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Un Ges? USA (e getta)

Sì all’omicidio preventivo, no alla minigonna. Le ultime novità di questi giorni che provengono dagli Stati Uniti mi fanno venire in mente Personal Jesus: una bella canzone scritta qualche anno fa dai Depeche Mode che causò parecchie polemiche, in cui raccontavano di un Gesù personale, disegnato ad uso e consumo delle nostre esigenze, pronto a perdonarci, ascoltarci, commiserarci. Il testo, che nello stile ammiccava a certi atteggiamenti di predicatori televisivi, era molto intelligente (solo gli ottusi possono averne tratto aspetti sacrileghi) e denunciava il vero problema della spiritualità dei nostri tempi: non è più l’uomo a essere creato a immagine di Dio, ma Dio che è una proiezione dei desideri dell’uomo. Gli atei potrebbero rispondere che è sempre stato così, le divinità sono creazioni degli uomini per spiegare ciò che è troppo grande o mitigare i dolori nell’illusione. Dal momento che sono un credente, non sono d’accordo: secondo me Dio c’è, si è fatto uomo perché credessimo, ci ha lasciato chiaramente intendere qual è il suo volere. Poi però ci sono tante immagini fasulle di Dio che proiettano solo i nostri interessi, vero anche questo. Hai voglia a interpretare le scritture: c’è scritto non uccidere, Francesco direbbe che la Parola di Dio va presa sine glossa, senza tanti giri di parole: non uccidere. Non si uccide. Eppure i cristianissimi americani non si scompongono se in guerra i loro soldati giustiziano sotto gli occhi delle telecamere degli iracheni feriti, se li torturano a morte, se sparano impunemente quando pare loro. Lì vale la legge marziale, non quella di Dio. Poi però gli stessi cristianissimi americani censurano le ragazze pon pon, perché con le loro gonne corte inducono al peccato. Amici americani, non scherziamo: liberi di credere al vostro dio usa e getta, godetevi pure questo vostro gesù bigottone, ottuso e guerrafondaio finché siete su questa terra: dopo, però, non rimaneteci male se l’altro, quello vero, non la pensa alla stessa maniera.
Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who cares
Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who?s there
Feeling unknown
And you?re all alone
Flesh and bone
By the telephone
Lift up the receiver
I?ll make you a believer…
Take second best
Put me to the test
Things on your chest
You need to confess
I will deliver
You know I?m a forgiver
Reach out and touch faith Reach out and touch faith

It wasn’t me!

Chi come il sottoscritto adora le avventure dei Simpsons avrà riconosciuto senz’altro la citazione: non sono stato io!, infatti, è l’espressione più frequentemente usata da Bart Simpson, il figlio maggiore scapestrato e discolo del cartoon americano. Colto sempre con le mani nel sacco, di fronte anche all’evidenza più indiscutibile, il piccolo eroe ha sempre la straordinaria faccia tosta e il sorriso angelico per dire “non sono stato io”. Le scenette in cui è coinvolto fanno sorridere anziché irritare perché alla fine i guai combinati da Bart non sono (quasi) mai irreparabili, perché si tratta di un bambino che in quanto tale più che essere un bugiardo ha una visione molto selettiva della realtà, perché alla fine Bart si pente e ammette le sue malefatte alle persone a cui vuole bene.
Se a dire “Non sono stato io”è un bambino di undici anni, anche se la sua colpa è evidente, occorre lavorare sul piano formativo, educarlo, incoraggiarlo alla verità. Senza fare tragedie. Ma se a dire “non sono stato io” è l’esercito della più grande potenza del pianeta che dopo aver trivellato di colpi un’autovettura e aver ucciso uno dei passeggeri, quel Nicola Calipari che stava compiendo eroicamente il suo dovere, se di fronte ad una realtà innegabile questo esercito inventa dei giri di parole che, alla fine, stringi stringi, lo scagionano da ogni colpa, cosa si può fare? Educarlo? Formarlo? Non credo sia così facile. Forse, però, se lo lasciamo solo, capirà che non si mente agli amici. Lo capirebbe anche un bambino di undici anni…

No Martini, no party.

