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Presepe VS Albero di Natale

Un dettaglio del presepe 2013 dell'Arci Statte
Un dettaglio del presepe 2013 dell’Arci Statte

Il presepe può essere vivente, l’albero – se è vero – è quasi sempre morente.

Il presepe spesso è artistico, l’albero è spesso è artefatto.

Nel presepe c’è sempre chi aggiunge una statuina, nell’albero c’è sempre chi rompe le palle.

Il presepe racconta la storia della natività di nostro Signore con il codice iconografico, l’albero racconta frasi sconnesse acceso – spento – acceso – spento – intermittente  intermittente – acceso con il codice Morse.
Il presepe può essere ambientato in una città o in una foresta, in riva al fiume o in montagna, con una grotta o una stalla, con un laghetto o un prato fiorito, con un diorama o un plastico tridimensionale. L’albero può essere con il puntale o senza.

Il presepe ha bisogno di estro e creatività, l’albero ha bisogno di corrente elettrica.

Nel presepe la notte del 24 ci metti la riproduzione del bambinello, nostro Salvatore. Sotto l’albero la notte del 24 – ATTENZIONE: SPOILER – ci metti la casa di Peppa Pig e la cesta per i nonni.

Nel presepe c’è Gesù Bambino, Maria e Giuseppe, i Re Magi, l’angelo, l’asino e il bue, i pastorelli, e poi la lavandaia, il falegname, il contadino e il mugnaio comprati ai mercatini. Nell’albero ci sono palline e nastrini comprati all’Ikea.

Ma soprattutto, se qualcuno di voi nutrisse ancora qualche dubbio su quale preferire.
Il presepe è italiano, l’albero di Natale è tedesco.
W il presepe.

L’ultima cabina

cabinaAlcuni giorni rientrando a casa mi sono accorto che c’erano stati dei lavori sul marciapiede non distante dalla mia abitazione. Visto che era buio sulle prime non mi sono reso conto di ciò che era stato aggiunto o rimosso, ma poi ho guardato meglio e ho visto: la cabina telefonica non c’era più. Sostituita da un telefono pubblico con una striminzita pensillina di plastica.

Per carità, nessuna obiezione seria potrebbe giustificare la presenza di un oggetto che appartiene indiscutibilmente al nostro passato: e sono abbastanza sicuro che tra breve anche il telefono pubblico scomparirà. D’altronde le cabine erano sempre più spesso prese di mira da vandali, e chi ha lavorato nella SIP racconta di quanto costoso e faticoso fosse provvedere alla manutenzione di quelle cabine e prima ancora al recupero del denaro, quando prima dell’avvento delle carte telefoniche si pagava con gettoni e monetine.

Eppure con le cabine scompare definitivamente una serie di abitudini, modi di fare, e perché no, anche di ricordi legati a quei posti. Pensate soltanto all’importanza iconica della cabine londinesi, o alle migliaia di scene di film ambientate in una cabina telefonica (e qui mi limito a citare Uccelli di Hitchcock e Duel di Spielberg, però se volete partecipare al gioco suggerite le vostre preferite).

Pensate all’importanza, nella narrativa poliziesca, della possibilità di lasciar perdere le proprie tracce, oppure delle necessità di recuperare un telefono pubblico tipica del protagonista in fuga: oggi, tra dna tramite il quale si risale praticamente a tutto (nelle serie americane: nella realtà italiana mi sembra un tantino più complicato) e segnali lasciati dal cellulare, studiare un colpo di scena è molto più difficile.

