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Su e giù per i monti

La lettura di quest’opera può procurare due differente reazioni nel lettore. Nel primo caso, costui si procurerà al più presto scarpe da trekking, bussola, gps e mappe per scoprire in prima persona gli straordinari paesaggi raccontati da Enrico Barbetti.

Nel secondo caso, si procurerà al più presto una comoda poltrona, pantofole e magari qualcosa da bere in attesa che esca un secondo volume di questo meraviglioso libretto.

Ovviamente io appartengo alla seconda categoria, perché pur conoscendo molte delle zone dell’Appennino bolognese (con qualche sconfinamento dei territori limitrofi di Modena e Toscana) che Enrico descrive con minuzia di particolari nel suo testo, mi sono limitato a una conoscenza superficiale, istituzionale direi. Non sono mai andato oltre la strada asfaltata.

È proprio al di là degli spazi dove parcheggiare e partire con una borraccia, qualcosa da mangiare e l’abbigliamento adeguato (a proposito: nessuno andrebbe in spiaggia con stivali e cappotto: perché alcuni pretendono di affrontare un sentiero di montagna con i pantaloncini corte e le scarpe di cotone?) che iniziano le avventure dell’autore.

Appassionato di cammini, di montagna e di storia, Barbetti fonde meravigliosamente questi tre universi: ci sembra di essere accanto a lui mentre, un po’ seguendo i cammini del CAI, un po’ facendo di testa propria, esplora villaggi fantasma, dove le ultime tracce lasciate dagli uomini risalgono a decine di anni fa, vette inesplorate dalle quali apprezzare il panorama (ma se non c’è meglio: poco panorama, pochi turisti sporcaccioni), boschi rigogliosi e ruscelli d’acqua incontaminata.

Lo vediamo attraversare guadi, arrampicarsi su per sentieri battuti solo da cervi, scoprire borghi incantati difficili da raggiungere dal turista tradizionale ma proprio per questa ragione più affascinanti.

Nonostante viaggi solitario e in apparenza si compiaccia di questa condizione, in realtà quello dell’autore è un percorso alla ricerca degli ultimi testimoni di queste zone. A volta storici dilettanti, a volte professori tornati nelle case degli antenati, a volte umili contadini. Quello che accomuna le persone che Enrico incontra e intervista è la passione per l’Appennino, una terra dura, poco ospitale forse, ma di cui è difficile liberarsi dopo essersene innamorati. In fondo il giornalista è uno storico della contemporaneità, e questo ruolo ben si adatto all’autore.

Sì, lo so, un buon articolo giornalistico avrebbe avuto un apertura con titolo, sinossi e biografia dell’autore, ma in questo blog io rispetto a malapena le regole di grammatica, per cui lo scrivo adesso. Il libro di cui vi ho parlato si chiama “Storie e sentieri dell’Appennino”, edito da  Biblioteca Clueb, l’autore è un valente giornalista del Resto del Carlino, Enrico Barbetti.

Se vi piace camminare, leggetelo. Se non vi piace camminare ma vi piace l’Appennino, leggetelo. Se non vi piace camminare e nemmeno l’Appennino leggetelo lo stesso, perché la lingua precisa di Barbetti suona elegante e leggera tra le pagine e vi dispiacerà accorgervi di essere arrivati in fondo.

Io intanto sono già sul divano che aspetto il secondo volume.

Le terribili leggende di Agata Matteucci

Se per i libri ho sempre provato un sentimento di affetto, quelli che mi fanno ridere li amo davvero. La risata provocata dalla parola scritta, o dal fumetto, ha una potenza generata dal percorso tortuoso che porta all’esplosione. Il cervello riceve il messaggio, lo codifica, coglie l’allusione, annuisce e muove la leva magica: ok gente, qui c’è da ridere. Sono molto curioso a tal proposito di capire se l’intelligenza artificiale sarà mai capace di fare buone battute. Dubito. Al limite potrà replicare strutture alla base del linguaggio comico, ma una battuta è un guizzo di genio, non è l’esito di un algoritmo.
E parlando di libri che mi hanno molto fatto ridere, voglio suggerirvi
“Le terribili leggende metropolitane che si tramandano i bambini” di Agata Matteucci. Si tratta di un agile volumetto che ripercorre una serie di leggende metropolitane mescolate a principi educativi condivisibili ma con esiti oggettivamente ridicoli di cui siamo stati vittime noi nati negli anni settanta o ottanta. La comicità visiva di Matteucci ripercorre la tradizione di grandi come Schulz, Quino o Scott Adams, con una peculiarità: l’effetto comico qui non è dato da una sequenza di tre o quattro vignette, ma si concentra in un’unica immagine.
Una rappresentazione dissacrante e sarcastica del testo di accompagnamento che, appunto, richiama queste paura.

