L’aula mi sembrò grandissima. E piena di luce. Sulle pareti c’erano delle lettere accompagnate ad alcune immagini, una cartina geografica dell’Italia e un crocifisso in alto. In fondo una lavagna nera con la cornice di legno. Io indossavo un grembiule blu che mi metteva un po’ d’ansia perché non riuscivo a mettere le mani in tasca. Per fortuna la mamma mi aveva preparato un fiocco a strappo, per cui non era costretta a legarmelo dietro al collo. Odiavo le cravatte già allora. La maestra mi sorrise e mi invitò a sedermi in un banco verso la metà dell’aula. Era una signora piccola ed era incredibile come l’attenzione di tutti noi si focalizzasse su quella voce, sui quei gesti. Nella mia cartella di Topolino c’era un diario, quaderno a quadretti, un quaderno a righe e un astuccio con i colori. E la merenda, che in realtà occupava di gran lunga più spazio di tutto il materiale didattico. C’era anche un bicchiere rosso di plastica, di quelli che si richiudevano, e di solito lo facevano al momento sbagliato, proprio mentre mi dissetavo, innaffiando il mio fiocco a strappo e il mio grembiule blu.
Ero già stato alla scuola materna, ma stavolta sentivo che qualcosa era diverso. Non era perché non c’erano giocattoli in aula. E nemmeno per il grembiule blu. Non era perché la maestra era seria e ci rimproverava se ci distraevamo, e nemmeno perché le mie compagne di classe tutto a un tratto mi sembravano più carine. Non era niente di tutto ciò. Nemmeno era la mancanza della mamma, o del papà.
O forse sì. Quel giorno, per la prima volta, li sentii un po’ più lontani. Certo sarei tornato da loro dopo poche ore a raccontare la mia giornata. Eppure, a nemmeno un chilometro di distanza dalla mia cameretta, con le automobiline nascoste nell’armadio per nasconderle a mio fratello, mi sentivo più lontano. Come se avessi fatto un passo più in là.
Oggi, 33 anni dopo, sono tornato a provare la stessa sensazione di distanza. Ma stavolta non ero io a muovermi. Io me ne stavo fermo, immobile, a pensare alle mie grane lavorative, alle tasse e ai chili da smaltire. Era la mia piccola principessa che si stava, impercettibilmente, allontando, facendo quel primo piccolo passo di un lungo cammino.
Buon viaggio. Buon primo giorno di scuola.
Avrai bisogno di parecchi sacrifici per arrivare in fondo. Anche perché papà portava una cartella, un diario, due quaderni, un astuccio e una merenda. Tu hai tre zaini (trolley settimanale, zaino giornaliero e zaino per la ginnastica), due astucci (uno a tre piani e una villetta monofamiliare), 19 quaderni, libri, regoli, copertine colorate e altri costosissimi strumenti didattici che la mamma ti ha comprato e sui quali preferisco non investigare. Certe cose i papà non le devono sapere, mentre si strofinano gli occhi umidi andando a lavoro e pensando che in fondo sono rimasti li stessi sentimentali di quel giorno di 33 anni anni fa.
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L’intepretazione del pianto
Auguri, mamme.
Il giovane papà (sempre meno giovane, sempre più papà) ha deciso di festeggiarvi condividendo per voi un breve dizionario contenente la traduzione bambinese-italiano dei pianti più frequenti, secondo l’esperienza che si è potuto costruire in questi anni. Attenzione, però: i valori si riferiscono esclusivamente a pianti femminili (non è detto che i maschi piangano nela stessa maniera, si attendono verifiche in tal senso), e poi ogni bambino ha una percentuale di creatività che potrebbe portarlo a sovvertire queste interpretazioni.
Condivido comunque, chissà che i vostri riscontri non siano analoghi:
- Aaaaaaaaaaah (urlo lungo, ininterrotto, con lievi sobbalzi, tipo ritornello di Alanis Morrisette): perché vi ostinate a non fare quello che dico io?
- A-ha, a-ha, a-ha (urlettini intermittenti come dei piccoli colpi di tosse): sono profondamente delusa, il mondo è peggiore di come me l’aspettassi e ho bisogno di coccole
- A-ha, a-ha…(silenzio), a-ha, a-ha (silenzio) a-ha, a-ha (più forte). Su questo cari genitori dovete stare molto attenti, perché vuol dire che si sono fatte male sul serio. Di solito il silenzio serve loro infatti a verificare cosa cavolo è successo e perché.
- Aaaaaah…ahhhhh….ohhhhhhh (urlo con diverse tonalità, trascinato, intervallato da singhiozzi, tipo assolo di tromba jazz improvvisato): sono una donna, benché piccola, e ho bisogno di attenzioni e di qualcuno che esegua i miei ordini. Dove diavolo siete quando ho bisogno di voi?
