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Mockumentary, che paura

Un particolare della locandina. Tutti i diritti sono della produzione
Un particolare della locandina. Tutti i diritti sono della produzione

Se oggi mi occupassi di comunicazione a livello accademico sicuramente sarei interessato al mockumentary, e in particolare a quello che fa uso di falsi found footage. Se infatti la semiotica è una teoria della menzogna, quale migliore strumento per decriptarne i meccanismi?
Ma per fortuna io non sono un professore e quindi scendo precipitosamente di livello esibendomi in questo post.
Intanto chiariamoci subito: dietro i paroloni anglosassoni che ho sparato per darmi un tono c’è una pratica che non è per niente nuova nell’ambito della creatività umana.

Il mockumentary infatti altro non è che un documentario falso, e il found footage è quel genere cinematografico caratterizzato dal montaggio di spezzoni di altri filmati. Vi ricordate i Promessi Sposi? O se avete ripudiato gli studi scolastici, avete letto Cervantes? Ebbene, in entrambi i casi (ma fu Manzoni a ispirarsi a Don Chisciotte, essendogli posteriore) il romanzo si basa sulla trascrizione di un presunto manoscritto ritrovato dall’autore. In fondo si tratta di un innocuo gioco letterario, un espediente attraverso il quale l’autore giustifica una ricerca stilistica non attuale, e prende la distanza dalla storia per avvicinarsi astrattamente al lettore, che finge di affiancare nella lettura di questo manoscritto ritrovato. Nessuno ci crede da vero, e tutto finisce lì. Nel mockumentary però le cose stanno diversamente. Il mockumnetary infatti dichiara di essere vero, e spesso fa uso di trovate commerciali che rafforzino questa impressione. L’esempio forse più famoso è The Blair Witch Project, la storia di tre ragazzi che fanno una brutta fine in un bosco (ops, che brutto spoiler) ricostruita partendo da presunto materiale ritrovato. Materiale falso, che però un abile campagna pubblciitaria che anticipa l’uscita del film fa credere vero. Complice la facilità di diffusione delle bufale tramite il web prima e in maniera esponenziale con i social network poi, il giochino funziona maledettamente bene. Sia perché siamo abituati a credere al paratesto che anticipa e chiude il film (quello per intendere che sottotitola “Tratto da una storia vera” o che alla fine del film ci racconta come hanno continuato la vita i personaggi). Sia perché il cinema è sospensione dell’incredulità, e allargarla un po’ al di là dei confini tradizionali in fondo ci piace.
Un caso più recente di mockumentary è “Il quarto tipo”, altro film horror che a parte una sceneggiatura sgangherata con un paio di momenti di ridicolo involontario, porta all’esasperazione in maniera interessante questo concetto. Basato su studi documentari, recita già la locandina. Un altro horror, che racconta di rapimenti da parte di alieni, perché in effetti le finte immagini di repertorio recuperate, con i colori slavati di un vhs e l’inquadratura un po’ sghemba mettono decisamente paura. Mi fanno paura certi superotto anni settanta di parenti e amici, figuriamoci uno costruito per spaventare. Ma la domanda da ricercatore, se fossi un ricercatore – e qui ci infilo anche una riflessione morale e forse moralistica – è: è corretto tutto ciò? In altre parole, è giusto ingannare lo spettatore in maniera così spudorata? Ci deve essere un confine oltre il quale dire: ok, finora abbiamo scherzato, adesso siamo seri? Io credo di no perché porre limiti all’arte è inutile oltre che rischioso, eppure il dubbio, silenzioso, strisciante, rimane. Non è che a furia di guardare documentari falsi, ci verrà il dubbio che anche quelli su Auschwitz, per dirne una, siano costruiti? Non è che, abituati al cinismo con cui guardiamo il filmato dell’uomo sulla luna (un caso straordinario di mockumentary), finiremo per non credere nemmeno a chi racconta, a rischio della propria vita, i conflitti in giro per il mondo?
Non lo so, non voglio trovare risposta. Ma se c’è qualcosa che davvero mi ha angosciato de “Il quarto tipo” non è l’innocuo lungometraggio, ma o spaventoso dibattito che si è aperto tra le persone sane di mente che hanno visto un film mediocre e chi sostiene che è tutto vero e che sono la CIA, gli uomini in nero, il complotto sionista e i templari a tenerci tutto nascosto perché noi non dobbiamo sapere. Ecco, sono quelli lì che mi spaventano davvero, non i mockumentary.

