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Una puntata di Report su Report

Ho un sogno televisivo che mi piacerebbe tanto si avverasse. Non è una partita del Taranto in serie A (mi sono arreso), né un film con Sabrina Ferilli diretta da Tinto Brass (sebbene…).
No, il mio sogno è una puntata di Report che ospita un servizio dedicato a Report. Un Report al quadrato.
Già immagino l’avvio: una voce fuori campo, con una musichetta allegra e delle inquarature di Viale Mazzini fatte con il drone, danno la stura al tipico “Vi siete mai chiesti quanto costa una puntata di Report?” A questo punto grafiche 3d un po’ a casaccio che fanno tanto festa, inquadrature di giornalisti di inchiesta che percorrono corridoi, e poi la bomba: 180 mila euro. Che però detto così non sembra neanche tanto. 180 mila euro dei nostri soldi già va meglio, magari con un accenno al fatto che con quei soldi si potrebbero sfamare 180 mila bambini nello Zimbabwe, che fa tanto sinistra.

Per colpire al cuore lo spettatore poi ci starebbe bene un agguato in un ristorante in cui i redattori stanno facendo pausa pranzo, chiedendo loro quanto stanno spendendo alle spalle dei contribuenti italiani. Rapida occhiata al menù, e accenno a quanto debito pubblico si sarebbe potuto risparmiare se solo il giornalista avesse preso un’insalatona al posto dei maccheroni con le zucchine.

Ovviamente la scena al ristorante, montata all’inizio, è l’ultima da girare, per non insospettire la redazione. A questo punto nel montaggio via con la carrellata di dati. Tasso di disoccupazione in Italia, costo delle bollette elettriche di Report, investimenti nel nucleare, tutto con grafica stilish a gogo. Confronto dello stipendio di un caporedattore (magari laureato, magari con esperienza all’estero, si vabbe’) con quello dell’usciere che non riesce ad arrivare a fine mese ed è costretto a stare seduto a fare niente tutto il giorno, con le gravi conseguenze per il suo stato di salute.

Però siamo di sinistra, dobbiamo aprire al dibattito. Contattiamo un redattore dicendo che vogliamo intervistarlo per un documentario su come si diventa giornalista. Lui ci accoglie contento, e a quel punto noi gli piazziamo la camera sulla scrivania, con inquadratura dal basso della pappagorgia che fa tanto corrotto, e vai di indignazione con il nostro tema preferito: lo sperpero di denaro pubblico. Sarà forse vero, gli chiede la giornalista in un montaggio serrato in cui lei è inquadrata a favore di luce e lui con un primissimo piano che lo fa sembrare un Mangiafuoco appena uscito dalla sauna, che ha speso soldi pubblici per iscrivere suo figlio ad un corso di pianoforte? La notizia bomba ovviamente è stata recuperata dopo una breve ricerca sulla pagina Facebook del giornalista. Uno dei pochi dipendenti, va detto, perché la maggior parte sono collaboratori.
Il redattore risponde che lo ha iscritto, sì, ma pagando con i suoi soldi. Ma questa risposta non la vedremo mai, tagliata dal montaggio, eh signora mia la televisione ha i suoi tempi. Tanto il suo stipendio lo paghiamo noi contribuenti, sono soldi nostri, alla fine. La faccia basita del redattore che non capisce se lo stanno prendendo in giro continua a venire inquadrata mentre gli viene mostrato un finanziamento che lo stesso avrebbe fatto con i soldi pubblici (si vabbe’ è il suo stipendio, ma è un dipendente Rai, quindi sono soldi nostri, uffa) per una associazione che si occupa di cani randagi. Guarda caso, spiega la voce fuoricampo, il redattore è proprietario di un mastino napoletano. Una coincidenza? Non credo proprio. Indignazione.

Dopo l’imboscata statica, ci vuole quella in movimento alla Striscia la Notizia. Si insegue un uomo per strada gridando “scusi, è vero che sua moglie fa la bidella alle scuole Giovanni Paolo?” L’uomo in questione è un elettricista Rai che si occupa dell’illuminazione dello studio che è riuscito a far sistemare la moglie in un comodo impiego statale. Poi si potrebbe scoprire che la donna lavora lì da vent’anni prima, ma intanto c’è la corsa sui marciapiedi, l’uomo che non risponde, che si gira dall’altra parte, il pathos.
Siccome il giornalismo di sinistra poi però coinvolge anche l’interlocutore preparato, che non siamo mica le Iene, ecco allora che sei ore prima della messa in onda del programma si manda una e-mail a info@report.it. A seguire, drammatica inquadratura della sedia vuota dove avrebbe dovuto essere il caporedattore, che non ha voluto rispondere. Si scoprirà il giorno dopo che l’indirizzo e-mail non esiste, ma intanto grazie al cielo c’è Report che ci apre gli occhi.
La puntata potrebbe avere altri picchi. Per esempio con un’intervista al medico che ha rilasciato un certificato medico alla segretaria di direzione, (e qui confronto tra il tasso di malattia tra i dipendenti Rai e gli autotrasportatori della Florida, che lascia di stucco, vergogna!!!!), medico che guarda caso – troppe coincidenze – abita nello stesso quartiere. E concludersi con una scena, anticipata da bambini che corrono su prati verdi e anziani che si abbracciano in riva al mare, di una televisione locale danese, dove con 180 mila euro fanno dieci mesi di programmi, loro. Alla faccia nostra. Ovviamente non sapremo mai di quali trasmissioni si tratta.