Il libro è uno di quelli che, appena lo hai tra le mani, ti vien voglia di chiamare qualcuno per condividere con lui la risata di una vignetta. Lo consiglio per serate con amici, o anche per tirarsi un po’ di morale in un momento non dei migliori.

Se corri la polizia ti spara

Tanto fanno ridere anche a una seconda o terza lettura, e hanno quel
tocco un po’ pulp che piacerà molto ai vostri figli.  Mi raccomando però, non fate le boccacce mentre lo leggete, perché se in quel momento passa l’angelo e dice “amen” vi rimane il viso bloccato nella smorfia per sempre.

Il nano rapito, di Lorena Lusetti

Il “Nano rapito” è la quinta avventura di Stella Spada, un’investigatrice privata il cui nome è tutto un programma. Se infatti è in parte una Stella, cioè una persona buona, altruista, persino luminosa, in parte però rimane spada, cioè vendicatrice, violenta e priva di scrupoli. Un connubio insolito per un personaggio femminile cinico, che sembra trascinarsi in una vita che non le appartiene ma all’interno della quale si affanna alla ricerca di una precisa collocazione.

Per chi non avesse letto gli altri romanzi della serie, occorre dire almeno che Stella arriva a questa professione quasi per caso, dopo aver perso il più tranquillo impiego di segretaria che l’aveva occupata in precedenza. E seppur priva di una formazione specifica, la protagonista di queste vicende dimostra di avere una tecnica infallibile e soprattutto una tenacia e un coraggio che la distinguono da certi cliché della narrativa poliziesca, in cui le donne sono dipinte troppo spesso come vittime indifese.

L’autrice Lorena Lusetti scrive in prima persona, per cui il mondo che vediamo è il mondo filtrato dagli occhi di Stella, una donna che come tanti bolognesi ama a tal punto la sua città da soffrire l’allontanamento, anche per pochi giorni. In questi caso il presunto omicidio su cui Stella è chiamata a investigare è a Badi, sul lago di Suviana, incantevole angolo dell’Appennino bolognese. Quando gli incidenti che colpiscono la famiglia Doria con annegamenti nel lago cominciano a ripetersi, il dubbio che dietro ci sia la mano umana si fa consistente.

“Il nano rapito” è una commedia nera riuscita soprattutto nella descrizione della famiglia di parenti serpenti, uno dei capisaldi della letteratura e del cinema italiano che l’autrice rinnova con invenzioni e richiami che per un attimo ci danno l’impressione di non essere a un’ora da Bologna ma magari sulle rive del lago di Lochness, o a Cabot Cove. Intorno alla protagonista si muovono un serie di personaggi che con tempi quasi teatrali entrano, affiancano la protagonista  e poi lasciano la scena.

Altra peculiarità molto moderna dell’autrice è quella di intrecciare la vicenda principale con storie secondarie, subplot che agevolano il ritmo narrativo. Il nano rapito del titolo è infatti il protagonista di una di queste indagini “minori”, cioè il nano Orfeo che qualcuno ha fatto sparire dall’aiuola della Arena Orfeonica.

