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Farfalle Rosse

Due studentesse universitarie vengono ritrovate assassinate a Bologna: l’assassino ama firmare i suoi delitti perché tinge di rosso i capelli delle sue vittime e le sottopone, dopo averle uccise, alla pratica barbara dell’infibulazione.
Sono le “farfalle rosse” del titolo del romanzo di Filippo Maria Andreani edito da Il Filo: alla caccia dell’assassino si muoveranno l’ispettore Carini e l’agente Nisi, una coppia di poliziotti che fanno rivivere riaggiornandolo ai giorni nostri il dualismo classico tra poliziotto esperto e meditativo e giovane irruento e istintivo.
Tecnicamente si tratta di un romanzo breve, o di un racconto lungo, che offre parecchi spunti di riflessione: il confronto tra il mondo universitario delle vittime e quello degli agenti di polizia, attraversato, nonostante le diverse prospettive culturali, dalle stesse pulsioni e dagli stessi sentimenti; il ruolo della donna nella civiltà contemporanea, visto che le vittime subiscono una pratica ancora in uso in alcune popolazioni del terzo mondo, volta a “preservare” un’idea per noi incomprensibile della sessualità femminile; il fascino del male, perché al contrario di certe storie dozzinali da fiction di quarta serie, qui non si capisce nettamente chi siano i buoni e chi cattivi, e questi ultimi non sono certo gli stereotipati killer in cerca di vendetta.
E ancora, l’idea che chi conosce bene il sistema della giustizia in senso lato, sa come scardinarlo e prednersi gioco di chi ne fa parte. Di più non posso raccontare, perché il racconto è pieno di indizi e false piste, e svelarle sarebbe, quello sì, un delitto…

La fine dei giochi, di Luciano Vitali

Capita talvolta leggendo i romanzi di autori esordienti o magari i manoscritti che qualcuno ti propone per chiedere un parere di osservare come a fronte di un?estrema cura nei confronti dello stile, delle scelte lessicali, della parola se vogliamo ad effetto, della frase emblematica non corrisponde altrettanta attenzione nei confronti della struttura narrativa, della trama, del ritmo, dei pesi dei personaggi.
Volendo usare un termine caro alla narratologia, diremmo che c?è più cura alla fabula che all?intreccio, come se ci si trovasse di fronte a tante belle pagine a cui però manca un forte filo conduttore che le tenga assieme. Non è quello che capita a Luciano Vitali Roscini, autore di “Fine dei giochi”: neanche una parola è sprecata, non c?è spazio per i virtuosismi dell?autore e le digressioni filosofiche, qui c?è tanta sostanza, uno stile asciutto, concreto, netto. Tutto ha inizio con una notizia sconcertante, Bianco, un amico di Marco, si è tolto la vita in cella. Marco, che più che un criminale è uno sfaccendato che vive facendosi mantenere dalla madre, non ci sta, non riesce a credere che Bianco si sia tolto la vita, e decide di intraprendere una personale ricerca della verità, anche perché non crede nella volontà delle forze dell?ordine che anzi, sospetta stiano a guardare dietro una guerra di mala che sta facendo fuori molti criminali del Pilastro.
E così cominciano le indagini di cui non voglio svelare troppo, se non anticiparvi che il racconto si muove su due binari paralleli: le indagini di Marco, che avvengono nel presente storico della narrazione, e la vita di Bianco, che è ignota a noi ma anche a Marco stesso. Tra i due piani narrativi ci sono alcuni anni di differenza. L?espediente è molto efficace perché ci troviamo da un lato a scoprire alcuni dettagli insieme al protagonista, dall?altro ci sono alcuni aspetti di Bianco che noi conosciamo, perché il romanzo ce li ha resi evidenti, ma che Marco non conosce. Una via di mezzo insomma tra il giallo classico, quello alla Agata Christie insomma, in cui il finale si svela alla fine, e quello, un po? alla Derrick per intenderci, dove invece noi sappiamo già chi è il cattivo ma ci domandiamo quando e come lo scoprirà il protagonista.
Un?altra piacevole sorpresa è quella di trovarsi di fronte a personaggi che si fa fatica a inquadrare in categorie o prototipi. Il protagonista, Marco, con cui è facile che il lettore si identifichi, è animato da amicizia e lealtà, ma è anche un irresponsabile, un eterno adolescente, qualcuno direbbe un bamboccione. Bianco è un criminale bello e maledetto, però non esita a ricorrere all?omicidio per non perdere l?onorabilità e la fama nel branco; Alce e Negus ispirano simpatia, ma sono dei bestioni che trasudano violenza. Persino Remo, uno dei vecchi, dei capi della malavita, fa quasi tenerezza mentre scruta fuori dal suo negozio spaventato da una guerra che prima o poi lo coinvolgerà.
Unica speranza: le donne, quando non cedono anche loro al fascino del boss.