Personalmente il telefono pubblico mi fa venire in mente le prime gite con la scuola, quando la sera in fila indiana raccoglievamo i gettoni per telefonare a mamma che aspettava con ansia in quei pochi minuti di sentire come era andata la giornata, se avevo sudato e se avevo mangiato abbastanza. Le mamme di oggi tracciano gli spostamenti dei figli con il gps, controllano le foto pubblicate su facebook in tempo reale e prima o poi troveranno il modo di misurare online la temperatura corporea dei figli collegando un termometro allo smartphone.
E poi le telefonate lampo ai tempi del liceo quando con quelle carte telefoniche sempre agli sgoccioli ci seccava il tempo che il papà della nostra amica (rispondeva sempre il papà, maledizione) ci metteva prima di passarcela alla cornetta. Perché il telefono pubblico ti garantiva la privacy da un lato, ma dall’altro il problema del papà rimaneva.
E che dire dei bar con l’insegna con la cornetta, a indicare che dentro avresti trovato un sarcofago di legno con un telefono risalente agli anni sessanta che puzzava di tabacco, birra e big babol?
Il telefono pubblico mi fa venire in mente anche gli anni dell’università (il mio primo cellulare è venuto dopo la laurea), le ore passate nelle cabine pubbliche con la mappa di Bologna in mano per cercare un posto letto, le striscioline di carta con i numeri di telefono degli annunci scritti a mano, la disperata ricerca di un bar per cambiare il denaro quando gli spiccioli finivano. Noi quando chiamavamo non chiedevamo “dove sei”, perché chiamavamo sempre un fisso che da trent’anni campeggiava in soggiorno, ma semmai dovevamo essere noi a dire dove eravamo.
Mi fa venire in mente anche le mie urla inferocite di fronte ad un amico che entrato con me nella cabina si lasciava andare a peti roboanti ma rifiutava di uscire perché fuori pioveva. E la speranza che in cabina ti accompagnasse quella ragazzina così carina per chiamare gli altri, che invece sistematicamente rispondeva “ti aspetto qui fuori”.
Ricordo ancora la telefonata a casa per dire che avevo superato i test per l’accesso all’Università di Bologna da una cabina in via Borgo di San Pietro, e quella per annunciare la prima borsa di studio dai dintorni di via Galliera… Per non parlare dei soldi spesi in numeri sbagliati, perché noi il numero lo facevamo sul serio, mica schiacciavamo un nome sullo schermo. Di numeri ne conoscevo a memoria decine, adesso ricordo a malapena il mio. Le telefonate erano poche e importanti, e il luogo diventava parte integrante. Ed era impoortante anche il tempo: nei primi anni di università ero in un collegio dove potevamo solo ricevere le telefonate, per cui era fondamentale sincronizzare i tempi con il chiamante. Sembra passata una vita, sono passati vent’anni.
Sullo stesso marciapiede dove risiedeva l’ultima cabina del quartiere, un giorno mia figlia mi chiese: papà, a che serve quella? Borbottai che serviva per le persone che non hanno un cellulare. O l’hanno dimenticato. O per i nostalgici.
Ora non più.

Bottoni e cerniere

bottoneC’è qualcosa di inesplorato, profondo e inesplicabile che mi mette in difficoltà quando devo gestire delle cerniere. Sarà l’indefinità instabilità di un oggetto che tiene insieme due lembi che appartengono ad aree diverse, simili ma lontane. Sarà che le fanno sempre più piccole e richiedono manualità e precisione da orologiaio che non ci appartengono più da generazioni. Sarà che per i maschietti rappresenta da sempre una minacciosa ghigliottina che con i suoi denti aguzzi minaccia la preziosa virilità e la invita a prudenti nascondimenti nelle retrovie. (Ricordate la splendida scena di Tutti pazzi per Mary?).

