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Buona Pasqua

pasquaA volte mi domando perché Gesù abbia deciso di nascere proprio in Medio Oriente.
Ma poi trovo da solo la risposta.
Se fosse nato in America, non avrebbe mai potuto essere condannato da un tribunale straniero.
Se fosse nato in Africa, non sarebbe arrivato a 33 anni.
Se fosse nato in Estremo Oriente, non avrebbe mai potuto trovare una sala per una cena per 1200 apostoli, giusto gli intimi.
Se fosse nato in Italia, sarebbe risorto dopo 15 giorni, a causa di varianti impreviste alla ricostruzione del Tempio.
E invece è nato li, ebreo, giudeo, o forse galileo, o palestinese, o israeliano, o chi se ne frega.
Perché per definire chi siamo conta quello che facciamo, e non da dove veniamo.
Buona risurrezione a tutti.

Quaranta

40anniUno dei più insopportabili luoghi comuni del cinema è quello per cui il protagonista rivede il film della sua vita un attimo prima di passare all’altra, di vita. Ma perché dobbiamo proprio aspettare l’ultimo momento, con la beffa poi di non poterlo raccontare a nessuno, questo film?
Io voglio rivederlo adesso, almeno qualche scena. Sta per cominciare il mio secondo tempo, voglio rivivere alcune scene salienti del primo. Ovviamente ci sono le scene davvero importanti, la laurea, il matrimonio, la paternità. Ma sono altre che adesso ho voglia di raccontare, dettagli che non rientreranno negli album dei ricordi ma che invece mi frullano per la testa adesso.
In una delle prime c’è mio padre che non riesce ad accettare che io metta un auto di traverso sul trenino elettrico tanto per aggiungere un po’ di pathos mentre mia madre si lamenta del disordine che facciamo con i nostri vagoni, scambi e stazioni. Poi c’è Antonio che dopo una partita a calcio in strada (e il portiere che urla ogni volta che un’auto si avvicina e fa sgombrare il campo) ci invita in casa a vedere il suo meraviglioso videogioco Atari. Wow. Tre stanghette al posto dei calciatori ma wow, quando segni ci sono i fuochi d’artificio. Altro che Playstation 4. Wow.
In un’altra c’è mio fratello entusiasta che apre il regalo del suo ottavo compleanno, una audiocasseta dei Poison (gruppo glam-metal), confermando i miei timori sul fatto che i miei gusti musicali avrebbero potuto influenzarlo negativamente. C’è mia sorella che mi accompagna preoccupata in qualche pronto soccorso dove finisco frequentemente per infortuni vari, c’è mio zio che mi accompagna allo stadio a vedere il Taranto che vince 2 a 1 contro la Juventus (e non era una amichevole, ma Coppa Italia: io c’ero). Ci sono gli anni della scuola elementare, il caschetto di ricci di Emma per fortuna copre buona parte della visuale della maestra, i tiri liberi dell’infallibile Andrea che si è allenato per lunghi pomeriggi con il canestro sotto il balcone di casa, da dove non puoi tirare da tre ma da sotto diventi invincibile.
Ci sono gli anni della scuola media seduti sul muretto ad aspettare che suoni la campanella con Mina che mi racconta nei dettagli quant’è ‘bono uno di terza che ha visto, e per quanto mi sforzi non riesco a partecipare alla conversazione, ma sì, sarà come dice lei, in effetti dev’essere proprio carino, poi quelli di terza sono tutti più belli.

E ce ne sono tante altre, di foto, nella mia testa. Ci sono quelle degli Ambarabaciccicogiochi organizzati con Carla, Fabiana e Rosa che mi fregano anche una fotografia del rullino della macchina fotografica che mi regalano per i 18 anni, pretendendo di avere sempre l’esclusiva. C’è quella con Paola che ride sfogliando il mio quaderno con le vignette mentre ce ne stiamo schiacciati nel 4 che ci porta a scuola a Taranto, e davvero ci vuole un un forte senso dell’umorismo per ridere in quella situazione.

