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Grazie Cardinale

Il tramontoC’è un libro che, come si suol dire, ha cambiato la mia vita. Non è un romanzo, non è un libro di poesie, forse non è nemmeno un libro: È “Il lembo del mantello”, la lettera pastorale che il Cardinal Martini scrisse nel 1992 e che io lessi un po’ di tempo dopo. Ero un liceale indeciso sul mio futuro, allora: mi affascinavano le materie sociali di stampo psicologico anche se in maniera fumosa, mi appassionavano le nuove tecnologiche e l’informatica anche se i linguaggi di programmazione mi sembravano troppo aridi, mi sembrava che ingegneria ambientale suonasse bene anche se un po’ troppo ingegneria e un po’ troppo poco ambiente, le mie capacità di favella  mi portavano a non escludere giurisprudenza.

Poi lessi “Il lembo del mantello”.

In quel testo il Cardinal Martini trattava il tema della comunicazione, che, ricordava, aveva molto in comune con la parola “comunità”. Proprio come il lembo del mantello di Gesù, che una donna malata tocca tra la folla ottenendo, grazie alla sua fede, la guarigione, gli strumenti di comunicazione di massa (allora si chiamavano ancora così) rappresentavano per Martini uno strumento umile, che talvolta striscia per terra aggiungo io, ma che può farsi strumento di salvezza. Fui letteralmente folgorato, decisi che mi sarei occupato di comunicazione, che si poteva cercare una strada in questo settore anche senza avere ambizione di diventare showman o veline (non c’erano ancora, ma il concetto sì: anzi, visto che siamo in tema di comunicazione, c’era la sostanza e in parte la forma del contenuto ma ne mancava l”espressione).

Non mi dilungo oltre su quella meravigliosa lettera che ho scoperto essere stata pubblicata integralmente dall’ordine dei giornalisti della Lombardia, per cui vi consiglio di leggerla. In seguito anche un mio docente universitario prematuramente scomparso, Mauro Wolf, ci consigliò di leggerla accanto ai manuali di giornalismo e sociologia.

Ebbi modo di sentirlo parlare di persona nel 1997 a Parigi, dove tenne una lectio divina durante la giornata mondiale della gioventù, ed è inutile dire che è uno dei ricordi più intensi di quella esperienza. Definirlo “progressista” rispetto al “conservatore” Ratzinger è sicuramente limitativo: diciamo che Martini aveva il dono di farsi comprendere ed amare da tutti, mentre forse per capire il Papa attuale bisogna avere determinati strumenti (di cui io sono privo, per intenderci). Chissà cosa sarebbe successo se fosse diventato papa lui, si dice che alla prima votazione abbia ottenuto più voti di Ratzinger ma che abbia chiesto di non essere votato perché già gravemente ammalato di Parkinson. Ogni volta che qualche comportamento nella gerarchie ecclesiastiche o nel Vaticano mi turbava, andavo a leggere le sue parole e mi tiravo su. Ossigeno puro in mezzo a scarichi maleodoranti.

Adesso non c’è più, un’altra finestra da cui scorgere la luce dello spirito santo si è chiusa. Grazie per quello che ci hai dato, Cardinale. Speriamo che si aprano in fretta altre finestre, le tenebre incombono quaggiù.

Taranto deve morire?

Dopo l’ultima accelerata tra le colline delle murge il treno aveva ormai intrapreso un’andatura più rilassata, con quel tipico “dlon dlon” delle ruote che stridono sulle rotaie che sembrano più vicine perchè si va più lenti. Un uomo sulla quarantina si alzò dallo scompartimento, si mosse incerto nel corridoio, andò verso un finestrino e lo aprì sorridendo. Una vampata di cattivi odori, mefitici, così disgustosi da chiudere la bocca dello stomaco invase il vagone.
L’uomo richiuse il finestrino soddisfatto e ritornò al suo posto con il sorriso sulle labbra, mentre il treno attraversava la stazione di “Cagioni”. Lanciò uno sguardo verso un altro viaggiatore che lo osservava interrogativo, e spiegò: “Quando sento questa puzza vomitevole, so di essere tornato a casa”.

Il rapporto tra Taranto e l’industria può essere sintetizzata da questa scenetta, cui ho assistito anni fa. Non si tratta solo di Ilva, perché anche il porto, la Cementir e la raffineria Eni non è che producano profumo di viole, però è chiaro che il siderurgico, grande due volte la città, fa la parte del leone.

I dati sono impressionanti e non voglio riportarli qui, migliaia di morti riconducibili all’inquinamento, decine di aziende agricole o legate all’allevamento costrette a chiudere per la presenza della diossina nei loro prodotti, allevamento dei mitili – uno dei gioielli di Taranto – in ginocchio, visto che un paio d’anni le cozze non sono più commestibili per la presenza di PBC velenosi, il turismo frenato dalla presenza di spiaggie meravigliose ma in tratti di costa non più balneabile.

