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Il ferro intelligente

Ho appena comprato un nuovo ferro da stiro. Come attacco di un articolo non è un granché nemmeno per un blog personale, me ne rendo conto.

Però è un inizio doveroso perché questa riflessione parte proprio da un acquisto: avendo un’anima nerd, cioè fortemente improntata all’interesse per tutto ciò che è nuovo e “fantascientifico”, ho comprato un prodotto dotato di una nuova funzionalità.

Potremmo banalizzare parlando di intelligenza artificiale, termine ormai prezzemolino nei discorsi attuali. No, il mio ferro non mi consiglia come risolvere i problemi con buon senso stantio e nemmeno dà consigli sulla vita sentimentale o professionale: d’altronde è un ferro, per quanto intelligente, non uno psicologo.

Il mio ferro decide autonomamente la temperatura. Avete presente quella cara rotellina presente sotto l’impugnatura, che più giri in senso orario e più il ferro si scalda? Non c’è. La temperatura la decide lui perché è intelligente. Non si sa quanto intelligente, ma sicuramente più di te, imbecille che pretendi di usare la stessa temperatura per la seta e la t-shirt sintetica, e poi ti stupisci se quest’ultima si scioglie come un magic cola al sole.

Ho comprato questo tipo di ferro perché sulle riviste specializzate ho letto che questa funzionalità è un “must” (l’ho detto, sono un po’ nerd, chi legge le recensioni dei ferro da stiro prima di sceglierlo?). Poi però mi sono un po’ sentito offeso.

Mi piace una intelligenza artificiale che analizzando milioni di dati biochimici individua nuove cure e nuovi medicinali. Mi piace anche un sistema automatizzato in grado di interrogare migliaia di libri prima di fornire una risposta chiara e discorsiva. Sono attività che richiederebbero anni per un essere umano, forse una vita intera.

Ma la temperatura del ferro? Davvero i produttori ci considerano così scemi da non poterla regolare da sola? Dopo le auto che raddrizzano la traiettoria da sole se sbandiamo (e ci impediscono di evitare le buche) e il ferro che decide la temperatura, quale sarà il prossimo passo? La bilancia che scuote il capo e ci invita a mangiare più verdura? Il telecomando intelligente che evita i reality show?

Comunque. Per ora stirare, stira bene. Domani, chissà.

Una vita col giallo lampeggiante

Verde, giallo, rosso. Verde, giallo, rosso. è così che è andata per tanti anni, con tempi diversi ovviamente, adattati alla complessità dell’incrocio. Tu pedone arrivavi, guardavi a destra e sinistra, vincevi la tentazione di passare comunque, aspettavi il verde e via.

Qualcosa però è cambiato. Negli ultimi tempi infatti ho notato una variazione nei tempi del semaforo, per cui il verde è praticamente scomparso, sostituito da un lunghissimo giallo. Ci vogliono sempre tesi, i bastardi. Sempre vigili, pronti allo scatto. Porca miseria scatta il verde e tu non hai fatto nemmeno due passi che è già giallo, e devi affrettarti per raggiungere l’altra sponda prima che un diciottenne che ha pippato ti travolga con la fuoriserie di papà.

La salvezza promessa al di là dell’asfalto non è raggiungibile con una semplice camminata, devi fare in fretta, liberare l’incrocio, toglierti di mezzo. Non ho cronometrato, ma non credo che i tempi per i pedoni siano cambiati: semplicemente il giallo si è mangiato il verde.

Che se volete è un po’ una metafora della cittadinanza contemporanea. Abbiamo votato, esercitato il nostro diritto, adesso basta campagna elettorale, no? Macché, niente verde, si riparte per le amministrative, e poi le europee, e le regionali. Giallo continuo. Ho finito gli studi, ho raggiunto il mio verde? Macché è giallo, corri che devi cercare lavoro, e poi cambiarlo, e poi la pensione, sbrigati perché scatta il rosso.

Siamo ossessionati da gialli lampeggianti che vogliono che corriamo,  ci spostiamo in fretta, ci leviamo di torno. Io ho deciso, nel mio piccolo, che me ne infischierò, e proseguirò placido e tranquillo sulle strisce, sperando che il cocainomane mi manchi per stavolta, che tanto il rosso prima o poi arriva per tutti.

