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Non volevo fare il sindaco, di Marco Mastacchi

Quando ho letto il titolo del libro del mio amico Marco Mastacchi, il mio primo pensiero è stato: dovrei rispondergli con un “Non volevo fare il dipendente comunale“.

Per chi non lo sapesse, Marco per dieci anni è stato sindaco di Monzuno, a partire dal maggio 2009. Periodo che è coinciso in buona parte con la mia esperienza alle pendici di Monte Venere (io arrivai come dipendente nel dicembre 2009 e lasciai il Comune nello stesso periodo del 2020).

In questo interessante libro autobiografico Marco Mastacchi ripercorre le tappe della sua esperienza amministrativa, in un viaggio in cui lettore è accompagnato a scoprire il difficile ruolo di primo cittadino nei piccoli comuni, per di più in montagna (Monzuno ha più o meno 6500 abitanti, in parte a 600 metri sul livello del mare, in parte nelle due vallate di Vado e Rioveggio). Perché dovete sapere – qui apro e chiudo una breve parentesi, il resto lo racconterò se davvero scriverò un libro su quegli anni – che per il legislatore italiano, fatte alcune limitate eccezioni, gli adempimenti, gli obblighi e le responsabilità sono gli stessi sia che tu amministri un ente con migliaia di dipendenti, sia che debba arrangiarti con una trentina di indomiti eroi. Ed è una follia.

Detto questo, del libro di Marco ho individuato tre principali direttive. La principale si sofferma, come sarebbe facile attendersi, sulla sua idea di politica. Marco rivendica il suo principio per cui un sindaco debba lavorare per risolvere i problemi dei suoi cittadini libero da orpelli ideologici. Nella sua visione asfaltare le strade o trovare i soldi per sistemare una palestra scolastica non è questione di destra o sinistra, ma di buon senso e buona amministrazione. Che poi è la cifra dei suoi movimenti politici civici: in Comune prima e in Regione dopo, dove è stato eletto consigliere regionale, Mastacchi si colloca in un centrodestra critico ma “collaborativo”, che non alza steccati pregiudiziali nei confronti delle proposte della maggioranza. Ad ogni modo, chi volesse piò approfondire questa prospettiva politica leggendo il libro: come Marco ben sa, ho sempre rivendicato il principio per cui l’addetto stampa non è il portavoce del politico, non comincerò certo adesso a smentirmi.

La seconda colonna portante riguarda le esperienze, le vicende di quegli anni, dalle nevicate di mezzo metro ai tagli per far quadrare i bilanci.

Marco racconta notti passate nella caserma dei carabinieri nei giorni in cui – e succede più spesso di quanto non dovrebbe – rappresentavano, grazie ai generatori, l’unico ambiente pubblico in cui si riusciva a operare. A causa delle forti nevicate, infatti, capitava di sovente che mancassero corrente elettrica e gas a causa di qualche traliccio caduto, Neanche i telefoni funzionavano, ci sentivamo qualche volta al giorno via sms e da lì informavo giornali e televisioni dell’evolversi della situazione.

Ci furono poi i giorni della camminata a piedi fino a Roma: una forma pacifica di protesta in cui il sindaco chiedeva all’allora governo Renzi di allentare la stretta sugli enti locali. Sostenuto anche da parecchi sindaci di centrosinistra. Stretta che, aggiungo io, negli ultimi due anni è tornata a fare male più che mai sulle amministrazioni locali.

E poi il crollo della palazzina a Vado nel maggio del 2010. Lo ricordo bene perché per un fine settimana ero tornato in Puglia per un matrimonio, le prime vacanze da quando lavoravo in Comune, e quando rientrai mi ritrovai la Rai e Sky con le loro dirette a raccontare la vicenda. Per fortuna non ci furono vittime perché l’edificio era stato sgombrato per tempo.

Forse è questa la parte più bella del racconto, senza nulla togliere alle altre, ma è perché dalle vicende di vita vissuta che si capisce cosa voglia dire indossare la fascia tricolore oggi. Personalmente mi vengono in mente tanti altri episodi che avrebbero meritato di essere narrati, in alcune circostanze mi sono trovato a pensare: ma come, ti fermi qui? E non racconti invece di quello che successe poi? Ma queste sono reazioni legate al fatto che in quelle località ho lavorato per undici anni.