C’è una festa di compleanno in cui Cristina mi tira per un braccio per costringermi a ballare invece di fare il musone (ma io facevo il musone nella speranza che qualcuno mi tirasse un braccio per costringermi a ballare).
In un’altra sequenza c’è Mirko che apparecchia il banco del liceo con tovaglietta, bottiglia, pane e posate per approfittare dell’ora di Filiosofia per un meritato banchetto (al liceo Battaglini non c’era la ricreazione, e non era l’unica cosa che mancava!).
C’è il quaderno di Cristina che passa sotto i banchi e a cui tutti aggiungono un pensiero o un commento (il social con vent’anni di anticipo!). E ovviamente c’è Piero che mi dà un passaggio in moto e che inaugura la fioritura del mio primo capello bianco a meno di diciassette anni. Il capello mi è venuto quando ha incominciato a impennare, per la cronaca.
L’ultima scena del liceo, una delle mie preferite, è quella dell’esame di maturità, prima di Caputo c’è, Dario, e gli chiedono di leggere e commentare “A Zacinto”. Dario prende l’antologia, comincia a sfogliare, sfoglia ancora, cerca, maneggia con un po’ di irritazione, quasi strappa le pagine, poi si gira verso di me e bisglia “Addo’ cazz ‘ste, Capu’?” E io gli rispondo che nell’indice deve cercare “Né più mai toccherò le sacre sponde”, e il momento di impasse è superato.
Sfoglio ancora il mio album di foto mai scattate. C’è quella in cui Sebastiano e Tonio vengono a salutare alla stazione di Bari me e Mario, che siamo di transito e viaggiamo verso nord, a chiusura di un’infanzia che abbiamo fatto durare vent’anni. Appaiono dal finestrino e sulle prime non sappiamo nemmeno se sono veri o un’allucinazione. Sono veri, se fosse stata una nostra allucinazione avremmo visto Sabrina Ferilli in bikini sui binari. In un’altra passeggio per le vie di Cesena con Annamara, abbiamo vent’anni e non sappiamo quello che accadrà, ma sappiamo che sarà bello, in un’altra Luigi a bordo della mitica Renault Cinque suona il clacson scatenato per festeggiare i goal di Baggio in America.

Poi ci sono quattro ragazzi, il sottoscritto e Nico, Daniele, Francesco e Pippo che fanno il giro delle Orcadi con uno scozzese che il quinto amico ha conosciuto su Internet (erano gli anni in cui su Internet si faceva amicizia con gli scozzesi o gli australiani tramite chat testuali, ed era fichissimo). Lo scozzese li ospita due giorni a casa loro e organizza anche un barbecue nel suo splendido giardino. “Quasi mi dispiace calpestare un prato così bello”, gli dico. “Oh, non preoccuparti – risponde lui – è un prato all’inglese. Va calpestato”.
C’è Umberto Eco che, dall’altra parte della scrivania, osserva la tesina preparata con Nico, e propone: facciamo così, vi faccio una domanda, se rispondete bene prendete la lode, altrimenti ventotto. Se rinunciate allora è trenta. I due impavidi eroi ci pensano due secondi, tirano subito fuori il libretto, trenta andrà benone, e non sapranno mai cosa sarebbe stato chiesto loro.
In un’altra immagine ci siamo io e Sara che scriviamo di Netizens seduti sulle sdraio da spiaggia che ho in casa, e che rappresentano l’arredamento del soggiorno, visto che lo zio di un inquilino aveva un bagno in Romagna.
Caspita quanto ho scritto. Bisogna velocizzare. Ma come faccio a non citare il primo giorno di lavoro in azienda, con di fronte la nordica Stella che mi fa pensare che sì, lavorare in azienda non è poi così male, come faccio a trascurare l’immagine di Barbara che si muove tra scatoloni, gadget e pacchi da imballare con un tacco dodici alla fine di un convegno mentre Kate la guarda scuotendo la testa? E potrei dimenticare Alessia che fa sciopero con i metalmeccanici ma siccome il nostro è un contratto del commercio è costretta a prendere un giorno di ferie? O Roberto con i suoi siti battaglieri che aggiorna di notte e che scatenano servizi segreti e antiterrorismo? No, non posso. Ho scritto tanto, ma posso dimenticare Emilio, Filippo e Carlo Fava che discutono di web design, programmazione e Mazinga Zeta nel loro “laboratorio creativo” in via Lame?
O la professionale Michela che cerca di spiegare ai vertici aziendali che con questa nuova azienda americana, Google mi pare si chiami, non basterà mandare una raccomandata per fargli cancellare dei link sgraditi? O Sara che ha il coraggio di entrare nel – fino ad allora – maschile universo del web marketing, introducendo in quel circolo di grezzoni il concetto di tinta, sfumatura ed eleganza?
In un’altra scena compro un mazzolino di fiori che ho preso per far pace con Margherita che ha commesso l’errore di domandare da che parte fa goal l’Italia durante la partita dei mondiali contro la Corea, scatenando i miei commenti sessisti.

