellezza superati, arcaici, maschilisti e triviali, la Zellweger stava molto meglio prima, con i 15 chili di più. Aveva un aria più allegra, più salubre, più gioviale, e poi, diciamolo, anche delle curve più pimpanti. Era più rassicurante, materna, morbida. E poi, cicciottella, ma che cavolo dite, era appena un po’ pienotta. Volete fare il paragone con quella ragazzina striminzita, barcollante, ossutarinsecchita e tutta smagliature che si è presentata alle anteprime del film? Sicuramente oltre al dimagrimento l’aria triste era legata a qualcos’altro (credo sia in crisi sentimentale, ma non sono ferrato nel gossip), ma insomma, mi piaceva di più prima. Smettiamola con questi modelli di donne manichino, a chi piacciono?

Shopping

Passato il Natale e con esso il tormentato periodo dello shopping, è possibile interrogarsi su questa piaga sociale dei nostri tempi. Cosa significare fare shopping? Significa compare qualcosa, in’ultima analisi il tutto si riduce in una transazione commerciale, io ti do dei soldi, tu mi dai un paio di pantaloni. Ci sono certo attività accessorie quali il recarsi dal negoziante, farsi impacchettare i pantaloni, controllare lo scontrino. Ma il tutto è comunque abbastanza semplice, non stiamo parlando di scoprire un vaccino o costruire un grattacielo. Ma allora perché questa semplice operazione coinvolge in maniera così profondamente diversa uomini e donne? Perché queste ultime hanno bisogno di tre giorni per fare la stessa identica operazione che i loro mariti compiono in 45 minuti? C’è qualcosa di intrinsecamente femminile, genetico direi, nell’operazione di scegliere. Quando una donna vede tre magliette, non si limita a prendere quella che le piace di più, in relazione al prezzo: si immagina con indosso ognuna delle tre, valuta la possibile reazione degli amici, considera le possibilità di abbinamento con il suo guardaroba presente e con quello futuro, prende in rassegna tutte le sue conoscenti, parenti e colleghe, tutto il loro guardaroba e si sforza di ricordare se ha visto loro indossare qualcosa di simile, calcola la possibilità di ciascuna delle magliette di passare indenne un bucato in lavatrice, ne considera la resistenza nel tempo, compie altre centinaia di operazione o e alla fine assegna un punteggio a quelle tre magliette che memorizza. Dopo di che gira per la città alla ricerca di altre magliette con cui fare il confronto e a cui assegnare un punteggio, e dopo essere certa di aver valutato tutte le magliette distribuite in provincia, torna ad acquistare quella che ha realizzato il punteggio migliore. Che nel frattempo non c’è più perché è stata acquistata da un’altra donna che ha fatto prima il giro della provincia.
Mentre il cervello di una donna che fa shopping è impegnato ad elaborare tutti questi laboriosi calcoli, quello di un uomo è concentrato su due semplici elementi: il codice del bancomat, e la propria taglia. Che dimentica inevitabilmente, ma recupera rapidamente con un colpo di telefono alla compagna o alla mamma. Sperando non siano impegnate a fare shopping.

Mi fanno male le scarpe

Appoggiate con un braccio teso al muro, la mano aperta, l’altra che sostiene la punta della scarpa sollevata da terra, una smorfia di dolore sul volto. Sedute sui gradini di una chiesa, a controllare che il tacco sia ancora lì, gambe incrociate strette perché vogliono mettere la minigonna ma non vogliono far vedere le cosce; in fondo alla sala di un cinema, finalmente rilassate e sollevate, persino sorridenti, non perché il film sia bello, ma perché nell’oscurità della sala hanno potuto slacciarsi la fibbia. Sto parlando, se non l’avete capito, del rapporto delle donne con le scarpe. Avete mai visto un uomo lamentarsi perché le scarpe gli fanno male? Può succedere una volta, poi non le indosserà più. Gli uomini indossano raramente scarpe abbinate all’abbigliamento, a volte le trascurano, le puliscono poco, e soprattutto fanno fatica a comprendere che ne occorrano più di tre paia per vivere dignitosamente: quelle per tutti i giorni, quelle da ginnastica, gi scarponi da neve. Ci sono le eccezioni, certo, ma sono appunto eccezioni. Le donne no, per le donne le scarpe non servono a camminare, servono ad esistere. Per cui pazienza se producono calli grossi come palline da golf, pazienza se i tacchi complicano la sopravvivenza nella giungla metropolitana, pazienza se l’alluce la sera sembra il naso di Babbo Natale. L’esistenza richiede sacrificio.
Una atroce usanza orientale costringeva le donne a deformare barbaramente il proprio piede perché il gusto dell’epoca apprezzava i piedi molto piccoli e dalla forma arcuata. Per fortuna i tempi sono cambiati…O no?

Gli telefono o no? Io non cedo per prima..

Lui le ha detto, dopo averla riaccompagnata a casa: ciao, ci sentiamo domani. Per lui quel “ci sentiamo domani” è rituale, come quando si dice arrivederci ad una persona che sta per partire per la Groenlandia, come quando si saluta con un “buon giorno” anche se diluvia e ci sono i presagi di un terremoto.
Per lei no.
Per lei quel “ci sentiamo domani” significa: “domani ti telefonerò per dimostrarti quanto ti ami, quanto la tua presenza dia conforto nei momenti difficili e risplenda luminosa nelle mie giornate”. Non necessariamente, però; può anche voler dire: “domani verrò a casa tua, so che sei fuori per lavoro ma aspetterò in portone tutto il pomeriggio oppure entrerò a chiacchierare del tempo e di Beautiful con tua nonna (a proposito, Brooke è ancora viva e sfiglia che è un piacere), e aspetterò il tuo arrivo per dirti quanto ti ami, quanto la tua presenza dia conforto nei momenti difficili e risplenda luminosa nelle mie giornate”. Poi succede che lui non le telefona. Non c’entra niente con il conforto, l’illuminazione e tutto il resto: è che c’ha da organizzare la partita di calcetto con gli amici, ha il cellulare che non scarica le suonerie polifoniche e il capo con la luna storta, insomma se ne dimentica. E a lei si gonfia lo stomaco come un pallone di rugby, i muscoli si irrigidiscono in una morsa d’acciaio e tutto, il respiro del collega del piano di sotto, il vento che muove le foglie e le auto per strada diventano insopportabilmente irritabili.
Finché lei non lo richiama, furibonda, offesa, delusa e umiliata dopo due giorni, e già immagina di essere stata tradita con una squadra femminile di sollevamento pesi, alza la cornetta, sta per scaricare 10000 watt di incazzatura, e sente la sua voce. “Ciao bella, come va? Andiamo a vedere Guerre Stellari sabato?”