La terza parte è quella che occupa i primi capitoli, ma che a me è parsa poi l’ossatura di tutto il libro e forse, azzarderei, del credo amministrativo e politico stesso di Marco Mastacchi. Marco rivendica con orgoglio che si possa essere antifascisti e conservatori, o moderati, o liberali, ditela come volete. In effetti è un peccato che una parte fondamentale degli eredi degli antifascisti (i cattolici, gli azionisti, i liberali, persino i monarchici) sembrino aver dimenticato le loro origini, finendo per mescolarsi con gli eredi di quelli che tifavano per Hitler. E facendo sì che l’antifascismo diventasse prerogativa di una parte, la sinistra, unica oggi a rivendicarne i valori. Se il 25 aprile oggi è da qualcuno considerato divisivo, è proprio perché si dimentica il contributo fondamentale di tanti italiani non di sinistra.

Anche in questo caso il libro – che non è certo un trattato sociologico – parte da una vicenda che ha toccato da vicino Marco Mastacchi: dopo l’8 aprile suo padre fu infatti internato in un campo di concentramento in Germania, come accadde a tanti italiani che improvvisamente si ritrovarono senza una guida. Il cugino di suo padre, Gino Mastacchi, uno dei sopravvissuti alla tragica spedizione in Russia dell’Armir, fu invece un partigiano. E che partigiano, verrebbe da dire: militava infatti nella brigata Stella Rossa, dove faceva infatti da interprete al mitico Karaton, soldato partigiano che guidava una truppa di una quarantina di sovietici che combatterono i nazisti in Appennino, fino all’eccidio di Monte Sole.

Marco non si vergogna affatto di queste parentele, anzi ne scrive con giusto e motivato orgoglio.

Il giorno che l’antifascismo sarà un valore di tutti, destra e sinistra, e non un randello da usare contro gli avversari quando non si hanno argomenti migliori, sarà un gran giorno per la democrazia italiana. Chissà se Marco e io vivremo abbastanza per vederlo, quel giorno. Le prospettive non sono delle migliori.

La vegetariana, di Han Kang

Quando ci si accinge a recensire un romanzo di cui si è molto parlato, perché l’autrice ha di recente vinto il premio Nobel per la letteratura, si corrono diversi rischi.

Il primo è quello dell’omologazione: intrupparsi nel coro dei benedicenti per dimostrare di avere una cultura raffinata che coglie bene le valutazioni dei professori di Oslo. Il secondo, di segno opposto, è lo snobismo: elevarsi a saccente intellettuale che supera le mode del momento criticando aspramente ciò che la maggior parte delle persone apprezza.

Il terzo rischio è quello dell’incomprensione: non capire il romanzo, non capirne il successo, non coglierne le qualità. Leggerlo a fatica, con un crescente senso di smarrimento.

Siccome è il mio caso, parto col dire che la mia non è una recensione, che presupporrebbe quanto meno di aver interpretato il senso che l’autore ha attribuito all’opera; è la cronaca di una faticosa opera di lettura.

La storia, per chi non lo sapesse già, è quella di una nevrosi, dei suoi effetti sulla persona malata e su chi gli sta vicino: marito, genitori, cognato, sorella.

Le fasi che mi hanno accompagnato in questa impresa sono state caratterizzate, nell’ordine, da curiosità, incredulità, ribrezzo, noia, gioia. Il tutto condito da un sentimento di disturbante incapacità di immergersi in una vicenda in cui tutto appare sofisticatamente finto.

La curiosità ovviamente è quella di leggere un romanzo così lontano dai mie canoni di lettura abituali (leggo preferibilmente letteratura poliziesca ma non disdegno autori contemporanei quasi sempre statunitensi e i classici del Novecento). L’incredulità ha cominciato a fare capolino man mano che affrontavo la lettura: trascinare un aratro su un campo di sassi sarebbe stato più agevole. Per carità, scrittura cristallina, mai un aggettivo fuori posto o un costrutto di difficile comprensione, ma un senso di disagio immanente che si faceva via via più opprimente. Sul ribrezzo sorvolo, ormai ho capito che se oggi non inserisci qualche passaggio oggettivamente ripugnante nei tuoi romanzi non sei nessuno (mi riferisco a dettagli fisici, anatomici, biologici che possono urtare la sensibilità del lettore generando repulsione).