Tutto ciò per i tarantini non è una novità. C’è un disegno geopolitico che risale agli anni cinquanta che vuole legare Taranto indissolubilmente al siderurgico e al porto militare, evitando qualunque altro tipo di attività che possa disturbare i manovratori di Roma. Questo perché l’acciaio serve, alle industrie settentrionali, che però rifiutano la puzza, e serve anche un porto militare pronto all’uso nel mediterraneo, di fronte al medioriente “bollente”.

Clini, il ministro per l’inquinamento ambientale, nel 2000 diceva ““La chiusura dell’altoforno e della cokeria delle Acciaierie è una questione urgente. Sul piano dei danni ambientali, dell’inquinamento e della salute dei cittadini siamo già in ritardo”. Peccato si riferisse a Genova. Chi se ne frega di Taranto, Taranto deve morire, sacrificato sull’altare della produzione nazionale.

Si calcola che in vent’anni siano più di  centomila i giovani e meno giovani che hanno lasciato la città cercando fortuna altrove. Dieci volte il numero di quelli che invece sono rimasti a lavorare nell’indotto dell’Ilva. Solo che di loro apparentemente interessa poco, così come interessa poco degli allevatori, dei contadini, dei miticoltori, dei malati oncologici.

L’azione della magistratura di questi giorni rappresenta una novità perché, per la prima volta da sessant’anni, dice che i tarantini sono cittadini come gli altri italiani. Non sono cittadini di serie B (magari: la squadra avrebbe conquistato la promozione ma poi è stata cacciata in serie D, ma questa è un’altra storia). Hanno diritto a industrie – siderurgiche, anche – che rispettino i vincoli ambientali e non semino morte, come in Corea, in Germania, Belgio.

La soluzione sembra ovvia, per una volta darebbe ragione persino al cerchiobottismo di Nichi Pendola (con i lavoratori ma anche con i padroni, con l’ambiente ma anche con la diossina, con la sinistra ma anche con la destra): i Riva sistemano il siderurgico e tutto torna a posto.

Io temo non sia così semplice. I Riva non sono “cattivi” che vogliono inquinare. Anche perché l’Ilva inquinava ugualmente, e forse di più, quando era pubblico. I Riva sono capitalisti e vogliono fare profitti, come chiunque si muove in questo mercato, e il mio timore è che se si dovesse rivelare vero che hanno corrotto politici e funzionari a destra e sinistra, spendendo un sacco di soldi, anziché mettere a norma lo stabilimento, è perché corrompere costa tanto, ma mettere a norma costa di più.

Il mio timore è che ripulire Taranto costi talmente tanto che i Riva cerchino solo un’occasione per liberarsene, e magari aprire in Cina o Brasile, dove ci sono più spazi da inquinare e una magistratura meno “invadente”. Si tratta di un timore, spero di essere smentito. Anche se mi domando se, con tutti quei milioni di euro per l’Ilva, non si potrebbero investire progetti per reimpiegare gli operai e dar loro un lavoro in altri settori. Chissà.

Intanto però l’Abramo tarantino ha condotto suo figlio Isacco sull’altare e si prepara a sacrificarlo. L’angelo grida di non farlo, che non è necessario, ma chi ascolta più gli angeli?
I ministri gridano più forte, e la puzza mefitica invade i vagoni.

Quando lo spot è dentro il film

Tratto dalla locandina originale del film. Tutti i diritti dei rispettivi proprietari.

Ho visto con mia figlia il film dei “Puffi”.

Ovviamente, quando guardi un film con un piccolo, ti accorgi di alcuni aspetti che da solo ti interesserebbero meno, e mi riferisco in particolare al product placement. Il film dei Puffi ha alcune gag divertenti (benché il migliore attore sia il gatto Birba, che è animato al computer), una storia sui sani valori della famiglia, la solita New York da cartolina, effetti speciali adeguati e il solito rapporto tra personaggi animati e creati al computer che ormai, dai tempi di Roger Rabbit, non ci meraviglia più.

Il problema è che l’invadenza degli sponsor è ossessiva! Il product placement si riferisce infatti alla possibilità di mostrare un prodotto durante il film con l’obiettivo di farne pubblicità, in cambio di finanziamenti. Nei film anni settanta di serie B non mancava mai, per esempio, una bottiglia di Fernet Branca. Ma un conto è che, all’interno della storia, un personaggio debba prendere un auto, il regista gli fa prendere l’auto dello sponsor. Nel caso del film, il protagonista è dotato di cellulare Experia della Sony, e non manca di mostrarlo. Vabbe’. Un conto è costruire un’intera sequenza solo per inserirci uno spot fittizio! Nella fattispecie, ad un certo punto i Puffi e si mettono a giocare con la Playstation (a suonare, per l’esattezza, con Guitar Hero)! Per non parlare della scena in un negozio di giocattoli, in cui mancano solo i prezzi e l’indirizzo email dove inviare gli ordini!