PS Ho davvero amato Report, in passato, così come amo il giornalismo d’inchiesta. Così come spero di tornare ad amarlo, quando torneranno a fare giornalismo d’inchiesta.

Drone kills the video stars (fermate quel drone)

Vista da un droneLa tecnologia offre possibilità agli appassionati di audiovisivo impensabili solo vent’anni fa. Penso alla straordinaria facilità del montaggio non lineare, che ormai permette persino a chi dispone di uno smartphone potente di selezionare degli spezzoni video, cambiare loro ordine, tagliarli. Prima che tutto ciò vi sembri ovvio pensate alle centraline vhs con cui siamo ammattiti noi figli degli anni Ottanta, con quel maledetto nastro di plastica che rubava sempre qualche decimo di secondo e ci costringeva a ricominciare da capo. Però, come sempre, la facilità porta agli eccessi. Continua la lettura di Drone kills the video stars (fermate quel drone)

La schedina fra le dita

Gli appassionati di calcio oggi seguono le partite di campionato praticamente dal venerdì al lunedì, persino all’ora di pranzo, con le giornate libere occupate da manifestazioni internazionali. Cari ragazzi miei che vi appassionate a questo sport come a me capitò più di trent’anni fa, non è sempre stato così. Quello che voi assaggiate è un vino talmente annacquato da risultare insipido, e mi domando come facciate a non esserne stufi (io per esempio lo sono).
C’era una volta la schedina: un gioco che con poche lire permetteva di sfidare la fortuna cercando di indovinare i risultati: la schedina fra le dita può cambiare la tua vita, cantava il mitico Toto Cutugno.

La schedina c’è ancora, almeno credo, ma è tutto il corredo intorno ad essere svanito. Intanto perché le partite si giocavano tutte in contemporanea, dalle 14,30 (orario spostato in avanti l’estate). Quindi in quei novanta minuti potevi sapere se avevi vinto o no, senza dover aspettare tre giorni. Poi perché la schedina era un rito collettivo, quello che manca alla società attuale parcellizzata tra mini schermi personali e contenuti ipertrofici h24, come dicono quelli che ne sanno. Andavamo allo stadio tutti insieme, dal mio indimenticabile “Erasmo Jacovone” di Taranto a San Siro, dall’Olimpico al Renzo Barbera. Poi tutti insieme rientravamo in auto sperando di fare in tempo per novantesimo minuto, per poi ritrovarci di fronte alla domenica sportiva, che faceva sì rivedere i goal, ma da angolazioni sghembe dietro la porta e con primi piani sul terzino che facevano tanto televisione di qualità.

E io ancora me lo ricordo quel maledetto undici, un numero maledetto come il cinque e mezzo per i liceali o il ventinove per gli universitari, un sogno svanito in pochi  attimi: il mio tredici che resisteva sino a pochi minuti allo scadere, poi due gol che ti facevano crollare dal mito del successo alla mediocrità di uno dei tanti che non ce la fa. Erano di solito le partite minori a rovinarti la festa, un pareggio casalingo della Triestina o peggio ancora una vittoria inattesa del Campobasso in C2 (e no, all’epoca la C2 non era una utilitaria francese). Non ricordo quanti undici ho collezionato, non tantissimi direi, ma abbastanza da farmi ancora ricordare la delusione.

Delusioni o gioie che derivavano dal nostro scandire il tempo tutti insieme, il dibattito la domenica sera dietro la parrocchia o ancora il lunedì mattina sull’autobus che ci portava a scuola. Perché noi non avevamo il supporto della tecnologia, ma eravamo parecchio social, eccome se lo eravamo.