E poi noia, noia, noia. Lo so, lo conosco anch’io il decalogo di Pennac, ma non ce l’ho fatta a mettere da parte questo romanzo. Nonostante una trama lenta, immobile direi, nonostante l’impressione di trovarmi di fronte a un rantolo afono di dolore che ha l’unico obiettivo di trasferire per osmosi l’angoscia al lettore, ho voluto proseguire. A volte basta una frase straordinaria a giustificare la lettura di un intero romanzo. Non l’ho trovata, ma forse gli sbadigli hanno contribuito a farmi distrarre.

La gioia, ovviamente, è stata quella di essere uscito da questo tunnel di disperazione compiaciuta, di aver chiuso per sempre una lettura che può darsi abbia intenti terapeutici, come una sorte di omeopatia del disagio (“Sai che ti dico? Ora che ho letto di Yeong-hye, mi rendo conto che la mia vita non fa poi così schifo”).

Poi mi aspetto che questa mia esperienza negativa metta in evidenza i limiti della mia sensibilità, l’incapacità di calarmi nel dramma. Ma è proprio questo, il punto: il dramma lo viviamo già quotidianamente, le malattie mentali sono una piaga dei nostri tempi in cui riusciamo a curare tutto fuorché l’anima. Leggerne una cronaca dettagliata non mi procura alcun piacere, e per me la lettura deve essere sempre un piacere. Anche quando si legge un libro di guerra o un resoconto di Auschwitz, si prova in fondo un piacere che non è quello del sadico, ma quello di chi ama sapere, essere informato. Purtroppo, di questo piacere non c’è stata traccia, ma è un limite della mia esperienza, non del romanzo. A voi maggioranza cui è piaciuto chiedo comprensione: ci ho provato, non ce l’ho fatta, siate misericordiosi.

[ALLERTA SPOILER]

Alla fine, che ve lo dico a fare, è sempre colpa dei padri

Su e giù per i monti

La lettura di quest’opera può procurare due differente reazioni nel lettore. Nel primo caso, costui si procurerà al più presto scarpe da trekking, bussola, gps e mappe per scoprire in prima persona gli straordinari paesaggi raccontati da Enrico Barbetti.

Nel secondo caso, si procurerà al più presto una comoda poltrona, pantofole e magari qualcosa da bere in attesa che esca un secondo volume di questo meraviglioso libretto.

Ovviamente io appartengo alla seconda categoria, perché pur conoscendo molte delle zone dell’Appennino bolognese (con qualche sconfinamento dei territori limitrofi di Modena e Toscana) che Enrico descrive con minuzia di particolari nel suo testo, mi sono limitato a una conoscenza superficiale, istituzionale direi. Non sono mai andato oltre la strada asfaltata.

È proprio al di là degli spazi dove parcheggiare e partire con una borraccia, qualcosa da mangiare e l’abbigliamento adeguato (a proposito: nessuno andrebbe in spiaggia con stivali e cappotto: perché alcuni pretendono di affrontare un sentiero di montagna con i pantaloncini corte e le scarpe di cotone?) che iniziano le avventure dell’autore.

Appassionato di cammini, di montagna e di storia, Barbetti fonde meravigliosamente questi tre universi: ci sembra di essere accanto a lui mentre, un po’ seguendo i cammini del CAI, un po’ facendo di testa propria, esplora villaggi fantasma, dove le ultime tracce lasciate dagli uomini risalgono a decine di anni fa, vette inesplorate dalle quali apprezzare il panorama (ma se non c’è meglio: poco panorama, pochi turisti sporcaccioni), boschi rigogliosi e ruscelli d’acqua incontaminata.

Lo vediamo attraversare guadi, arrampicarsi su per sentieri battuti solo da cervi, scoprire borghi incantati difficili da raggiungere dal turista tradizionale ma proprio per questa ragione più affascinanti.