Mi aspettavo che da un film del genere si cercasse di vendere pupazzi dei Puffi (sono cresciuto con quei pupazzetti di plastica che si collezionavano per ragioni incomprensibili), ma questo via vai di Sony Vaio, Sony Playstation, Sony Experia e chi più ne ha più ne metta mi ha lasciato interdetto. Anche perché quando una pubblicità interrompe un film puoi cambiare canale, quando la pubblicità è dentro il film, fai un po’ più fatica.

Un conto corrente gratuito

Alcuni giorni fa ho ricevuto in omaggio uno smartphone della Samsung che Ing Direct regalava a chi apriva un conto corrente a novembre e ci addebitava lo stipendio. Una delle tante iniziative commerciali per acquisire nuovi clienti.
Il conto corrente, per intenderci, è completamente gratuito, lo smartphone è vero e funziona (anche se te lo spediscono sei mesi dopo per evitare trucchetti, va bene essere olandesi ma in fondo noi siamo italiani per cui meglio non fidarsi).
Ebbene, mi è capitato di parlarne con amici e conoscenti e la domanda è sempre la stessa: ma davvero a costo zero? E dov’è il trucco? Ma non è che ti fanno pagare le commissioni? E il bancomat? Ma è un bancomat vero?

Il punto è che ormai nella nostra testa sottoposta a ripetuti lavaggi da parte di bancari istruiti a puntino da convention ecorsi aziendali uno dovrebbe pagare per depositare i soldi in banca. Ma quando mai? Le banche hanno bisogno del nostro denaro, specie in tempi di crisi liquidità, e se lo vogliono devono fare qualcosa per convincerci a concederglielo. Sono loro, e questo è davvero l’abc dell’economia classica, che dovrebbero pagarci per averci come clienti. Come? Con un tasso di interesse che remuneri i nostri risparmi.

Ma ai direttori di banca hanno insegnato nei weekend di formazione tra un bigné e un tiro alla fune a spiegarci che ci sono le spese per la gestione della carta di credito, le spese per la gestione del bancomat, le spese per le utenze, il personale…

D’accordo, ma perché dobbiamo pagare noi le spese per le loro utenze? E perché dobbiamo pagare NOI per le affrancature delle lettere che la legge impone LORO di spedirci?
Con l’ebanking pago le bollette, effettuo bonifici, incasso lo stipendio e faccio acquisti senza mai, dico mai, ricorrere agli sportelli bancari (che chissà com’è anche in tempi di crisi proliferano ovunque, fra un po’ mi aspetto che ne appia uno al mercato al posto del banco del pesce). Per cui i conti correnti a costo zero non sono né un trucco né un miracolo (io ho citato il conto corrente Arancio ma ce ne sono tanti altri), semplicemente in questi casi le banche anziché premiarci con tassi di interessi decenti – ricordo che se noi prendiamo i soldi in banca per un prestito paghiamo dal 6 al 20%, se invece li portiamo ci danno lo 0,4%! Ma stiamo scherzando?- anziché pagarci gli interessi, dicevo, non ci fanno pagare i servizi.

Poi è chiaro che a Bologna c’è un solo sportello di Ing Direct, ma per quanto mi riguarda questo non è un problema, non credo che ci andrò mai.
PS Io e mia moglie stiamo litigando per lo smartphone, per chi debba tenerlo. Nel senso che non lo vuole nessuno dei due, io odio il touchscreen (le ditate sullo schermo mi fanno orrore), lei vuole un cellulare che faccia il cellulare e non il computer portatile. Consiglio per ING Direct: la prossima volta regalate un forno a microonde, che mette tutti d’accordo…

Lasciate in pace il nostro desktop

La scrivania del mio Linux a casa. In ufficio però sono molto più incasinato…

Ci sono talvolta delle innovazioni tecnologiche che hanno talmente tanto successo da costringere i produttori – in alcuni casi a condannarli – a riproporli sempre, a costo di rallentare le possibilità di miglioramento. Perché la gente si abitua e accetta il cambiamento solo se davvero comporta dei vantaggi tangibili. Alcuni produttori di automobili hanno provato a sostituire le chiavi con una card, tanto per fare un esempio, ma non sembra che questo sistema si stia diffondendo: se sono abituato a sentire le chiavi in tasca, o a ravvisarne il tintinnio in borsa, perché dovrei sostiuirle con un scheda tra il bancomat e la carta fedeltà del supermercato? La Sony provò per più di dieci anni a sostituire i cd con i minidisc, poi anche i giapponesi hanno dovuto arrendersi, il cd era entrato nel cuore della gente e sopravvive in varie forme persino oggi, negli anni della “musica liquida”.