- Eheheheheeeeeeh..eheheheheehhhhhhhh (colpettini crescenti e progressivi all’inizio con cavalcata finale e urlo, tipo assolo di Steve Harris e Dave Murray): quella vigliacca di mia sorella si è di nuovo impadronita del mio giocattolo preferito.
- Uhi…ihi…ihii… (Piccoli miagolii, poco convinti, quasi infastiditi. Avvengono tipicamente nel sonno) Maledizione, dov’è finito il mio ciuccio e quanto ci mette papà a trovarmene un altro? Se stavolta mi sveglio davvero poi sono cavoli amari per tutti.
PS. La foto non è mia, l’ho presa da una banca dati online. Non sono così cinico da fotografare le mie bimbe quando piangono. Anche perché nell’agitazione potrebbero rovinarmi l’obiettivo.
L’ipocrisia del giovane papà
Domenica mattina: nella sala parrocchiale attigua alla chiesa dove si sta celebrando la messa, un gruppo di papà controlla i piccoli teppisti qui relegati per impedire loro di dare fuoco alle navate con le candele votive, capovolgere i banchi con i nonni appisolati e correre verso l’altare scivolando sul pavimento lucido. Nella saletta gli spazi sono limitati, le possibili arme improprie costantemente monitorate, le bizzoche che guardano di traverso i piccoli rumorosi isolate al di là di una solida parete.
Tra i papà (e qualche mamma) la solita tipologia di accompagnatori: quello apprensivo che accompagna suo figlio maggiore anche sullo scivolo anche se ormai ha 12 anni ed è più grosso di lui, quello distratto che fissa lo smartphone lamentandosi della copertura 3g, quello divertito che osserva il suo figlio bullo che monopolizza gli spazi a discapito di tutti gli altri.
Io rivesto il ruolo di papà scrittore di insuccesso, quindi osservo, scruto, memorizzo e intervengo solo se necessario (in fondo non sono uno scrittore realista, di tanto in tanto mi concedo di interagire nella storia).
Il figlio bullo ha qualche centimetro più degli altri e lo ritiene sufficiente per spostare e spingere tutti quelli che invadono il suo campo. Più che spingere di fatti si limita al gesto appena accennato, una sorta di scostamento che resta comunque piuttosto odioso. La prima volta che spinge mia figlia Serena questa incassa sorpresa, barcolla e si allontana. La seconda volta lei gli lancia uno sguardo irritato, con quel misto di minaccia e rabbia di cui solo i bambini che si ritengono nel giusto sono capaci.
La terza volta schiva la spinta in anticipo, si sposta all’indietro e gli assesta uno spintone deciso. Non è un banale segno di prepotenza, stavolta, è proprio uno spintone che fa cascare da una piccola piattaforma il piccolo bullo, lo manda faccia a terra e lo fa esplodere in un pianto disperato.
Io mi avvicino, lo aiuto a sollevarsi, gli chiedo se si è fatto male (sii, urla il piccolo teppistello, bene, penso io), borbotto a Serena che non è bene spingere, la rimprovero e la allontano dalla scena del crimine.
In cuor mio vorrei sollevarle il braccio destro in segno di vittoria e andarmi a pavoneggiare di fronte al papà divertito, che è un po’ meno divertito e si è dovuto alzare per raccogliere il pargolo strillante. Non lo faccio, perché i giovani papà sono tutti un po’ ipocriti. Mi ripeto però che in un mercato del lavoro che sarà sempre più competitivo non è poi tanto sbagliato se Serena impara già da adesso a far valere la sua candidatura.
Buon viaggio, bimbe
In principio fu il Giornalino, delle Edizioni Paoline. Le storie a volte erano un po’ complesse per un bambino delle elementari, ma aveva il vantaggio che, essendo venduto in chiesa, spesso ne ottenevo una copia dalla nonna senza dover attingere alla paghetta. Poi arrivò la scoperta di Topolino: centinaia di albi che mio zio regalò ai miei perché aveva gli armadi piedi, e nei quali mi avventurai combattendo i criminali nella 313 truccata di Paperinik, scovando i malfatori sulle tracce di Topolino e appassionandomi alle storie multiple, quelle in cui ad una certa pagina potevi scegliere cosa fare e osservare come andava a finire.