Nonostante viaggi solitario e in apparenza si compiaccia di questa condizione, in realtà quello dell’autore è un percorso alla ricerca degli ultimi testimoni di queste zone. A volta storici dilettanti, a volte professori tornati nelle case degli antenati, a volte umili contadini. Quello che accomuna le persone che Enrico incontra e intervista è la passione per l’Appennino, una terra dura, poco ospitale forse, ma di cui è difficile liberarsi dopo essersene innamorati. In fondo il giornalista è uno storico della contemporaneità, e questo ruolo ben si adatto all’autore.

Sì, lo so, un buon articolo giornalistico avrebbe avuto un apertura con titolo, sinossi e biografia dell’autore, ma in questo blog io rispetto a malapena le regole di grammatica, per cui lo scrivo adesso. Il libro di cui vi ho parlato si chiama “Storie e sentieri dell’Appennino”, edito da  Biblioteca Clueb, l’autore è un valente giornalista del Resto del Carlino, Enrico Barbetti.

Se vi piace camminare, leggetelo. Se non vi piace camminare ma vi piace l’Appennino, leggetelo. Se non vi piace camminare e nemmeno l’Appennino leggetelo lo stesso, perché la lingua precisa di Barbetti suona elegante e leggera tra le pagine e vi dispiacerà accorgervi di essere arrivati in fondo.

Io intanto sono già sul divano che aspetto il secondo volume.

Le terribili leggende di Agata Matteucci

Se per i libri ho sempre provato un sentimento di affetto, quelli che mi fanno ridere li amo davvero. La risata provocata dalla parola scritta, o dal fumetto, ha una potenza generata dal percorso tortuoso che porta all’esplosione. Il cervello riceve il messaggio, lo codifica, coglie l’allusione, annuisce e muove la leva magica: ok gente, qui c’è da ridere. Sono molto curioso a tal proposito di capire se l’intelligenza artificiale sarà mai capace di fare buone battute. Dubito. Al limite potrà replicare strutture alla base del linguaggio comico, ma una battuta è un guizzo di genio, non è l’esito di un algoritmo.
E parlando di libri che mi hanno molto fatto ridere, voglio suggerirvi
“Le terribili leggende metropolitane che si tramandano i bambini” di Agata Matteucci. Si tratta di un agile volumetto che ripercorre una serie di leggende metropolitane mescolate a principi educativi condivisibili ma con esiti oggettivamente ridicoli di cui siamo stati vittime noi nati negli anni settanta o ottanta. La comicità visiva di Matteucci ripercorre la tradizione di grandi come Schulz, Quino o Scott Adams, con una peculiarità: l’effetto comico qui non è dato da una sequenza di tre o quattro vignette, ma si concentra in un’unica immagine.
Una rappresentazione dissacrante e sarcastica del testo di accompagnamento che, appunto, richiama queste paura.

Il libro è uno di quelli che, appena lo hai tra le mani, ti vien voglia di chiamare qualcuno per condividere con lui la risata di una vignetta. Lo consiglio per serate con amici, o anche per tirarsi un po’ di morale in un momento non dei migliori.

Se corri la polizia ti spara

Tanto fanno ridere anche a una seconda o terza lettura, e hanno quel
tocco un po’ pulp che piacerà molto ai vostri figli.  Mi raccomando però, non fate le boccacce mentre lo leggete, perché se in quel momento passa l’angelo e dice “amen” vi rimane il viso bloccato nella smorfia per sempre.

Il nano rapito, di Lorena Lusetti

Il “Nano rapito” è la quinta avventura di Stella Spada, un’investigatrice privata il cui nome è tutto un programma. Se infatti è in parte una Stella, cioè una persona buona, altruista, persino luminosa, in parte però rimane spada, cioè vendicatrice, violenta e priva di scrupoli. Un connubio insolito per un personaggio femminile cinico, che sembra trascinarsi in una vita che non le appartiene ma all’interno della quale si affanna alla ricerca di una precisa collocazione.

Per chi non avesse letto gli altri romanzi della serie, occorre dire almeno che Stella arriva a questa professione quasi per caso, dopo aver perso il più tranquillo impiego di segretaria che l’aveva occupata in precedenza. E seppur priva di una formazione specifica, la protagonista di queste vicende dimostra di avere una tecnica infallibile e soprattutto una tenacia e un coraggio che la distinguono da certi cliché della narrativa poliziesca, in cui le donne sono dipinte troppo spesso come vittime indifese.