Troppo materiale, davvero, bisogna tagliare. Forse avrei dovuto tagliare i tornei di calcio con i catechisti dell’anno Alberto, Marco, Matteo  che danno un nome aggressivo alla squadra della parrocchia, “Le iene”, ma ciò nonostante si vedono sempre superati da squadre di ospiti maleducati. Oppure lo storico 13-2 con cui la squadra messa su da Rocco chiude inglorosiamente un torneo universitario. E pensare caro Rocco che allora almeno avevamo il fiato! E ancora, le serate a giocare a fare i giornalisti del Baraccano con Giorgia con la povera Lorenza che cerca di mettere ordine, i giri su e giù per l’Appennino con quel testardo di Ermanno che vuole convincermi che al mare non si sta poi così bene, o forse vuole convincere se stesso.

Io non voglio tagliare proprio niente. Voglio tenere tutto nella mia capoccia, e di tanto in tanto ritirarlo fuori. Chiedo scusa a tutti quelli che non ho citato, perché non sono su Facebook o perché davvero, rischiavo di scrivere un papiro. E chiedo scusa anche a quelli che ho citato, potete sempre dire che mi sono inventato tutto.
Forse non siete in questo scritto, ma siete stati nei miei primi quarant’anni, e ci siete stati tutti con un ruolo determinante. Perché nel film dei miei primi quarant’anni non ci sono controfigure ma solo protagonisti.

Buon secondo tempo

Le poste mi odiano

cassetta_postale“C’è una fila, signore”.
“Ma io devo spedire solo un pacchetto”
“La fila è unica, signore”.
Le poste mi odiano. Sono arrivato a questa amara considerazione osservando le mutazioni del servizio postale negli ultimi anni. Mi odiano perché io non ho il conto bancoposta, non ho la postamat, non accredito il mio stipendio da loro. Non ho mai comprato un televisore o una lavatrice dai loro cataloghi, né un libro dai loro scaffalini improvvisati. Nemmeno un gratta e vinci, e non mi interessano nemmeno le schede telefoniche a tariffe agevolate.
Io dalle poste voglio una cosa semplice: un buon servizio postale. Voglio poter spedire un libro senza che la spedizione costi il doppio del contenuto, voglio ritirare una raccomandata che non ho potuto ricevere perché me l’hanno consegnata alle 11 (ma chi trova in casa, alle 11, il postino? Persino le ottuagenarie a quell’ora sono al mercatino).
Alcuni giorni fa mi sono recato all’ufficio postale più vicino con questa insulsa pretesa. Dovevo spedire un pacco. C’erano decine di persona in fila: dovevano pagare le tasse, ritirare la pensione, ordinare un bonifico, inviare denaro, ritirare denaro. Attività che in un paese normale si fanno in banca.
Per fortuna, in questi casi, c’è sempre uno sportello, in fondo, un po’ in ombra, dove noi altri vecchi nostalgici possiamo ritrovarci con i nostri francobolli e le nostre buste. Mi sono avviato in quella direzione, e immediatamente una voce mi ha inchiodato di fronte alle mie responsabilità. C’è una fila, signore.
E così ho dovuto mettermi in fondo a quella coda di pensionanti, popolazioni al vaglio di vaglia, ricaricatori di credito telefonico, portatori sani di bollettino, con un’unica colpa: le poste mi odiano. E va bene, mi arrenderò, userò i corrieri. Dovrò rinunciare a mangiare tutti i giorni, considerando quello che costano, ma alla fine mi adeguerò.

Chiamami Legione

coverCi siamo.
Dopo cinque anni di silenzio (anzi, cinque anni di chiasso, vista la presenza delle mie due vivaci nuove coinquiline che hanno preso possesso del mio tempo e della mia casa), torno a pubblicare. Il romanzo si chiama “Chiamami Legione” ed è edito da Sesat Edizioni.
Presto riceverete maggiori informazioni su questa pagina. Intanto anticipo che il romanzo sarà presentato alle Librerie Coop il 28 novembre alle ore 18,15.

Aggiornamento: ecco la pagina dedicata a Chiamami Legione

 

C’erano una volta le librerie

Libri Incontro, giugno 2004
Libri Incontro, giugno 2004

La prima scena coinvolge un bambino che, dopo aver diligentemente percorso gallerie fatte di cappotti e camicie, arriva all’ultimo piano della Coin, quello incantato, quello divertente. L’unico per il quale valga la pena farsi comprare le scarpe, con la mamma che pesta la punta della calzatura per sentire dove arriva l’alluce, armeggiando con quel curioso cucchiaio a forma di scivolo con il quale si infilano le scarpe quando sono nuove.
Il bambino lascia la mano alla mamma e comincia a correre, ci sono libri, poster colorati, giornali, sa che ha già speso la paghetta per il Giornalino e non può ambire ad altro, ma quei colori, quei profumi, quelle colonne di libri rimangono un ricordo difficile da scalfire.