Il ritorno dei mille lire

Libri a 1 euroPremetto: questo post fa pubblicità, magari indirettamente, non so. Ma siccome non sono pagato da nessuno per farla, vado avanti per la mi strada, visto che quello che sto per dire è motivato più dalla passione che da interessi commerciali.
Ho rivisto alcuni giorni fa dei vecchi amici di cui avevo perso le tracce da tanti anni.
E come succede in questi casi, alla sorpresa si è presto aggiunta la gioia. I vecchi amici a cui mi riferisco non sono persone, ma libri: i vecchi libri a mille lire. A inventarli fu Stampa Alternativa, poi visto l’enorme successo furono seguiti dalle Edizioni Newton Compton. E sono proprio loro che li ripropongono, ad un prezzo aggiornato ma ancora più che accessibile, 0,99 euro. La copertina è accattivante e la qualità complessiva ottima, tant’è che mi viene il sospetto che questi prodotti rasentino il sottocosto, ma ci avranno pensato, prima di lanciarli. Ho comprato subito “L’arte della guerra” di Sun Tzu e “I sotterranei della cattedrale” di Marcello Simoni.

Perché mi piacciono i libri a 1 euro? Perché sono piccoli e leggeri, te li porti con te e li leggi in autobus o in bagno. E non si scaricano sul più bello, come i vari chindell e compagnia. Puoi anche regalarli, dopo averli letti, e se li presti e non ti le restituiscono non è poi una tragedia. Puoi anche perderli, senza farne un cruccio. Al limite te li ricompri. I libri a 1 € poi ti permettono di “osare”, di provare un autore sconosciuto, di affrontare un testo solo per curiosità. Si lo so si può fare anche con i tascabili a 10 €, e magari anche con le prime edizioni a 25 €. Ma non è la stessa cosa. Rinuncio al caffé e mi porto a casa un romanzo, faccio a meno del quotidiano e mi leggo un trattato.

Poi è chiaro che si tratta di testi brevi e che non possono sostituire di certo la letteratura. Però anche i bar non sostituiscono i ristoranti, e con i tempi che corrono, accontentarsi di uno stuzzichino anziché di tre portate frutta e dolce può andare più che bene.

Ma i proprietari dell’Ipad devono necessariamente essere stupidi?

Una vecchia battuta di G.B Shaw recitava “Per giocare a golf non è necessario essere stupidi. Però aiuta”.
Ebbene, a volta mi domando se i produttori di accessori per Ipad (e tablet in generale) considerino i proprietari di questi prodotti dei danarosi polli da spennare. Ovvio che il tablet è un prodotto abbastanza costoso e soprattutto rivolto ad una utenza specifica, ma questo non giustifica il fatto che tutto quello che è “for Ipad” debba costare il triplo di quel che vale. Una copertura adesivo antigraffio, venti euro. Un sacchetto in materiale sintetico che loro con molta immaginazione chiamano custodia, trentacinque euro. Adattatore per trasformare una presa accendisigari in una porta usb… Venticinque euro?
Venticinque euro?

 

Immagine tratta dal sito Apple. Copyriight Apple (c)
Immagine tratta dal sito Apple. Copyriight Apple (c)

Ma davvero stiamo dando i numer? Non cito la marca, ma vi assicuro che l’ho visto qualche giorno fa all’Ipercoop (in questo caso cito la marca perché tutti sanno che sono un cliente affezionato Coop).

Ma come si fa?
L’aspetto più divertente è che allontanandomi dal settore fighetto “proprietari ipad” a quello più proletario “proprietari di auto” ho trovato lo stesso accessorio (con anzi una funzione in più, perché oltre a due porte usb garantisce anche una porta d’alimentazione da 12v) a 8 euro. Stesso supermercato. E c’è pure scritto, più piccolino, per ipad e altri accessori tecnologici.
C’è però ua differenza: è nero, mentre quello da 25 euro è bianco.
Si, ripensandoci, forse avete ragione: se un proprietario di ipad spende 16 € di più er avere un accessorio che fa pendant, allora è davvero stupido.
PS Io ho preso quello nero, sono un modesto fruitore di Android (viva viva l’opensource)