In Papa Arinze c’ho sperato poco, dirò la verità. Era una specie di sogno che covavo ma che sapevo non si sarebbe realizzato: non dirò che la chiesa è razzista perché non è vero, ma certo qualche imbarazzo un pontefice nero l’avrebbe creato, ne sono sicuro. Non ho coltivato questo sogno con molta convinzione perché sapevo di avere poche possilità di vederlo realizzato, ma neanche ero pronto ad una simile delusione. Ratzinger? Ratzinger? Se me lo avessero detto un anno fa avrei pensato ad uno scherzo di cattivo gusto. Ho pregato per Martini con tutte le mie forze, ma non è bastato, e non riesco a unirmi al coro di entusiasmi. Addio matrimonio per i preti, addio donne sacerdote, addio sacramenti per i divorziati, addio maggiore collegialità. Non dirò che si apre un nuovo medioevo, ma certo se penso al cardinale Ratzinger penso alla nostalgia per la messa in latino con il sacerdote che volge le spalle all’assemblea; penso all’idea di cristianità come unica e sola verità (il che lascia intendere che le altre sono solo menzogne); penso al rifiuto della modernità. Il cardinale Ratzinger è un assolutista, nel senso che si oppone non solo al pensiero debole ma più in generale a quel relativismo che da Einstein in poi ci ha insegnato che tutto è relativo, persino il tempo, figuriamoci le idee.
Se penso al cardinale Ratzinger. Ma adesso non devo pensare più a lui, devo pensare a Benedetto XVI, e dargli fiducia. Che Dio ci benedica, ne abbiamo bisogno.

Paparinze paparinze paparinze…

“Sarà vero, dopo Miss Italia avere un papa nero? Non mi par vero…” cantavano alcuni anni fa i Pitura Freska, gruppo ska-reggae veneto. In effetti non pare vero a nessuno, se in questi giorni tutti sembrano escludere la possibilità che sia eletto un papa di colore. La chiesa non è ancora pronta, avrebbe ammesso Arinze, cardinale nigeriano, l’unico uomo di colore che potrebbe ambire alla carica di successore di Pietro. Se non ce l’ha fatto Gatin nel 78 (altro porporato africano piuttosto influente all’epoca), non ce la farà neanche Arinze. La chiesa non è pronta, si dice. Non sono stati sufficienti 2000 anni di tradizione a preparare l’avvento di un papa di colore? Si dice che la popolazione cattolica africana è troppo esigua per ambire a questo riconoscimento; sono comunque più numerosi di noi italiani, che pure candidiamo più di un pretendente (mi sia perdonato questo linguaggio da bassa politica, lo uso perché efficace anche se poco elegante). Si dice che la tradizione del cattolicesimo è europea, occidentale; ho qualche dubbio, visto che Gesù stesso era indiscutibilmente ebreo, e probabilmente non era biondo con gli occhi azzurri come spesso raffigurato. E anche il primo papa, Pietro, non era proprio italiano (e c’aveva pure famiglia, ma questa è un’altra storia). E Sant’Agostino, tanto per citare un santo non proprio di secondo livello, era indiscutibilmente africano, anche se non di colore (nacque in Numibia). E poi, se ci fosse un papa di colore italiano, o francese, o messicano verrebbe eletto? Ho i miei sospetti.
Io spero in Papa Arinze. Spero nella vitalità e nella gioia della chiesa africana. Nella speranza di riscatto che un papa di colore può portare a quella gente. Suona anche bene, paparinze paparinze paparinze. Se la chiesa non è pronta, che si prepari…