La maledizione della carta plastificata

Quando eravamo un popolo brutto, cattivo e irresponsabile, facevamo la spesa ricevendo sacchetti di plastica. Che poi creavano enormi Groenlandie galleggianti fatte di spazzatura in mezzo all’Oceano Pacifico, roghi tossici per l’ambiente quasi al livello di quelli dell’Ilva (quasi), montagne di rifiuti nelle bidonville di quale paese africano. Tutte scene orrende che abbiamo imparato a temere.
Bene.

Oggi compriamo sacchetti (dalle mie parti si dice buste, a Bologna sportine: sacchetto mi sembra un compromesso accettabile) fatti di materiale biologico, solo che per risparmiare li producono talmente sottili che hanno più o meno la stessa resistenza della difesa del Taranto (la squadra dell’anno scorso: quella di quest’anno si prospetta molto più inconsistente). Un pallone fatto con le Big Babol regge meglio il peso.
Vabbe’, possiamo sostituirli con quelli di cotone o plastica resistente che si può usare più volte. Tutti contenti? Macché. Perché i sacchetti di plastica che usavamo quando eravamo sporchi e cattivi poi li riciclavamo per portare fuori la spazzatura. Oggi facciamo la spesa con sacchetti di cotone, e poi quelli di plastica li compriamo per buttare via l’immondizia. Ma davvero vi sembra una scelta intelligente?

E non parliamo poi della raccolta differenziata. Signori produttori di packaging, ve lo dico una volta per tutte: o la plastica, o il cartone, o quello che pare a voi, ma mi rifiuto categoricamente di accettare i vostri miscugli. I contenitori di latte ci andavano bene tutti di carta, un taglio in punta e via. Ora con i vostri maledetti tappetti di plastica ci avete complicato il lavoro, e poi il brick gocciola latte nel sacchetto (sì, quello di plastica che abbiamo comprato) e fa una gran puzza. Perché questo maledetto mix? 

Il sacchetto del pane lo vogliamo di carta! A che serve quella fascia di plastica? A mostrarci il contenuto? Perché forse non sappiamo di aver comprato del pane, e volete darcene una anticipazione? Cos’è, uno spoiler quella fascetta, per rovinarci la sorpresa di estrarre il filoncino e scoprire cosa abbiamo comprato? Ma dai.

E i biscotti? Basta con queste indicazioni pilatesche: prima di buttare la confezione, informati sulle norme del tuo Comune. Io mi informo, ma tu, piccolo dannatissimo produttore, devi dirmi se l’involucro è di carta, o di plastica.

Se è carta plastificata, la maledizione dei differenziatori scenda su di te e colpisca le prossime settime generazioni cui si romperà il sacchetto dell’umido per le scale o sui piedi.
Sette generazioni.
Meglio estinguersi prima.

La discarica distribuita

Lo smaltimento dei rifiuti è uno dei costi maggiori per gli enti locali. Le discariche sono sempre più piene, differenziare i rifiuti è costoso e complicato. Come fare? 

Ci sono alcune amministrazioni che incentivano la riduzione dei rifiuti, per esempio promuovendo l’uso di compostiere che trasformino in concime i rifiuti umidi, soluzione ottima se vivete in campagna, un po’ meno se pensate di piazzarla sul balcone che si affaccia sul cortile condominiale. Non è detto che i vicini apprezzerebbero.

Altre che incentivano l’uso dell’acqua pubblica (la cosiddetta acqua del sindaco) per evitare che si accumulino bottiglie di plastica. Altre ancora che hanno investito molto sulla raccolta differenziata, arrivando a far sparire i bidoni sostituendoli con la raccolta porta a porta (e tra questi c’è il mio Comune del cuore, Statte, uno dei primi in Puglia).

E poi c’è Bologna. A Bologna hanno pensato: poche enormi discariche sono difficili da gestire. Creiamo centinaia, migliaia, centinaia di migliaia di piccole discariche: una per ogni abitazione. Geniale. Ciascuno si tenga la monnezza, insomma. Vedrai se non impareranno a produrne di meno.

Certo in questi casi l’eliminazione del cassonetto sarebbe risultata eccessiva. Che fare allora? Attuare dei sistemi che disincentivino l’uso. Intanto con l’umido: chiudiamoli a chiave. Chi non ha la chiave, non butta l’immondizia. Si, avrà detto un consulente, ma uno la chiave la mette insieme alle chiavi di casa, e ha risolto. Ed ecco il colpo di genio: una chiave abnorme, che non può stare tra le chiavi di casa, neanche in casa. La chiave per aprire il bidone dell’umido a Bologna è una specie di stella ninja solo cinque volte più pesante. Nei paesi del nord Europa la chiave dell’umido di Bologna richiede il porto d’armi, in America vogliono sostituirla al teaser ma poi rischia di rallentare troppo gli agenti e in auto occupa un posto da sola.