Come spesso nella serie di Stella Spada (che magari, dopo aver letto questo romanzo, qualcuno potrebbe aver voglia di approfondire) ci sono poi personaggi minori interessanti, alcuni stabili, come l’ex-marito e l figlio di Stella, altri di cui non sappiamo se vale la pena affezionarci, come il nuovo assistente Giacomo. Chissà se sopravviverà a lungo accanto a una donna così pericolosa? Lo scopriremo nelle prossime avventure dell’investigatrice,

Ad ogni costo, di Cristina Orlandi

Le storie che racconta in questo romanzo sono brutte, molto brutte. Ma vanno narrate, anzi farlo è quasi un dovere per chi si sente in grado di portare questa responsabilità, perché sono storie vere o comunque verosimili.

Cristina Orlandi infatti ci racconta di donne vittime di violenza, e lo fa sulla base di quello che le hanno confidato alcune donne che sono riuscite a liberarsi dalla violenza assassina dei loro compagni prima che fosse troppo tardi. Grazie anche al meritevole e prezioso lavoro della Casa delle donne per non subire violenza onlus, associazione che in quasi trent’anni a Bologna ha accolto e sostenuto oltre 12 mila donne e i loro figli.

Donne come Serena, proveniente già da un ambiente familiare difficile, fuggita di casa in cerca di un futuro migliore per finire invece tra le braccia di un principe azzurro che si rivelerà il più spietato degli orchi. L’autrice non giudica, non punta il dito, non indulge in particolari raccapriccianti, ma la sua prosa pacata riesce comunque a scuotere e impressionare il lettore.

Perché storie come quella di Elisa, convinta dal suo “ragazzo” a prostituirsi e poi minacciata, sono storie che potrebbero capitare anche a persone a noi vicine. Che capitano, anzi, e frequentemente, come la cronaca quotidiana ci mostra. E l’aspetto più toccante è che queste donne finiscono spesso per sentirsi in colpa, quasi che la violenza che subiscono sia giustificata, sia la conseguenza di un loro cattivo comportamento.

L’immagine più bella però che questo romanzo ci lascia è quello di Serena che affronta l’inverno bolognese con un paio di scarpe estive di tela, perché le sono rimaste solo quelle: il compagno violento l’ha privata di tutto. Ma non della libertà e dell’amore di suo figlio.

Ad ogni costo, di Cristina Orlandi, Edizioni del loggione. Pag. 146, 12 euro.

PS Il titolo in realtà è A ogni costo, senza di eufonica. Quella l’ho aggiunta io (ghigno)

Sotto il sole di Damasco, di Sabrina Leonelli

Se pensate che un romanzo che tratta di sentimenti tra uomo e una donna, quelli che una volta si chiamavano rosa e oggi hanno importato l’etichetta romance, debba risolversi in una favoletta con una fanciulla ingenua che dopo diverse peripezie incontra l’uomo della sua vita, un principe valoroso, bello e ricco, allora questo non è il romanzo che fa per voi.

Perché è vero che la narrazione è incentrata su una storia d’amore, ma la prosa elegante e raffinata dell’autrice non teme i passaggi più cupi e disperati, quelli in cui la scrittura sembra affondare le mani nella materia scura nella violenza più turpe, per estrarne momenti drammatici ma proprio per questo più veri. La storia infatti si dipana tra i sobborghi di Marsiglia, dove facciamo conoscenza con la protagonista, Giselle, i palazzi da mille e una notte di una Damasco ancora non sconvolta dalla guerra civile e le periferie più disperate della regione siriana dove la dignità della donna viene brutalmente calpestata (ma non succede solo lì, purtroppo).

Giselle è una giovane circense sfruttata dal padre, un amabile signore che la fa esibire in strada, preoccupandosi soprattutto dei ritorni economici di quella che è poco più di una bambina. Un incendio distrugge la baracca in cui l’artista libera vive con la figlia, segnando per sempre Giselle e lasciando tracce indelebili sulla sua pelle. A quel punto quel gentiluomo del padre anziché continuare a venderla a rate, passa direttamente al passaggio di proprietà, cedendola ad un uomo d’affari, il maturo siriano Tariq. Costui è il personaggio più interessante da un punto di vista narrativo, perché da un lato rispetta la sua giovanissima sposa e si preoccupa della sua felicità, dall’altra non disdegna comportamenti e modi di fare da padrone, più che da marito. Fondamentalmente però è uno s*****o anche lui, sia chiaro, come buona parte dei maschi che partecipano a  questa vicenda, dall’autista spione all’amico puttaniere. Il più pulito c’ha la rogna, insomma. Tutti da buttare?  Tutti tranne uno (e meno male che l’autrice ne salva uno, c’è ancora speranza insomma per il cromosoma X), Quasim, che condivide con Giselle la passione per la danza.