Il cofanetto sulla mensolina del negozietto

starwarsQuesto Natale mi ha portato in dote 9 dischi Blue-Ray (la saga completa di Star Wars e quella di Ritorno al Futuro).Centinaia di ore di film, commenti, documentari, script alternativi e approfondimenti che non vedrò mai, non nei prossimi dieci anni almeno. So che sono lì e che semmai vincessi un superenalotto (oppure un arresto ai domiciliari, ma evidentemente questa seconda ipotesi preferisco non considerarla) saprei cosa fare nel tempo libero.
La fantascienza mi è sempre piaciuta, poi è quella che rende meglio in alta definizione e in Dolby Digital (adoro anche Woody Allen ma non comprerei mai i suoi dvd per una scelta tecnica, infatti spesso sono sgranati per una codifica mpeg mediocre e con l’audio a due canali).
Il punto però è un altro. Le VHS arrivavano corredate da un massiccio scatolone plastico, e spesso, nei prodotti più costosi, anche un librettino che ne illuastravano i contenuti. Con un blocco di Vhs una sull’altra ci potevi fare una parte interna di casa tua risparmiando sul cartongesso.
Poi sono arrivati i dvd, più leggeri, con un occhio al risparmio e un packaging più spartano, giusto qualche codicillo sui film di animazione per accedere ad Internet e vedere quello che avresti visto anche senza codicillo. Adesso, con i blue-ray, 9 dvd li ritrovi in uno scatolotto di plastica e cartoncino senza nemmeno custodia. Eccheccacchio, il prossimo supporto multimediale ce lo venderanno incartato nei fogli di vecchi giornali come la il sedano e i ravanelli!
Possibile che i produttori non si rendano conto che se si vuole combattere la pirateria bisogna puntare sull’aspetto tattile del possesso di un oggetto come un dvd o un disco blue-ray? I film che amo posso rivedermeli anche tramite i servizi online (per non parlare delle copie illegali), siccome io amo Guerre Stellari voglio tenermelo in libreria accanto a un fumetto di Dilibert e un romanzo di Benni, Camilleri o Eco. Avrò questo diritto? E perché devo tenermelo in uno scatolotto che varrà ad occhio e croce due euro, per un prodotto che costa venti volte tanto?
I libri non moriranno mai perché c’è gente come me che è disposta a leggere il giornale su tablet, ma un romanzo no, per un romanzo vuole la carta (e se la carta è di qualità la lettura ci guadagna). Sui supporti multimediali però ho qualche dubbio: se i produttori non si danno una mossa, il cofanetto rimarrà sulla mensolina del negozietto.

Comandante Tabaccista

L’anticipazione sul sito del PD era terrificante, un ritocco in photoshop dei Fantastici 4 più Silver Surfer fatto talmente male che se avessero ritagliato e incollato le facce con forbici e colla forse sarebbe piaciuto di più. Se l’obiettivo è che se ne parli, di sicuro “i comunicatori” del PD hanno fatto centro un’altra volta, anche se più che parlarne in tanti ne abbiamo riso. E chissa come l’hanno presa quelli di Marvel Italia?
Ma non è questo il punto, il punto è che il dibattito televisivo tra i cinque candidati del centro-sinistra andato in onda su Cielo (ebbene sì io non ho Sky, anche perché un albero fuori il mio balcone mi oscura il satellite 4 mesi l’anno e un po’ mi scoccerebbe pagare le sue belle frasche) mi ha divertito un bel po’. L’ho seguito a tratti, cambiando il pannolino ad una figlia e mettendo il pigiama all’altra, ma è stato tutto sommato sufficiente. Complice anche l’uso dei social network, Facebook in particolare (preferisco muovermi tra amici, per questo i cinguettii non mi convincono), mi sono divertito a condividere opinioni, commenti e stupidaggini, alcune delle quali riporto in questo articolo.
E se Renzi deve rinunciare alla cuffia con la quale il suo “Boncompagni” di turno gli dà suggerimenti, può sempre ricorrere al cellulare in cui gli dicono di guardare un po’ più su, sorridere, così, non troppo, mentre lui litiga con la prova pulsante e tenta inutilmente di comprare una vocale. Non c’è dubbio, avrebbe vinto lui, se solo in palio ci fosse stata la conduzione del festival di Sanremo. Anche perché Vendola parte con un “io penso” seguito da una premessa che gli porta via un minuto e mezzo secco di congiuntivi mirabolanti e aggettivi che suonano bene ma ti fanno dimenticare la domanda (e ad un certo punto ha anche osato con entusiasmo la parola “sfregio” ma il regista ha fatto in tempo a cambiare inquadratura prima che il cameramen venisse colpito dal cioppino). Bersani è ormai Crozza, non li distinguo più, però se ci fosse da scegliere l’amministratore di condominio è l’unico a cui lascerei le chiavi di casa, e la Puppato (scusatemi la battuta sessista e maschilista, ma sono quelle che fanno sorridere di più) sembra l’unica in 4/3 in uno schermo 16/9. Ma più che le forme matronali, tutto sommato rassicuranti, la Puppato dovrebbe preoccuparsi del fatto che un paio di volte il conduttore l’ha guardata come per dirle: scusi chi è lei? Il migliore, inutile dirlo, è stato il compagno Bruno, uno che se continua a passare tanto tempo con Pisapia mi organizza l’esercito zapatista. Ha siempre comandante Tabaccista! Sul serio, questo qui ha sostenuto Berlusconi nel 2001-2005? Davvero? Mi sembra l’unico che dica cose concretamente di sinistra. Si perché Vendola vuole tassare i ricconi, ma sappiamo che i ricconi i soldi ce l’hanno alle Cayman (lo sa soprattutto Renzi che ha provato a spiegarlo a Nicolino), la Puppato vuole consolare i giovani e Bersani si commuove quando pensa alle sue lenzuolate (ma perché le chiamavano così? Perché col lenzuolo si evade meglio?), ma i pochi contenuti li ha tirati fuori il Leader Maximo Tabacci, e dico sul serio.
Ho omesso di citare Renzi, ma scherziamo? Uno che vuole spedire la dichiarazione fiscale a casa dei cittadini, e già così ci giochiamo in una battuta una trentina di milioni di euro, uno che pensa che incrociando con un grande software un grande database in un computer grandissimissimo si risolve l’evasione fiscale (o bischero, che tu l’hai mai letta la legge sulla privacy o quella serve solo per farti votare dal Pdl?), uno che dà l’impressione di essere convinto che i Pokemon salveranno l’Italia è meglio che si preoccupi della nuova versione della Wii piuttosto che del paese.
In conclusione, adesso mi aspetto sinceramente il dibattito con i partecipanti alle primarie del centro-destra, perché sono vent’anni che vediamo messaggi pre-registrati dal grande capo e un po’di varietà non guasterebbe.
Si perché di varietà si tratta. La politica spettacolo serve poco alla politica, ma è un bel colpo per lo spettacolo.