Cattiva maestra Internet


computerLa mia generazione è cresciuta con un mito profondamente radicato nella nostra cultura progressista, quello della televisione cattiva, accompagnata dai giornali di parte. Indipendentemente da una attenta analisi dei contenuti, la tv era considerata un mezzo di comunicazione manipolatorio, falso, distorsivo. Un’arma nelle mani di chi la gestiva, che con il suo potere poteva esercitare un’influenza più o meno occulta su una massa ingenua e indifesa. Legati all’intramontabile idea positivista che l’uomo in fondo è buono ma va educato, ci siamo tutti convinti del fatto che la massa, questa conosciuta, era buona, ma era la tivù ad essere cattiva.

Ecco perché in tanti hanno salutato l’avvento delle nuove tecnologie, la rete, come qualcosa di innovativo e straordinariamente democratico. E forse, nei primi anni, quando si è replicato un modello tra emittente e ricevente più semplificato, perché è più facile per un giornale sopravvivere sul web di quanto non lo sia su carta, questo è stato vero. Abbiamo assistito ad un’autentica pluralità del mezzo perché tante voci si sono affacciate sul mercato dell’informazione. Anche questo mio blog, sulla quale fate una visita di tanto in tanto da ormai dodici anni, non avrebbe potuto esistere qualche decennio prima.

E poi però qualcosa ci è sfuggito di mano. Abbiamo cominciato a sentire parlare di “morte del giornalismo” da parte di blogger che rivendicavano la non appartenenza ad alcuna categoria professionale. Come se l’attività di giornalista si identificasse con quella della scrittura. Quello è l’ultimo passaggio. Prima c’è la verifica delle fonti, la raccolta delle notizie, il confronto, l’autocensura, quando necessario. Tutti passaggi che a molti blogger, ossessionati solo da click e visibilità e privi anche dei minimi fondamentali della deontologia professionale, mancano completamente. Quei blogger che rilanciano le stesse bufale da dieci anni segna sognarsi prima di fare una ricerca di pochi minuti. Un blogger che dice di fare giornalismo è come un rivenditore di pane surgelato che dice di fare il fornaio. Nessuno deve impedirglielo, ma distinguiamo le cose. E attenzione, non è questione di diplomi o ordini, ma di metodologie. La stessa persona può essere blogger, divulgatore, giornalista, medico, a seconda del contesto, ma appunto, distinguiamo il contesto. Perché altrimenti non ci accorgiamo che Internet può diventare il peggiore dei maestri.
In questi anni Internet ha colpito e distrutto, in alcuni settori, la funzione dell’intermediazione. Perché facciamo da soli. Non abbiamo bisogno di un agente di viaggio, perché ordiniamo online. Non abbiamo bisogno di un librario, perché ordiniamo online. Non abbiamo bisogno di un bancario, perché abbiamo il conto online. Non abbiamo bisogno di un farmacista, perché ordiniamo online. Ho letto di recente un articolo in merito di Baricco che mi sento di sottoscrivere. A parte l’effetto devastante che ciò ha avuto sul mercato del lavoro occidentale, dove i servizi, che erano sopravvissuti alla delocalizzazione, sono stati messi in crisi da questo sistema (migliaia di librerie e negozi di dischi che chiudono e una multinazionale che fa miliardi, scusate lo sfogo luddista ma non mi pare proprio un trionfo della sinistra), il tema è quello che non ascoltiamo più l’esperto. Il librario che ci consiglia un libro poco noto, il farmacista che ci dice di non esagerare con gli anti-infiammatori, l’agente che propone un viaggio alternativo alla Siria, di questi tempi. Non ci sono più esperti. Non riconosciamo la loro autorità perché non attribuiamo più il giusto valore al sapere e allo studio. Tu hai dedicato tutta la vita allo studio dei vaccini, e con te altri migliaia di medici? Balle, c’è un biologo nel Wyoming che dice che fanno male, l’ho letto su Internet, eh? Da strumento contro il potere, Internet è diventato strumento contro il sapere. Tu fisico mi spieghi i processo di condensazione per cui gli aerei lasciano una scia visibile ad occhio nudo? Balle, c’è un’associazione ecuadoregna che dice che sono un complotto governativo, l’ho letto su Internet, eh?

Immaginate cosa accadrebbe se un programma televisivo o una rivista promuovessero con continuità l’urinoterapia, o la negazione dell’Olocausto, o la cura del tumore con l’acqua e il limone. Oppure se si linciasse pubblicamente una persona senza che il conduttore si senta un minimo in dovere di intervenire. Proteste, cause, dimissioni, associazioni, raccolte firme. Su Internet tutto ciò esiste da sempre, e non ci sono né conduttori né, in molti casi, editori. E non è più un mezzo da universitari ventenni appassionati di Star Trek. Su Internet ci sono tutti, mamme in perenne lotta con il congiuntivo, ultras che ruggiscono dietro una tastiera e pensionati che insultano e cazzaggiano tutto il giorno su Facebook e Whatsapp ma poi si incavolano quando un ente chiede loro di mandare una e-mail.
V.O.T, cantava Baglioni anni fa parlando di tivù (Vuoti V.O.T. vuoti V.O.T. vuoti, Con le facce da idioti, V.O.T. vuoti V.O.T. vuoti, Belli beneamati e beoti…), oggi Mentana parla di webeti. C’è un filo che lega tutto.