Il primo libro fu la biografia di Cristoforo Colombo. Non so perché, me lo regalarono. Forse perché aveva le mie iniziali, forse un regalo riciclato. Non un granché a dire il vero, ma non mi scoraggiai e feci un secondo tentativo più fortunato con l’Isola Misteriosa. Bingo. Un libro che mi appassionò, emozionò, scosse al punto tale che ancora ricordo bene i caratteri di stampa e la copertina arancione. Non la trama, perché una strana maledizione fa sì che ricordi bene gli stati d’animo che mi hanno accompagnato nella lettura ma non le storie. O magari è una fortuna, perché potrò rileggerle di nuovo e sarà come la prima volta. Proseguì a spulciare tra quello che trovavo nella libreria, passando da Piccole Donne e Piccole donne crescono (niente di che ma la verità è che mi ero innamorato di Joe, non si spiega altrimenti la lettura anche del seguito) a Ventimila leghe sotto i mari e Il giro del mondo in 80 giorni, che posero definitivamente Jules Verne in cima alla mia Hit-Parade.
Intanto mio zio si era sbarazzato anche di copie di Tex, e la scoperta del fumetto “da grandi” fu uno dei profondi turbamenti del passaggio alle scuole medie. A quel punto ero ormai un lettore provetto, leggevo di tutto, dai fatti incredibili della Settimana Enigmistica alle storie sdolcinate di “Confidenze” che comprava mia madre, uno di quelli che non vede l’ora di tornare a immergersi nell’avventura in cui lo scrittore l’ha calato, e leggere Agatha Christie, Ellery Queen e gli altri classici del giallo mondadori diventò una piacevole dipendenza. E dopo vennero i libri a mille lire di Newton Compton, i primi che potevo comprare con la mia paghetta, i fumetti della Marvel dai quali mi separai dolorosamente perché per amore di continuity spendevo più di quanto non potessi permettermi, e insomma, sono sempre stato un ragazzino attento a proprio limitatissimo bilancio.
Leggere è vivere altre vite, appropriarsi del dono dell’esperienza, della fantasia e dell’immaginazione che un altro ti dà, leggere è indossare gli abiti di eroi metropolitani, supereroi o leggende storiche potendo tornare ai nostri rassicuranti jeans non appena si chiude la pagina. Leggere è partire per uno di quei tour in cui ti affacci al finestrino e da ogni parte tu guardi osservi una meraviglia.
Confido di riuscire a trasmettere qualcosa di questa passione quando chiudo le mie serate leggendo in compagnia delle mie bimbe le storie che arricchiscono questa fase della mia vita: Scacciabua, Mano Manina, Voglio il mio ciuccio, Ciao papà, La rabbia. Spero che il viaggio cominci anche per loro, e se non ci sono gli armadi dello zio da svuotare, ci saranno quelli di papà.
Qualcuno dica alla Disney di piantarla con Violetta e di darci Castle
Ritengo che il prodotto culturale che meglio di qualunque altro identifichi gli ultimi dieci anni – su per giù – siano le serie televisive. Per carità c’erano anche prima, ma volete mettere? Vogliamo paragonare la sceneggiatura di Lost – che può piacere o meno, ma a cui non si può negare l’enorme lavoro creativo sui personaggi – con la psicologia da oroscopo di Branko “quello tosto del Vietnam e quello carino intellettuale” di Simon & Simon? Vogliamo paragonare l’introspezione interiore che anima Lilly di Cold Case e i suoi colleghi con i coniugi Hart di Cuore e Batticuore dove l’unica cosa davvero di spessore era la messa in piega della signora Hart?
D’altronde quelle serie anni settanta, per quanto ripetute fino allo sfinimento, le guardavamo su televisori 14 pollici in bianco e nero, di quelle attuali possiamo scandagliare ogni singola inquadratura con i mostruosi prodotti multimediali che popolano i nostri salotti. E a tal proposito mia figlia, da poco avvicinatasi a questo mondo, ha esordito con una delle mie serie preferite, Castle. Una piuttosto soft e adatta anche ad una bimba di 5 anni (e dai, per quanto possiate essere sconsiderati non farete mica vedere i bambini torturati e in catene di Criminal Minds ai vostri figli, spero). Certo qualche commento di tanto in tanto devo farlo, “Papà secondo me l’hanno pugnalata” “Martina il calibro 38 è una pistola, vuole dire che le hanno sparato”, ma mia figlia segue senza troppi intoppi la trama.
Martina però è figlia di una generazione abituata a rivedere i telefilm a piacimento, quando ne hanno voglia, così le ho preso la prima stagione in dvd. Dieci episodi già visti e rivisti più volte. Solo che siamo alla quinta stagione, e in dvd non c’è traccia della seconda! Non è questione di negozi, proprio non è mai stato prodotto in Italia. Non capisco sinceramente le logiche dei distributori (Castle è della galassia Disney), ma un programma trasmesso con successo su Sky e Rai Due cosa deve fare per essere disponibile nei negozi? Ci sono gruppi di Facebook che ne chiedono la realizzazione e addirittura raccolte di firme, ma la serie è disponibile in praticamente tutta Europa tranne che in Italia.