E la carta e la plastica? Semplice. Teniamoli chiusi, Eh ma non si può. E allora sostituiamo l’apertura con una fessurina piccola piccola. Tanto per dire: oh ma che vuoi, il cassonetto è aperto. Se poi è tecnicamente impossibile inserire, per esempio, un contenitore del detersivo formato famiglia nella fessura, o un secchiello, vorrà dire che te lo porterai a casa. Puoi sempre conferirla alla stazione ecologica nei comodi orari di apertura tra la terza e la quarta luna degli anni bisestili o in caso di congiunzione astrale di due o più pianeti del Sistema Solare negli altri anni.

E la carta? Bisogna essere onesti: i fogli di carta nella fessura ci stanno. Anche un giornale ripiegato. Qualunque altre sacchetto contenente carta no, riportatelo a casa, via, sciò.

Vi starete chiedendo: ma se l’accesso alla differenziata è così complicata, finiranno tutti per buttare tutto nell’indifferenziata. Era così, infatti. Ma poi i mega consulenti ci hanno pensato, e hanno introdotto la tessera digitale che ti consente di aprire Sesamo e inserirci un sacchettino, piccolo però.

Il modello è sempre lo stesso. I disonesti facciano come gli pare, possono lasciare la spazzatura sul marciapiede, se gli va. Per tutti gli altri, tenetevi la monnezza a casa. Anzi, visto che siamo a Bologna, il rusco.

La borraccia in sala riunioni

BorracceC’è stato un tempo in cui ad una riunione di lavoro ci si portava dietro al massimo un blocco per gli appunti. Almeno quelli come me che, senza prendere appunti, sentivano di buttare via il loro tempo inutilmente. A proposito, mi avete invitato ad una riunione e non ho preso appunti? Mi avete scoperto, lo confesso, non ve la prendete. Che volete farci. Poi certo c’era quello che si presentava con un abito firmato che gli era costato due volte lo stipendio, ma tutto sommato una spesa ragionevole per dimostrare di contare qualcosa, nonostante quello che gli ripeteva l’ex. E quello che incrociava le braccia dietro la testa e si dondolava, perché l’aveva visto un film di gangster americani e reputava di apparire meno stupido del solito, in quella posizione di potere.

Poi sono arrivati i cellulari, ma all’epoca nessuno aveva voglia di appoggiare mezzo chilo di plastica sul tavolo, anche perché estrarlo dalla tasca dei pantaloni era un’operazione delicata e una volta sistemato lo si estraeva solo se proprio necessario. Ho visto gente rifiutare diverse telefonate importanti solo perché l’antennina si era conficcata nel basso ventre e non ne voleva sapere di tornare a posto. Negli anni duemila il cellulare più piccolo era meglio era (che tempi!).

Fu il Blackberry il primo convitato di pietra a fare la sua apparizione in sala riunioni. Il piccolo manager con aspirazioni di arrampicata sociale lo appoggiava con un sospiro teatrale, senza perderlo mai di vista. Di tanto in tanto lo sbirciava, così per controllare che magari non fosse arrivata l’e-mail per la pizza del giovedì o la newsletter di Forza Milan. Erano in cui non si era ancora diffusa la fregatura del BYOD e le aziende fornivano ancora degli strumenti ai dipendenti, solitamente quelli di medio livello: gli operativi infatti dovevano tenere in piedi l’azienda e non potevano perdere tempo a leggere inutili e-mail, i dirigenti che dirigevano davvero avevano qualcuno che scriveva le e-mail per loro. Insomma, come un distintivo luccicante da esibire sul petto, il Blackberry fu il protagonista indiscusso per qualche anno delle riunioni, poi sparì lui e la sua tastierina minuscola, buona per le dita di Barbie e Big Jim.

Oggi una sala riunioni che si rispetti non può non avere uno schermo di oltre 50 pollici su cui apprezzare le solite presentazioni scritte male (quelle non mancano mai: secondo me fra un secolo si useranno computer molecolari e realtà virtuale 3d, ma PowerPoint resterà lo stesso, con i suoi punti elenco e i suoi sfondi fosforescenti). E poi, sono arrivate loro.