Statale 7 Quater

Statale 7 Quater non è un romanzo spensierato da leggere per rilassarsi sotto l’ombrellone. Non è neanche una storia piacevole da raccontare mentre si aspetta il metro, non è una favola edificante o un noir con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Statale 7 Quater è un romanzo disperato, rassegnato, angosciante. Un romanzo necessario, di quelli che ti invitano a vedere quello che non sei più capace di osservare: storie di degrado urbano, di violenza, di miseria, storie che siamo abituati ad anestetizzare attraverso il tubo catodico. Ma non si può cambiare canale, quelle vite ci sono, quella sofferenza ci riguarda, possiamo disinteressarci ma non negarne l’esistenza. L’autore tratteggia con gusto del dettaglio e mano ferma panorami desolati e drammatici dai quali tuttavia emerge, come una pennellata di colore su un ritratto in bianco e nero, l’umanità di chi non si rassegna. Intorno ad una strada, che congiunge Napoli con Roma, si dipanano le storie di giovani costrette a prostituirsi, di droga, di vendette tra clan rivali, di solitudine e abbandoni, di ordinaria corruzione. Storie brutte, indiscutibilmente, ma preziose per chi considera la letteratura non tanto come evasione quanto come testimonianza. Una volta uno come Mallozzi forse si sarebbe definito un verista, uno scrittore che racconta la realtà senza far sentire la sua presenza, che la osserva in punta di piedi mentre si dispiega davanti ai nostri occhi in un lamento silenzioso.
Statale 7 Quater è un romanzo sgradevole ma necessario, un romanzo crudo che apre una finestra su una realtà degradata che vorremmo non esistesse. Ma c’è, e se ne sappiamo un po’ di più lo dobbiamo anche a questo bel romanzo di Mallozzi.

Non si sa mai, romanzo di Donatella Placidi

Ci sono romanzi che ti fanno indossare la tuta spaziale e ti portano a combattere contro extraterrestri predatori; romanzi che ti forniscono pistola e distintivo e ti mandano a combattere il crimine; romanzi che ti fanno cavalcare in regni incantati con spada e vessillo con indosso un armatura magica. E poi ci sono i romanzi che ti fanno sentire improvvisamente nudo (sto parlando di romanzi e non di porcherie da edicola della stazione, mascalzoni, non travisate!), che ti fanno dire ma chi gli avrà raccontato i fatti miei a questo scrittore, come fa a conoscere i miei amici, i miei parenti, i miei colleghi? ? il caso di “Non si sa mai” di Donatella Placidi, un ritratto di interni leggero (della leggerezza invocata da Calvino) e toccante, che con poche pennellate dipinge il piccolo mondo familiare che ci appartiene. Una finestra sulla vita di tutti i giorni che si apre, ci accoglie e si richiude prima che possiamo abituarci, prima che diventi routine, prima che possiamo indovinare come andrà a finire. I personaggi di Donatella Placidi – la bambina viziata e odiosa, la terza età in crisi, gli uomini che vedono uno per uno i capelli persi ma non si accorgono dei soprusi subiti in ufficio – sono persone che abbiamo conosciuto tutti, prima o poi. E quando un giorno qualcuno, fra un migliaio di anni, vorrà conoscere la nostra vita, quella della generazione tra i trenta e i quarantanni nell’Italia del 2000, non dovrà certo leggere di extraterrestri predatori, poliziotti invincibili e armature magiche, ma farà bene a procurarsi una copia del romanzo della Placidi. Perciò conservate con cura la vostra: non si sa mai…


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