La seconda scena riguarda cinque studenti universitari di comunicazione in vacanza in Scozia. Non mi domandate che legame ci sia tra semiotica e le highlands, fatto sta che i cinque sono lì. Ad Edimburgo, in particolare, unica tappa cittadina del tour a parte la sosta a Glasgow, the smiling city, che decideranno di abbandonare dopo poche ore e una scena di guerriglia urbana in cui per poco non rimarranno coinvolti. Sono ad Edimburgo, la città del Royal Mile, dei locali dove sorseggiare te commentando l’attualità, di Brave Heart. Uno di loro si ferma. quasi folgorato. Alza il braccio destro e indica uno spuntone marrone lungo l’orizzone. Sarebbe magnifico essere lassù, dice. Dice sul serio, non è una battuta. Cosa mai ci sarà di magnifico arrampicarsi su una collina, ne abbiamo di migliori in Italia, pensa uno degli studenti (lo stesso della scena della Coin). Ma altri due studenti alzano il braccio e puntano l’indice verso il colle. Noi andremo là, declamano all’unisono. Dicono sul serio, non è un battuta neanche la loro.Gli altri due commentano perplessi che bisogna essere veramente scemi per avere un’idea così imbecille, fra un po’ piove pure. E così, mentre i tre impavidi si infangano fino al collo per quella che continueranno, negli anni, a raccontare come un’esperienza decisiva per la loro formazione umana, lo studente se ne va in giro per librerie, a sfogliare, annusare, osservare libri meravigliosi. Ogni tanto si ferma per una tazza di té (è luglio ma cacchio se è freddo il luglio scozzese, e piove davvero), poi riprende. A sera ritroverà l’altro studente , che se n’è andato in giro per il centro anche lui ma per altre destinazioni, e i tre scalatori commossi che gli ripetono con le lacrime agli occhi che si, sono convinti di aver fatto davvero qualcosa di grande. Contenti voi, pensa lo studente. Io non so se ho fatto qualcosa di grande. Ma so che ho fatto qualcosa di bello. E adesso per favore fatevi una doccia che non mi di condividere l’ostello con tre pecoroni delle Shetland fradici.

La terza scena è ambientata in una libreria di via San Vitale, si chiama Libri Incontro e già dal nome si pone l’obiettivo di essere un punto di ritrovo per i bibliofili, un posto dove magari i lettori possono incontrare gli autori. C’è appunto un autore che, con l’aiuto dell’amico Andrea Antonazzo, sta presentando il suo romanzo, “Bello dentro, fuori meno”. È una delle sue prime presentazioni, ad ascoltarlo ci sono solo amici, già numerosi presagi lasciano intendere che non è destinato ad una carriera particolarmente brillante. Ma non importa, quella scena rimane, e ci sono scene talmente magnifiche che ti fanno dimenticare che il resto del film non è poi questo granché.

Mi sono limitato a tre scene, ne avrei potute raccontare decine. La libreria è da sempre per me un posto straordinario. Come i negozi di dischi, le videoteche o le sale giochi con i biliardini, stanno scomparendo. E se mi fa male sapere che presto non ci saranno più negozi di dischi, non mi rassegno all’idea che è destino che scompaiano anche loro. La libreria della Coin non c’è più, e nemmeno Libri e Incontro. Insieme a tante altre, quelle piccoline e disordinate che sembravano una protesi cartacea del libraio, quelle grandi in cui ti perdevi e chiedevi ai commessi dov’è l’uscita. Però è così, e come scrittore non mi sembra nemmeno così grave: in fondo su Amazon e IBS ci siamo tutti, Fabio Volo e Carmine Caputo: nelle piccole e grandi librerie c’è quasi sempre solo Fabio Volo, perché la distribuzione ha delle leggi a cui pochi possono ribellarsi. Però non mi rassegno.

Forse invecchiare vuol dire proprio questo, vuol dire rattristarsi perché se ne vanno gli scenari che ci hanno regalato delle scene che non riusciamo a dimenticare.