Insomma, io le cerniere le rompo con una facilità disarmante, e “La casa della lampo” fu il primo indirizzo che annotai quando venni a vivere a Bologna 19 anni fa (off topic: a ottobre ho compiuto una svolta importante, perché ormai ho trascorso più anni a Bologna che a Statte, ma in fondo chi se ne…direte voi) dopo quello della stazione dei treni e dell’Università.
Per non parlare poi del colmo della cattiveria, e cioè le cerniere che si aprono in due versi, quelle con due vetturine che viaggiano in senso opposto, e una apre, e l’altra chiude, che in genere mi durano cinque minuti, lasciandomi poi con una linguetta metallica in mano a testimonianza del misfatto. E hai voglia a cercare di ricongiungere le parti, sembra che non si siano mai viste prime, loro che fino a un attimo prima erano un tutt’uno e adesso non combaciano per nulla. Dopo due ore di martellate e staccando i dentini più irresponsabili magari l’hai pure riattaccata, ma alla prima distrazione tornerà a gettarti nello sconforto.

Il bottone invece no. Il bottone mi piace. Nel bottone c’è il compimento di due alterità che si completano a vicenda (evito ardite metafore sessuali ma so che ci avete pensato). Persino il true bottoncino metallico, quello di certi jeans, nella sua genuità industriale è più accondiscente della cerniera. Mi spingerei quasi a dire che il bottone è analogico, mentre la cerniera è digitale. Nel mondo dell’analogico capisci come funziona, col digitale devi fidarti.

Il bottone mi piace perché  è dolce, graduale, sostituibile. Persino sexy, in certe commesse in tailleur con un bottone della camicetta lasciato colpevolmente sganciato che non lascia intravvedere niente ma lascia presagire la felicità. Il bottone ti lascia la libertà di strafare ad un pranzo di matrimonio senza dare troppo nell’occhio, è comprensivo nei confronti di troppi lipidi accumulati sul giro vita, il bottone è complice. La cerniera no. La cerniera è massimalista, o tutto niente. E falsa cortese: ti dà l’impressione di aver chiuso la bottega, poi qualche risolino e una certa piacevole frescura ti mettono di fronte all’imbarazzante verità del tradimento.

Il bottone è parte del nostro linguaggio (starsene abbottonati; attaccare bottone…), della letteratura (la Guerra dei bottoni). I bottoni ci piacciono talmente tanto che chiamiamo così anche i pulsanti. La cerniera è talmente insulsa che cerchiamo dei sinonimi (lampo, zip) per darle un po’ di verve. Ho scoperto che c’è persino un sito dedicato ai button lovers (attenti a come digitate, specie se c’è qualcuno con voi).
E poi con la cerniera rotta non ci fai niente, mentre con il bottone in mano il giovane papà può sempre chiedere aiuto alla giovane mamma o alla giovane nonna…

Cortili

Era il Maracanà esaurito in ogni ordine di posti dove vinsi la Coppa Intercontinentale con il Taranto, segnando di testa, in rovesciata e persino di tacco. Era la tana dei gangster dove alla guida della mia squadra di agenti speciali sventrai le organizzazioni criminali consegnando alle patrie galere i miei nemici giurati. Era il pianeta azzurro (o forse lillà, i colori non sono mai stato il mio forte) dove atterrai con la mia astronave riorganizzando la rivolta contro l’impero di Mingor e i suoi druidi assassini.

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Era il cortile di casa mia.

Se devo identificare un luogo della mia infanzia, non avrei dubbi nell’indicarlo. Complice una fantasia ipertrofica, in quel cortile ho trascorso intere giornate, vivendo avventure mozzafiato di cui ero regista, interprete e unico spettatore. Quando qualcuno mi vedeva saltare, gridare o addirittura prendere a calci palloni immaginari, chiedeva a mia madre se andava tutto bene, e lei sì, rassicurava che quel figlio non era affatto matto, non del tutto almeno, solo giocava in maniera piuttosto originale.

Crescendo ho affiancato alla fantasia una serie di discipline sportive reali: ciclismo – con i miei cugini e i mie fratelli giravamo in tondo quel cortile per giornate intere, e vinceva chi metteva i piedi per terra per ultimo – calcio – la porta era sotto la finestra di mia sorella, ma quando studiava non si potevano chiudere le persiane e quindi toccava tirare solo rasoterra – pallacanestro.