Le borracce.

Intendiamoci: se la riunione è organizzata a Bangui o Arica, tutto sommato avere dietro un paio di borracce può essere una buona idea. Interrompere la riunione per recuperare un po’ d’acqua da un cactus nel Sahara o cercare un fornellino per bollire l’acqua nel deserto di Atacama in effetti può essere fastidioso e minacciare la produttività. Ma noi siamo in Italia, la seconda porta a destra del corridoio ti conduce dritto verso un bagno con acqua corrente controllata centinaia di volte!

E va bene, decine di anni di lavaggio del cervello pubblicitario ti hanno portato a diffidare dall’acqua del rubinetto, ma la tua da dove viene? Sei passato a prenderla come ogni mattina dalla sorgente di Roburent? E se davvero fosse, davvero quell’acqua che ti porti dietro da sette o otto ore, in una borraccia molto alla moda, devo ammetterlo, ma che magari non lavi da settimane, dovrebbe essere migliore di quella corrente del rubinetto? Procurati un bicchiere come quelli che usavamo all’asilo che si allungavano come una molla e vai, se hai sete, no? Alla peggio si richiuderanno mentre bevi e ti faranno il gavettone. All’asilo succedeva, maledizione.

Come avrete intuito, sul tavolo della sala riunioni non ci sarà mai la mia borraccia. Non perché usi bottigliette di plastica. Il fatto è che ogni tanto in bagno occorre andarci comunque, per concludere il giro se non per avviarlo. E davvero non vorrei trovarmi, fra qualche, ad ammirare pappagalli maleodoranti comprati on-line e pieni fino all’orlo che troneggiano sul tavolo, perché una Greta ormai quarantenne ha stabilito che anche lo scarico è uno spreco.

La barbarie del giropizza

Una pizza tagliata a fetteDi solito ordino una pizza alle verdure, se possibile con farina integrale. Non sono un salutista, è che gli affettati cotti nel forno con la pizza sono una bomba a cui il mio organismo non si abituerà mai; non a caso se sono in vena di trasgressioni prendo una speck e grana, o una gamberetti e zucchine. Sono una persona semplice a cui piacciono queste pizze, e che non fa storie di fronte ad una tradizionale margherita. La quattro stagioni non mi piace, nemmeno la diavola, nemmeno quella con il tonno. Le ho assaggiate, non mi sono piaciute, ho fatto la verifica secondo il metodo scientifico e a quel punto ho potuto attestare che, visto che la pizza si paga, tanto vale pagare per una vegetariana che mi piace. Intera, se possibile, che va bene la salute e il controllo del peso, ma insomma, la vita non è un film italiano di sinistra degli anni settanta, per fortuna.

E allora perché, perché, perché (e sono tre) non ci ribelliamo di fronte a questa barbara usanza del giro pizza? Chiamano così, o con sinonimi altrettanto agghiaccianti, una terrificante esperienza in cui, anziché ricevere la tua meritata pizza, ti vedi arrivare della fette di pizze diverse. Così ne puoi degustare diverse, dicono. Degustare? Ma cosa devo degustare, se lo so già che la pizza con i funghi non mi piace? Così ci sarà di speciale in questa pizza americana, da costringermi ad assaggiarla prima di farmi dire che si, lo confermo, l’ananas sulla pizza mi fa cagare?

Eccoti allora cercare disperatamente delle fette che possano comporre, se non una pizza decente, almeno un qualcosa che le si avvicini. Con l’aggravante del giro pizza è che c’è sempre quello che in un modo o nell’altro si accaparra una pizza e mezzo, e tu potrai dirti soddisfatto se sarai riuscito a comporre sul tuo piatto una sagoma di Pac-Man fatta di fette di pizza margherita con uno spicchio di diavola, da cui toglierai tutti i carciofi. Mi dicono infatti che esista anche un tipo di giro pizza in cui  a prezzo prestabilito ti portano quanta pizza vuoi, ma a me pare una leggenda urbana, la verità è che il più delle volte paghi 10 pizze e te ne portano nove, che tanto così tagliate a fette chi vuoi che controlli.
Evviva il giro pizza! Che alla fine si chiama così perché oltre alla pizza ti girano anche… i piatti.