A proposito di Cold Case, ho scoperto per esempio che le difficoltà per l’uscita in dvd è legata alla colonna sonora (meravigliosa) che accompagna ogni episodio: i diritti costano tantissimo ai produttori, ma alla fine i dvd sono usciti. E Castle? Chi pretenderà i diritti su Castle? Per chi non l’avesse mai visto, non è tratto da un romanzo; anzi, hanno pubblicato tre romanzi tratti dalle serie. Per cui la cosa non si spiega. Chi si oppone alla distribuzione italiana? Avrà fatto qualche sgarro a qualche industria di caffé? Non credo, bevono caffé in continuazione, nel distretto c’è persino una macchina espresso comprata da Nick. Non lo so, per ora registro gli episodi su hard-disk e comincio a valutare seriamente l’ipotesi pirateria.
Nel frattempo qualcuno dica alla Disney di piantarla con Violetta e di darci Castle.
P.S. Ma se i vari protagonisti di Law & Order, Criminal Minds, Castle, The closer, C.S.I. e compagnia bella alla fine di ogni episodio risolvono il caso arrestando i criminali, com’è che quelli di Cold Case o Cold Squad c’hanno sempre così tanti arretrati?
Il motivo è semplice. I casi che devono risolvere sono di venti o trenta anni fa: per cui la colpa è del Tenente Colombo, dell’Ispettore Kojak e di Starsky e Hutch, e se posso dirlo, un po’ lo sospettavo, con quelle basette e quell’abbigliamento imbarazzante lo capivo anche da bambino che non c’era da fidarsi di loro e che chissa quanti casi insoluti si sarebbero lasciati alle spalle.
Chiedi chi erano i Beatles
Papà, cosa sono quelli?
È un pomeriggio piovoso durante le vacanze natalizie e siamo chiusi in casa in quella che, prima di ospitare tutta la famiglia, era la camera di papà. Qualcosa c’è rimasto, della camera di papà: i poster alle pareti, alcuni trofei, libri, e per l’appunto “quelli”.
Quelli sono dischi: un po’ come i dvd, solo più grandi. Già è difficile spiegare alle mie figlie, abituate a Muzu TV e Radio Italia TV, che si può ascoltare musica senza vedere il cantante che si agita fra inquadrature finto pop art. Spiegare che la musica sia raccolta in quei buffi dischi di plastica, poi.
Si mettevano lì, sul giradischi, bisognava far calare lentamente la puntina, e stare attenti che cadesse proprio all’inizio, altrimenti rischiavi di rovinare il disco. Questi più piccoli contenevano due sole canzoni, una per lato. E questi (ohoooo ma è grandisssssssimo papà!) invece ne contenevano una decina, cinque per lato. E quando finiva un lato dovevi togliere il disco e capovolgere. E non potevi riascoltare sempre la stessa canzone, o decidere in che ordine ascoltarle…Il disco si consumava un po’ alla volta, dopo ogni ascolto, come le nostre vite, al contrario del cd che rimane lì intonso e perfetto e poi basta un graffietto e non va più.
Però in compenso con i dischi avevi queste meravigliose copertine, e i testi delle canzoni dietro.
“Rainy night and we worked all day, we both got jobs ‘cause there’s bills to pay… We got something they can’t take away, Our love, our lives! You were born to be my baby, and baby, I was made to be your man, we got something to believe in, even if we don’t know where we stand…”
Mentre canto abbracciato al mio New Jersey mia figlia si è già allontanata, e io non posso fare a meno di domandarmi com’è che abbia speso quello che allora era un capitale di parecchie paghette per comprare “Like a prayer” di Madonna, o tutti quei 45 giri di Jovanotti, prima di lanciarmi su Bon Jovi e Kiss.
E faccio un salto ancora più indietro nel tempo, al mangianastri arancione della mia infanzia, che leggeva solo 45 giri e solo quando ne aveva voglia, e quella piccola raccolta di vecchi dischi caratterizzata dalle favole dei fratelli Grimm, l'”Isola di Wight” dei Dik Dik,”Ballo ballo” di Raffaella Carrà e poi, chissà com’era finito lì, “Revolution” dei Beatles. Quel riff di chitarra che ermergeva dai borbottii del mangianastri, quella sferzata di energia che emergeva dal fruscio come un faro oltre le nubi me la ricordo ancora, è la stessa che a quarant’anni mi fa spendere un capitale di paghette per il concerto dei Black Sabbath. Ma questa è un’altra storia.
Quando mia figlia tornerà, le mostrerò anche le audiocassette, e le farò vedere come riavvolgevo il nastro con le penne Staedler. Un’altra volta però, ormai non piove più.