Come nelle migliori tradizioni hollywoodiane, mio padre assecondò la mia passione mettendo un canestro in cortile. Solo che il cortile era un po’ sghembo, per  cui ero bravo a tirare da fuori da sinistra, mentre da destra potevo riuscire solo con il sottomano. E però dovevo giocare con un ridicolo Super Santos, troppo leggero, perché le piante di mia nonna soffrivano troppo i rimbalzi di un vero pallone da basket.

E poi ancora in quel cortile hanno visto la luce piste per le gare di ciclotappo, epiche sfide con le biglie, persino partite di pallavolo (alle ragazze piaceva). Era in quel cortile che mio padre installava il suo enorme plastico per treni elettrici, e rimaneva deluso nel rendersi conto che non mi entusiasmava vedere il treno girare in circolo e preferivo mettere un po’ di pepe alla sceneggiatura lasciando una macchinina bloccata sul tragitto e guardandolo deragliare.

Se c’è un frustrazione che provo come giovane papà è il fatto di non poter dare alle mie figlie un cortile. Negli appartamenti non ci sono. Alcuni hanno il giardino, altri uno spazio condominiale, ma un cortile è un’altra cosa. A Bologna i cortili sono quei giardini meravigliosi all’interno di palazzi signorili dove si affacciano studi notarili e cliniche odontoiatriche per vip,  e dove un bambino con una palla verrebbe allontanto con male parole e rinchiuso in riformatorio, in caso di recidiva.

Per fortuna per ora per Natale mi hanno chiesto bambole, pupazzi e altri regali prevedibili. Se un giorno mi dicessero: papà, vorrei un cortile, sarei costretto ad ammettere che Babbo Natale non può permetterselo.

Orgoglio Comunale

italiaPotrete tagliarci i fondi per comprare le penne, scriveremo con le matite.
Potrete toglierci i fondi per stampare il giornale, manderemo newsletter.
Potrete mandare gli anziani in pensione impedendo di assumere giovani, continueremo ad arrangiarci come abbiamo sempre fatto, alla faccia delle vostre leggi di stabilità.

Perché noi siamo i Comuni.

Siamo noi che dobbiamo prenderci cura dei profughi, mentre voi spendete miliardi per pattugliare le coste con gli incrociatori.
Siamo noi che dobbiamo mandare a scuola i bambini che non hanno nemmeno un tetto, mentre voi parlate di solidarietà ai congressi internazionali.
Siamo noi che dobbiamo ogni anno spiegare ai cittadini che se dipendesse da noi, i soldi che buttiamo via ogni sei mesi per ristudiare le nuove forme di tassazione e riorganizzare software, uffici e procedure (e Tarsu, e Tares, e Tarsi) li useremmo per ridurre le tassazioni.
Siamo noi che veniamo rimproverati perché non esponiamo bandiere luccicanti come vorrebbe il Ministero dell’Interno, mentre la Corte dei Conti vigila affinché non si spenda nulla in spese di rappresentanza.

È da noi che vengono i cittadini esasperati, avviliti, mortificati; è con noi che se la prendono per uno Stato assente che non risponde perché impegnato una cena ufficiale, un Gi-qualcosa o un congresso.

Ma noi Comuni c’eravamo quando l’Italia era tutt’al più un’espressione geografica. Molte delle bellezze che il mondo ci invidia, piazze, palazzi e talvolta chiese, le hanno costruite i Comuni, mica i ministeri.
Abbiamo ricacciato Saraceni e Barbarossa a calci nel sedere, non saranno certo falchi e colombe, Letta e Brunetta a farci paura.
Perché prima o poi sappiate che vi manderemo tutti a quel paese, perché questo paese è il nostro.

E che cacchio.

PS So che questo post rigurgita populismo da dipendente comunale, o addirittura sentori di protoleghismo, ma scusatemi, ho talmente tanti sassolini nella scarpa che talvolta mi sembra di fare un percorso vita per il benessere plantare.