Non era la tivù a renderci idioti. C’erano tanti idioti che guardavano la tivù. Quelli ci sono sempre stati, e sono tanti, e postano, e votano. Non c’è niente di male in tutto ciò, è la democrazia, bellezza. Però se davvero vogliamo capire quello che sta succedendo dobbiamo smetterla di leggere i corsivi degli editorialisti e cominciare a leggere i commenti sotto. Perché l’idiozia è contagiosa, ma presa per tempo si può curare.

La videocamera ha un potere magico e può fare molto male

videoLa prima volta che vidi una cinepresa ero un bambino, mi sembrava un apparecchio strano che mio padre maneggiava con estrema cura, poi qualche volta c’era una grande festa e la proiezione dei “filmini”. La vidi poche volte perché non era sua, gliela prestarono, e in giro ce n’erano davvero poco. I “filmini” (nomignolo tra il riduttivo e l’affettuoso)  erano privi di audio e tremolanti, ma evocavano un mondo al di là del pannello dove c’eravamo noi, o meglio i nostri simulacri. Duravano poco ma bastarono ad affascinarmi.

L’incontro con il video vero e propri avvenne molto più tardi, verso la fine degli anni ottanta, quando apparvero nelle famiglie dei pionieri le prime videocamere vhs. Erano enormi, andavano portate a spalla, però il salto tecnologico era stato notevole. Soprattutto, rispetto al passato, si poteva sprecare pellicola senza troppi patemi. Una videocassetta vergine non era poi così costosa. La parola verginità non mi è venuta in mente a caso, fu allora che la perdemmo, che perdemmo l’idea che prima di filmare devi pensare a quello che vuoi fare, studiare la scena, avvisare i partecipanti magari, “montare in macchina” come si dice in gergo tecnico per indicare la capacità di filmare pensando già al risultato finale.

Cominciammo a filmare le nostre feste un po’ stupide, con le solite battute grossolane, lo scemo che faceva i rutti e quello che mimava gli atti sessuali. Sebbene quelle videocassette avessero una circolazione minima, già allora quell’uso mi coinvolgeva meno. A me piaceva giocare al cinema, e fu forse per questo che tra il 93 e il 96 ho coinvolto i miei amici in cortometraggi che ancora conservo da qualche parte. Ma era un giocare rispettando una sceneggiatura, una idea, rispettando i partecipanti che erano tutti consapevoli del loro ruolo. Perché la videoripresa evoca un mondo al di là dello schermo dove c’è un simulacro di noi che ci sopravvive, eternamente o quasi, non siamo noi ma su di noi ha effetto eccome. Nel 2000 la mia carriera si concluse con un’opera di quasi 4 ore, un’Heimat dovuta soprattutto alla mia incapacità, da montatore, di sacrificare quello che avevo girato.

Poi ho continuato con i video aziendali, adesso prendo in mano la videocamera ogni tanto per i comuni per cui lavoro. Di tanto in tanto riprendo anche scene familiari, ma le tengo rigorosamente per me. Le nascondo. (Anche troppo: non ricordo più dove ho nascosto la SD con i primi anni di mia figlia, maledizione). Perché quel simulacro di noi stessi non deve allontanarsi troppo da noi, dal nostro commento, dal nostro sorriso. Non troverete miei video personali, in rete, ad eccezione di qualche presentazione di libri. Ma in quel caso si recita, in fondo, il ruolo dello scrittore è un po’ come quello dell’attore.

Perché il video ha un potere magico, ruba una parte di te, la moltiplica, la cristallizza, e può ferirti. I social network (o meglio, Internet) amplificano questo potere, ma sono solo, appunto, una cassa di risonanza. La magia è nel video; non a caso foto o testi hanno molto meno richiamo virale. I ragazzi oggi hanno smartphone che fanno riprese che vent’anni fa potevamo solo immaginare, e non si rendono conto di quale arma dispongano. Una videocamera, ancora più di una fotocamera è una bacchetta magica che se usata a sproposito può fare molto male. Pensateci, pensiamoci, prima di riprendere qualcosa che potrebbe rubarci l’anima e vederla calpestata.