L’autrice Lorena Lusetti scrive in prima persona, per cui il mondo che vediamo è il mondo filtrato dagli occhi di Stella, una donna che come tanti bolognesi ama a tal punto la sua città da soffrire l’allontanamento, anche per pochi giorni. In questi caso il presunto omicidio su cui Stella è chiamata a investigare è a Badi, sul lago di Suviana, incantevole angolo dell’Appennino bolognese. Quando gli incidenti che colpiscono la famiglia Doria con annegamenti nel lago cominciano a ripetersi, il dubbio che dietro ci sia la mano umana si fa consistente.

“Il nano rapito” è una commedia nera riuscita soprattutto nella descrizione della famiglia di parenti serpenti, uno dei capisaldi della letteratura e del cinema italiano che l’autrice rinnova con invenzioni e richiami che per un attimo ci danno l’impressione di non essere a un’ora da Bologna ma magari sulle rive del lago di Lochness, o a Cabot Cove. Intorno alla protagonista si muovono un serie di personaggi che con tempi quasi teatrali entrano, affiancano la protagonista  e poi lasciano la scena.

Altra peculiarità molto moderna dell’autrice è quella di intrecciare la vicenda principale con storie secondarie, subplot che agevolano il ritmo narrativo. Il nano rapito del titolo è infatti il protagonista di una di queste indagini “minori”, cioè il nano Orfeo che qualcuno ha fatto sparire dall’aiuola della Arena Orfeonica.

Come spesso nella serie di Stella Spada (che magari, dopo aver letto questo romanzo, qualcuno potrebbe aver voglia di approfondire) ci sono poi personaggi minori interessanti, alcuni stabili, come l’ex-marito e l figlio di Stella, altri di cui non sappiamo se vale la pena affezionarci, come il nuovo assistente Giacomo. Chissà se sopravviverà a lungo accanto a una donna così pericolosa? Lo scopriremo nelle prossime avventure dell’investigatrice,

Ad ogni costo, di Cristina Orlandi

Le storie che racconta in questo romanzo sono brutte, molto brutte. Ma vanno narrate, anzi farlo è quasi un dovere per chi si sente in grado di portare questa responsabilità, perché sono storie vere o comunque verosimili.

Cristina Orlandi infatti ci racconta di donne vittime di violenza, e lo fa sulla base di quello che le hanno confidato alcune donne che sono riuscite a liberarsi dalla violenza assassina dei loro compagni prima che fosse troppo tardi. Grazie anche al meritevole e prezioso lavoro della Casa delle donne per non subire violenza onlus, associazione che in quasi trent’anni a Bologna ha accolto e sostenuto oltre 12 mila donne e i loro figli.

Donne come Serena, proveniente già da un ambiente familiare difficile, fuggita di casa in cerca di un futuro migliore per finire invece tra le braccia di un principe azzurro che si rivelerà il più spietato degli orchi. L’autrice non giudica, non punta il dito, non indulge in particolari raccapriccianti, ma la sua prosa pacata riesce comunque a scuotere e impressionare il lettore.

Perché storie come quella di Elisa, convinta dal suo “ragazzo” a prostituirsi e poi minacciata, sono storie che potrebbero capitare anche a persone a noi vicine. Che capitano, anzi, e frequentemente, come la cronaca quotidiana ci mostra. E l’aspetto più toccante è che queste donne finiscono spesso per sentirsi in colpa, quasi che la violenza che subiscono sia giustificata, sia la conseguenza di un loro cattivo comportamento.

L’immagine più bella però che questo romanzo ci lascia è quello di Serena che affronta l’inverno bolognese con un paio di scarpe estive di tela, perché le sono rimaste solo quelle: il compagno violento l’ha privata di tutto. Ma non della libertà e dell’amore di suo figlio.

Ad ogni costo, di Cristina Orlandi, Edizioni del loggione. Pag. 146, 12 euro.

PS Il titolo in realtà è A ogni costo, senza di eufonica. Quella l’ho aggiunta io (ghigno)