Feste di compleanno

Festa di compleannoDomani festeggeremo il quinto compleanno di mia figlia. Come da suo desiderio, lo festeggerà insieme ai suoi compagni di scuola materna in un ex-stabilimento industriale riconvertito a ludoteca pieno di gonfiabili, piscine con le palline, giochi di varia natura, murales a tema.
Inevitabilmente il giovane papà in queste circostanze corre con la memoria ai suoi, di compleanni.

Per inciso, evitate le battutine argute, ho intitolato la sezione “Giovane papà” cinque anni fa, adesso non posso cambiargli nome in “Papà adulto”. Si tratta di una questione di search engine marketing, mica  per altro. Almeno sul mio sito, rimarrò giovane papà per sempre: chiuso inciso.

Ebbene, tanto per cominciare le mie feste di compleanno in età prescolare non prevedevano la presenza di compagni di classe. Un po’ perché io, come la maggior parte dei miei coetanei meridionali con la mamma casalinga, la scuola materna l’ho davvero frequentata dopo i cinque anni, e solo al mattino. Mia figlia invece con i suoi coetanei passa sette, otto ore al giorno, e ha conosciuto anche due anni di nido. Un po’ perché le feste di compleanno si organizzavano sempre ed esclusivamente in casa, e per quanto grandi potessero essere le abitazioni, questo voleva dire ospitare almeno una decina di cugini, più qualche vicino di casa e qualche altro parente alla lontana. E quindi lo spazio per tutti non c’era.

Benché le case dei meridionali avessero questa capacità magica di allargarsi, quasi fossero elastiche, in certe situazioni: un letto scompariva nascosto nello sgabuzzino, un tavolo finiva dietro l’armadio, i mobili si ritraevano timidamente negli angoli: le case sembravano persino più alte. E si faceva sempre e comunque posto per tutti: nonni, zii, cugini, amici. Talvolta capitava che gli uomini se ne andassero in una stanza a giocare a tresette, mentre le donne in un’altra si aggiornavano sulle eccitanti novità paesane. Noi bambini ce ne andavamo nella cameretta, e ci stavamo tutti larghi, anche perché, diciamoci la verità, il più ricco allora di noi aveva la metà dei giocattoli che hai il più povero dei bambini di oggi.

Quello che non mancava mai in quelle feste erano le sedie, ovunque, in sala, in cucina, nei corridoi, in balcone, e su ognuna c’era seduto qualcuno, la nonna sorridente con le braccia conserte, lo zio più giovane che collaborava nello sperimentare i giocattoli ricevuti in regalo, la cugina più grande con il completo nuovo a cui per la prima volta veniva autorizzata la presenza nel soggiorno, cerimonia tacita di iniziazione. Ovviamente le feste riuscivano meglio d’estate, quando si poteva sfruttare cortili e balconi, ma io sono nato a marzo, e per quanto la Puglia sia una regione tendenzialmente calda, se deve fare freddo lo fa a marzo. Eppure ci stavamo tutti ed eravamo felici, in quelle feste con le pizzette e la focaccia con le cipolle fatte dalla mamma, la torta con al massimo il nome del festeggiato e le candeline riciclate dall’ultima festa, i bicchieri con il nome scritto con il pennarello perché non bastavano mai.
E c’erano sempre tutti perché all’epoca non avevano ancora inventato il “mi dispiace ma ho già preso un altro impegno”.

Altri tempi, altri luoghi. Sono sicuro che mia figlia, con la sua torta preparata in pasticceria con l’effige della Bella Addormentata nel bosco (oddio ma era quella che voleva? O era forse Cenerentola?), con le centinaia di bicchieri comprati dal papà che esorcizza la povertà comprando bicchieri di plastica in eccesso, con i gonfiabili dove giocherà con i suoi amici, domani si divertirà.

In cuor mio spero se chi diverta almeno quanto mi divertivo io,  in quelle feste in casa di trent’anni fa.