Non a caso infatti l’autrice tratteggia una Siria che per certi versi ricorda la Romania di Nadia Comaneci e lo sport, o l’arte, come volano per raggiungere la libertà.

Non sono un lettore di romanzi rosa, ma la forza narrativa di Leonelli supera i confini dei generi, come tipico degli scrittori più capaci, e ci accompagna in una storia in cui ci sembra di essere davvero lì, a un passo dai protagonisti, a osservare da vicino i loro comportamenti, a fare il tifo per i buoni e aver voglia di schiaffeggiare i cattivi.

E meno male che l’autrice non sa che siamo maschi bianchi occidentali perché altrimenti ne avrebbe anche per noi!

 

Sabrina Leonelli, Sotto il cielo di Damasco, Edizioni del Loggione, pag. 100, 10 €

Grand Tour Bologna

Grand Tour BolognaNell’epoca della multimedialità alla portata di tutti, delle foto ad altissima risoluzione e delle recensioni che si aggiornano in tempo reale, “Grand Tour Bologna” della casa editrice Pendragon è prima di tutto un’operazione editoriale coraggiosa. Perché si tratta di una guida turistica compatta, dedicata con affetto e maniacale attenzione a Bologna, alla sua vita culturale e commerciale, alle sue mode e ai suoi gusti, essenzialmente e fondamentalmente cartacea. Niente sito, per ora, niente contenuti via socialnetwork, niente cd-rom (si vabbe’ il cd-rom allegato fa tardo paleolitico, mi scuso per quest’ultimo commento). Una guida fatta quasi escusivamente di contenuti, non vi troverete infatti foto o illustrazioni: per quelle d’altronde basta farsi un giro in libreria per trovarne a bizzeffe, oppure accedere a Internet. In compenso però troverete quel genere di informazioni che vi darebbe un amico che vi consiglia un bar dove fanno un’ottima cioccolata in tazza, o che vi suggerisce un festival da non perdere, oppure un negozietto dove trovare dei prodotti veramente insoliti. Tante notizie per scoprire e riscoprire la città (a proposito, i cinquantenni con i primi problemi da vicino si rassegnino agli occhiali, per farci stare più roba le autrici hanno usato un corpo da bugiardino farmaceutico). Quel genere di informazioni che nelle guide tradizionali appaiono magari come contorno, nella colonna colorata accanto alla foto della piazza.

Informazioni che nascono dalla passione per la città felsinea che emerge tra le righe e che le due giornaliste Giorgia Olivieri e Francesca Bleasio non riescono proprio a nascondere. E sia ben chiaro, non troverete i soliti publiredazionali che dietro una bella recensione nascondono una lauta mancia al giornalista. Perché la credibilità di questo libro nasce proprio dal fatto che racconta angoli della città, esperienze e storie che gli altri non solo non recensiscono, ma non vedono proprio. Insomma, una guida (a proposito, io la considero guida turistica senza che ciò rappresenti un discredito, anzi: si tratta di un genere letterario di tutto rispetto e con un glorioso passato che anzi andrebbe riscoperto, perché le stelle e i voti dei portali online non restituiscono il colore di uno sguardo autoriale) che mi sento di consigliare sia ai bolognesi, che in questo modo, sono sicuro, scopriranno qualcosa che non conoscono della loro città, sia ai turisti e ai visitatori. Magari da affiancare ad una guida “istituzionale”, di quelle con le foto dei monumenti e i numeri utili insomma, giusto per avere il pane da associare al companatico.
PS Di recente è stata resa disponibile anche la versione in inglese. Ma se avete letto fin qui, evidentemente, non vi serve: ma sai che figura se lo regalate al nipote d’America che ha dimenticato la lingua madre?