Benvenuti a Pugliawood

Foto tratta da http://www.tuttosporttaranto.com/

La definizione azzeccata l’ha data il mensile Ciak, parlando appunto di Pugliawood in riferimento al fatto che la regione da alcuni anni è cornice di numerosi film italiani e stranieri che hanno riscoperto un territorio colpevolmente trascurato dal mondo dello spettacolo. E attenzione, non si parla soltanto di film intrinsecamente “pugliesi”, come per esempio quelli di Sergio Rubini o Eduardo WInspeare, o di commedie che ricalcano alcuni cliché resi popolari negli anni settanta da Lino Banfi (si pensi a Checco Zalone o al recente e sottovalutato “Non me lo dire” di Uccio De Santis). La Puglia diventa set cinematografico anche per pellicole la cui storia con la Puglia non c’entra niente, come nel caso de “La vita facile” con Favino, Accorsi e Vittoria Puccini. L’ambientazione è africana, ma se guardandolo avete subito il fascino del continente nero, sappiate che è girato in Salento.
Come si spiega tutto ciò, negli stessi anni in cui si parla di smantellare Cinecittà? Semplice. La politica ogni tanto fa qualcosa di giusto. E la politica in Puglia ha dapprima istituito, per legge (6/2004) una Film Commission, cioè una struttura che si occupa di promuovere il territorio agevolando chi voglia girarci dei film. Attenzione, la legge fu approvata sotto la presidenza Fitto, anche se poi è stato Vendola a credere in questo progetto e attuarlo. A dimostrazione che le buone idee non sono necessariamente di una parte politica. La film commission costa, per carità, perché oltre a fornire supporto logistico e consulenza, la legge garantisce degli sconti fiscali e altre agevolazioni: si parla di più di un milione di finanziamenti dal 2007, ma se fosse possibile calcolare esattamente il ritorno economico per il turismo, il lavoro (perché le troupe hanno bisogno di sostegno di operatori locali) si scoprirebbe senz’altro che sono soldi ben spesi. Anche perché per ricevere i finanziamenti bisogna dimostrare di aver speso sul territorio dal 150 al 300% di quanto ricevuto.
Ebbene, anche la mia amata e sfortunata Taranto è finalmente coinvolta da questo progetto (va bene lu sole lu mare e lu viento, ma vi assicuro che la Puglia è bella non solo a Lecce). E si tratta sul serio di Hollywood. Il film si chiama “Third person” , è una produzione internazionale diretta dal premio Oscar Paul Haggis e alcune scene sono girate nella città vecchia di Taranto e addirittura – pare – nella mia Statte. Tra i protagonisti, Liam Neeson e Adrien Brody.

Ci sono tanti modi per investire in comunicazione. Si possono finanziare gli artisti che hanno qualcosa da raccontare. Oppure si può organizzare un’agenzia che riprende giorno e notte il presidente della Provincia di Firenze, che racconta quello che pensa il presidente della Provincia di Firenze, che fa vedere quanto è figo il presidente della Provincia di Firenze. Nessun riferimento a fatti, persone o primarie, per carità, anche perché nel frattempo quel presidente è diventato sindaco di Firenze e pare che il suo prossimo obiettivo sia trasformare l’agenzia in un ministero che riprende giorno e notte il presidente del consiglio, che racconta quello che pensa il presidente del consiglio, che fa vedere quanto è figo il presidente del consiglio.