Però certe volte i produttori si intestardiscono, e non ne vogliono sapere di rinunciare. Un caso emblematico è quello del desktop per pc, che ci accompagna ormai dai tempi di Windows 3.1, e per gli utenti mac da ancor prima. Il desktop – se state leggendo un blog online lo sapete già – è quello spazio di lavoro in cui posso creare collegamenti o “appoggiare” file che mi ritrovo continuamente sott’occhio quando riavvio il computer. Da sempre, il desktop ammalia anche i più ostici, che sentono nel riappropriarsi di quegli spazi una specie di supremazia sul sistema operativo. Nonostante varie leggende metropolitante, come quelle per cui un desktop troppo pieno rallenterebbe il pc, sono pochissimi quelli ch resistono alla tentazione di riempirlo di file e cartelle. Ho visto desktop talmente fitti che l’incona del mouse era una specie di striscia intermittente tra un’icona e l’altra. Ebbene, i produttori si sono messi in testa che il desktop non dobbiamo usarlo così. Che rovina il loro progetto grafico, che ci ingabbia in una serie di azioni ripetitive, che non ci fa sfruttare a pieno le funzionalità del sistema. Non lo so, ma fatto sta che già Windows XP provava a proporsi con una collina soleggiata con una sola icona. L’utente cfi metteva pochi minuti a disattivare la funzione. riposizionare lo sfondo con le vacanze a Gabicce e tornare a lavorare come prima. Sopportando però di tanto in tanto le proposte del sistema di cancellare le icone che – secondo lui – erano inutilizzate.

Windows 7 è ancora più autoritario, e nasconde le icone senza nemmeno chiederci il permesso. Come sempre in Windws è facile taroccare il sistema per fargli fare quello che vogliamo noi – forse è uno dei motivi del suo successo – per non parlare dell’ambiente Linux dove da tempo alcune distribuzioni impediscono di salvare icone sul desktop ( Unity sembra il non plus ultra di questa follia).

Ma cari produttori, quando vi arrenderete? Quando la smetterete di pretemdere di pensare per noi? A noi il desktop piace, e fino a quando non ci imporrete di guidare con una cloche al posto del volante, sceglieremo sistemi che ci permettono di convivere con il nostro amato disordine.

Tutti sotto il tavolo

Ci sono delle professionalità che godono di uno status privilegiato, perché la comunità gli riconosce un valore quasi assoluto: se un medico ti dice che devi prendere una pillola, gli credi, al limite ne consulti un altro, ma sempre con un pizzico di fiducia alla base. Se un avvocato ti spiega qual è l’alternativa legale all’omicidio di tutti i tuoi condomini, alla fine gli dai retta; se uno storico dell’arte ti dice che quel cumulo di sassi nel trecento erano le mura di un castello, cavolo, guardi quel cumulo di sassi con un po’ più di rispetto. E poi ci sono le professionalità non riconsciute, disprezzate quasi: Truffault diceve che tutti hanno due mestieri, il proprio e quello di critico cinematografico. Perché se il critico ti spiega i motivi tecnici per cui un film è un capolavoro, tu scuoti la testa e affermi che no, quella è una cagata pazzesca.
In questi giorni difficili per l’Emilia alla figura del critico si è aggiunta quella del sismologo, che – con tutto il rispetto per chi fa il suo lavoro con impegno – in certi momenti ricordano i commentatori sportivi delle emittenti locali. Quelli che dopo la sconfitta sono lì che spiegano come era ovvio, lo sapevano già da mesi, di cosa vi stupite voi altri ignoranti. Ma prima della partita no, non si sbilanciano, fare un pronostico è impossibile, il risultato è aperto. Se non si possono prevedere i terremoti, non si sa perché ci siano e perché ad un certo punto smettano, se i dati strumentali sono pochi e manca una storia di rilevamenti, se le mappe sismiche vengono costruite in base alla probabilità statistica – come dire che il Genoa ha più probabilità di vincere lo scudetto della Roma perché in passato ne ha vinti tanti – allora va bene, ce ne facciamo un ragione, accettiamo la nostra impotenza di fronte alla natura. Lo facciamo anche per il loro bene, perché se non dicono niente sono irresponsabili, se parlano diffondono il panico. Se proprio vogliamo un dato statistico, mettiamogli un gps in tasca a questi sismologi e vediamo dove vanno a dormire loro e i loro amici. Da quel dato avemmo una mappa sismica molto più accurata.
Ma smettiamola di pagare commissioni, consulenti e ricercatori che elucubrano aria fitta. E semmai in televisione mandiamoci le insegnanti di scuola materna, quelle che hanno insegnato a mia figlia, con molta umilità, che se c’è il terremoto si scappa tutti sotto il tavolo e si aspetta che passi.