Creatività precaria

uffici2001

  • Ma davvero hai mandato il curriculum a diverse aziende?
  • Certo.
  • E se poi ti chiamano, ci vai al colloquio?
  • Certo che sì.
  • Mah, io non potrei mai. Tutti i giorni la stessa vita, sveglia presto, timbri il cartellino, un capo che ti dà ordini tutto il tempo, le riunioni, gli straordinari. Per carità, non c’è niente di male per un operaio, o un ragioniere. Ma per un esperto di comunicazione è diverso. Noi abbiamo bisogno di stimoli, di allevare la nostra creatività, di viaggiare. Non possiamo inaridirci dietro una scrivania. Sono appunto stato ad un convegno sulla convergenza digitale, guarda il futuro è quello, verrà il giorno in cui i computer, i telefoni e le televisioni saranno connessi, e ci sarà un sacco di lavoro per chi produrrà contenuti. E un sacco di soldi.
  • Può darsi, non dico di no. Però io non ho il carattere per fare l’imprenditore e nemmeno i soldi. Se trovo un lavoro bene, altrimenti non so nemmeno quanti mesi potrò mantenermi a Bologna.

2005

  • Ciao come stai? Ehilà che eleganza, che bel vestito. Ma allora? Non dirmi che davvero ti sei fatto assumere in banca?
  • No, non in banca… Però sì, sono un impiegato.
  • Ma dai, non posso crederci, e davvero timbri il cartellino, poi vai in pausa pranzo con i colleghi, caffettino a parlare di vacanze, il sabato la spesa e queste robe qui?
  • Be’ più o meno…
  • E dai, con il tuo talento, sprecarti così per mille euro al mese, scommetto! Sono appena stato ad un workshop ad Amsterdam sulla nuova cittadinanza, le nuove reti di connessione, c’è un mondo di occasioni da sfruttare! Domenica parto per una serie di conferenze a Barcellona, in una sono relatore, perché non ci vieni?
  • Be’, veramente è novembre, prendere una settima di ferie in questo periodo…
  • Già, le ferie, che dramma! Ma scusa, non hai un po’ di flessibilità, tipo staccare per una settimana o due per fare un po’ di formazione, ricarburare, approfondire i tuoi interessi… Prenditi un anno sabbatico, no?
  • Per me la flessibilità vuol dire entrare tra le 8,30 e le 9,30…
  • Non me lo dire, ti prego, non me lo dire, non ti posso vedere sprecare così la tua vita. Molla tutto, dai, fai come me che sono un libero professionista, ho appena preso tremila euro per lo storyboard di un portale, sai io mi limito a definirne la corporate identity, le possibili redemption in termini di customer satisfaction, poi per carità la parte informatica la fanno altri che è una materia così arida io non potrei mai, poi se capita l’occasione magari organizzo qualche evento. Anzi, sai che ti dico? La prossima volta che organizzo una conferenza stampa ti chiamo, tu sei pubblicista, no?
  • Sì ma lavoro in un ufficio stampa… È un po’ diverso.
  • Vabbe’ dai però promettimi di pensarci. Ci mettiamo insieme, io ho già il mio giro di clienti, tu rispolveri un po’ le tue capacità, vedrai ci divertiamo. Mi raccomando cerca di viaggiare un po’ che dietro alla scrivania mi appassisci.
  • Non è che magari sei tu che vuoi mandare il curriculum dove lavoro io? Per un po’ ancora stanno assumendo.
  • Si, ti piacerebbe. Però ci penso, perché no, per qualche mese potrebbe anche essere interessante, però cavolo non con quegli stipendi lì, eh…

2014

  • Guarda chi c’è! Mamma mia come sei ingrassato! E i capelli bianchi!
  • Si in effetti gli anni passano, il tempo libero è sempre meno. E tu? I tuoi workshop?
  • Vengo appena adesso da una settimana di incontri tra creativi precari.
  • Ah. Interessante. Di che avete discusso?
  • Be’, di questo sistema del lavoro opprimente che uccide noi partite iva e garantisce sempre i soliti, quelli con il contratto a tempo indeterminato, e ferie, le malattie… Io l’anno scorso ho avuto una brutta influenza e se non mi aiutavano i miei nemmeno pagavo l’affitto. Ma dico io, si può continuare così? Basta i privilegi, basta l’articolo 18, azzeriamo tutto.
  • Vabbe’, ciao. Ho un po’ di fretta. Sai come siamo noi impiegati, orari, cartellini.
  • E già! Ma il curriculum l’ho mandato alla tua azienda, ma non mi hanno chiamato.
  • Da alcuni anni lavoro nel pubblico.
  • Ah, una bella raccomandazione, eh?
  • Veramente no. Però sai poi la noia delle scartoffie, contratti, delibere, burocrazia. Tutto molto freddo.
  • Vero. Mi avvisi quando fanno un altro concorso?
  • Certo. Ma sono bloccati da sei anni. E pure le consulenze. Non che ti potessero interessare, con i guadagni a cui sei abituato tu.
  • Già. Però avvisami lo stesso.
  • Ok.
  • Ciao
  • Ciao.