Arrivederci Karol

Dopo il chiasso famelico e irrispettoso dei mass-media e prima che cominci il progressivo distaccamento del messaggio, umano e concreto del papa, dalla figura mitica e agiografica che creeranno (la sua salma è davanti ai nostri occhi e già si parla di Giovanni il Grande…Speriamo solo non si generino fenomeni laterali come per Padre Pio, sarebbe il più grande tradimento del suo operato), voglio spendere due parole per Karol Woytila. Lo farò sottovoce e in punta di piedi, perché è di altri il compito di commentare, spiegare, raccontare quest’uomo straordinario.
Per me lui è sempre stato il Papa: avevo tre anni quando fu eletto e non potevo certo ricordarmi dei suo predecessori. Ricordo benissimo però quel giorno di maggio, avevo solo sei anni ma quell’immagine di una pistola che sbuca dalla folla puntata verso un uomo sorridente mi rimase impressa.
Ma ancora più impressa nella mia memoria è l’immagine di sei anni dopo, 1987, gita scolastica a Roma. La piazza è la stessa, e quell’uomo trafitto da un proiettile non ha paura di continuare a girare e a salutare i presenti. Allungo la mano insieme agli altri, lui me la stringe, e penso che se la base del nostro credere è la convinzione che Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi, allora il suo vicario non può che stare qui, in mezzo ai ragazzini che lo salutano, in mezzo agli africani che lo vedono per la prima volta, in mezzo ai contadini dei villaggi rurali più sperduti dell’Asia, in mezzo ai parlamentari, in mezzo ai giovani che raduna.
Il terzo incontro fu altrettanto bello: stavolta non fui io ad andare a Roma (ci ero tornato nel 1988 con l’Azione Cattolica, un diluvio che ha segnato l’esordio nella mia esistenza dei reumatismi) ma lui a venire a Taranto. Un papa a Taranto! Davvero Giovanni Paolo II merita di passare alla storia, almeno a quella della mia città d’origine. Due giorni di bagno di folla conclusasi nello stadio, con un altro spezzone da tenere custodito nel cassetto dei ricordi: i ragazzi fanno la ola, si alzano al ritmo della musica, la curva, poi le tribune, poi la gradinata…Giovanni Paolo saluta contento, decide di partecipare, e comincia a fare la ola anche lui, quando il movimento arriva dalle sue parti.
Un papa che fa olè con le mani al cielo.
Tralasciando altre visite a Roma passo a Parigi 1997, un milione e più di ragazzi con 40 gradi e un tasso di umidità da palude, una notte all’aperto con lui e per lui, una settimana di festa; e Bologna 1997, è ancora lui ma stavolta a dividere il palco con Karol è Bob Dylan, alla faccia di tutti quei clerici blateranti che dicono che il rock è di Satana e la vera musica è quella dell’organo. Si può lodare il Signore anche con il rock, anche con i balli africani, anche con il ritmo latino, che sono pure più – diciamocelo – divertenti dei canti gregoriani.
E ancora Roma, 1998, 9 maggio (oddio se sbaglio data sono un uomo morto), incontro della Gioventù Francescana con il Papa, giorno per me importante perché proprio in quell’occasione mi sono messo insieme alla mia fidanzata, per cui la mia piccola storia si interseca con quella grandissima di Giovanni Paolo. E poi, e poi…
Basta chiacchiere. Arrivederci, Karol, è stato bello conoscerti e vedere come si può rendere testimonianza con la vita prima che con le parole. Ma siccome di parole è fatto un blog, ne cito alcune tue che porto impresse, tra tante:

La guerrà è un’avventura senza ritorno.

Mai più la guerra.

Buon viaggio, goditi questo ingresso in paradiso tra due fila di angeli che fanno la ola gridando olè seguendo il ritmo con le braccia alzate al cielo…

La nonnetta graffiante

La nonnetta va a prendere il nipote all’asilo, torna a casa e scopre che un fuoristrada occupa il posteggio per disabili. Irritata dall’oltraggio, la signora si avvicina al mezzo e con le chiavi gli lascia un graffio sulla fiancata, senza per altro accorgersi che l’auto non è vuota e ci sono dei testimoni. ? successo a Quattro Castella, vicino a Reggio Emilia.La storia è paradossale, per certi versi divertente, per altri inquietante. Ci sono tutti gli ingredienti della inciviltà in cui stiamo affondando. Prima di tutto, il fuoristrada, questo mostro che, come la parola stessa dice, non dovrebbe stare in strada, questo monumento alla prepotenza, allo spreco, alla disonestà (3 volte su 4 è di professionisti o imprenditori che scaricano le tasse facendolo risultare autocarro, suvvia non prendiamoci in giro). Il fuoristrada rappresenta bene il degrado della nostra cultura, è un esempio evidente della barbarie in cui stiamo precipitando, ci rappresenterà nei libri di storia: dopo l’età del bronzo, dell’oro, il medioevo e l’età moderna, l’era del fuoristrada. Stavolta perà il fuoristrada è vittima, perché, diciamolo pure, ormai sono talmente odiosamente ingombranti che finiamo per essere razzisti e intolleranti nei loro confronti. Poi c’è la violenza da giustizieri: graffiare un auto non è giusto, non è elegante, non risolve i conflitti, e non è neanche particolarmente furbo, se c’è qualcuno in auto. Poi c’è l’arroganza di chi occupa i posti macchina per disabili, e quella dei disabili, anche loro, che li ritengono una proprietà privata inviolabile. E sì, perché pare che anche il fuoristrada avesse il diritto di parcheggiare lì. Cosa ci faccia un disabile con un fuoristrada, o peggio ancora, come faccia il signorotto del fuoristrada a procurarsi un contrassegno da disabile, questa è un’altra storia. Con gli stessi brutti ingredienti.