Ieri ho confermato pubblicamente di essere un conservatore quasi reazionario in ambito culinario, litigando con il cuoco del self service dove vado a mangiare in pausa pranzo.
Quando ci vuole ci vuole. Il fatto è che io credo alla teoria del darwinismo applicata alla cucina: la pasta e piselli è il risultato di un lungo processo selettivo che ha escluso man mano gli accoppiamenti inopportuni portando al risultato attuale. Volendo, si potrebbe dire che la pasta e piselli che conosciamo è la migliore delle paste e piselli possibili. Il problema semmai è che mentre certi accoppiamenti mostruosi in natura non hanno futuro (e se qualche scienziato ci prova in laboratorio madre natura si ribella e la creatura muore), nell’ambito culinario sembra che più mischi e più sei innovativo, bravo, originale. E allora via alla creatività, infiliamoci la frutta nell’arrosto, il vino nella salsa, le caramelle nella pasta asciutta.
O addirittura (SCEMPIO! SCEMPIO! SCEMPIO!) mettiamoci la salsiccia nelle orecchiette con le cime di rapa, come ha fatto quello scellerato del cuoco che ieri volevo denunciare al nucleo anti-sofisticazione dei carabinieri.
Ma come si fa?
Certo che senza prove non ci sarebbe evoluzione, ma uno le prove se le fa nel retrocucina, al limite fa inguirgitare al vice-cuoco (che è un dottore di ricerca in Filologia Romanza e lavora come precario, per cui meglio se assaggia e poche storie), non le propina alla clientela.
Smettetela!
Perché se uno prova a fare accoppiare una scimmia con una giraffa il mondo si ribella, gli ambientalisti protestano, i dottori di morale si strappano le vesti, e nessuno dice niente se un cuoco mette la salsiccia con orecchiette con le cime di rapa?
Bisogna fare qualcosa, è ora che Green Peace, il WWF o Italia Nostra si mobilitino, di più, questa deve essere una missione dell’Onu, che visto che costa caro e per fermare le guerre è inutile, almeno potrebbe riabilitarsi fermando la cucina creativa.
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Club di non lettori di contratti
C’è stato un periodo a cavallo tra gli anni settanta e ottanta in cui le riviste pullulavano di reclame di oggetti curiosi: le scimmie di mare, gli occhiali per vedere attraverso i muri, il profumo per sedurre le donne, i semi per le fragole magiche e i libri del club dei lettori.
Incredibilmente, venticinque anni dopo, questi ultimi sopravvivono.
Devono avere trovato una nicchia di mercato, se c’è qualcuno disposto a leggere un buon numero di libri scelti da altri. Perché di questo alla fine si tratta: si parte con Baricco ed Eco, si finisce con i manuali per il giardino giapponese.
Spero solo che non campino di espedienti, come quella società di cui preferisco non fare il nome che mi ha mandato un sabato mattina due rappresentanti a casa. Ho aperto loro solo perché aspettavo mio fratello, altrimenti avrei risposto loro come rispondo ai testimoni di Geova (lo so che la fine del mondo è vicina, fratello, è per questo che non voglio sprecare neppure un minuto con te). Mi hanno raccontato tutta la solita solfa su quanto meraviglioso sia questo club, e io solo per gentilezza li ho fatti sedere e chiacchierare. Poi, quando hanno capito che non avrebbero spuntato nulla, uno di loro mi ha presentato un modulo (carattere 4, testo fittissimo) chiedendomi di firmarlo: non era un acquisto, mi ha spiegato, ma solo un documento con cui affermavo di aver ricevuto la loro visita e di aver preso visione dell’offerta. Ci serve solo per documentare di essere stati in giro a presentare il prodotto e non a spasso, mi hanno spiegato i due ragazzi, cercando di impietosirmi con la storia del lavoro precario. E va be’, ho pensato, purché ve ne andiate. Ovviamente il pomeriggio stesso mi sono reso conto di aver aderito al club. Avrei ricevuto un libro al mese o giù di lì ad un prezzo vantaggioso, e se non mi piaceva potevo rispedirlo indietro a mie spese.
Ho immediatamente inviato una raccomandata con ricevuta di ritorno esercitando il diritto di recesso e annullando il contratto.
Ma quanti vecchietti leggono un contratto scritto in corpo 4 presentato da un miserevole e falso farabutto?
Odio Halloween
I nordici sono fondamentalente un popolo di quaquazzoni.
Cioè si fanno facilmente spaventare, e un po’ sembrano anche goderne. Nel lago di Lochness speculano sull’esistenza di un mostro, quando in fondo al lago di Garda al massimo ci trovi qualche pregiudicato e un po’ di scarichi edili.
Il loro romanticismo evocava fantasmi e cimiteri, il nostro battaglie e belle donne. Si fanno spaventare da film che definiscono horror ma che sono solo orrendi: toh, c’è una vecchia casa abbandonata vicino ad un cimitero, una porta che cigola e una inquadratura in soggettiva, vuoi vedere che salta fuori il morto con le fauci insanguinate?
Se un americano vede un morto grida disperato e si fa venire l’esaurimento nervoso, se lo vede un napoletano gli chiede i numeri per il lotto. Sarà questione di clima, forse, ma voi ce lo vedete un film di zombie ambientato a Reggio Calabria? La malavita li farebbe fuori in venti minuti, figurati se ci facciamo rubare il mercato da quattro cadeveri.
Perché dico tutto questo? Perché odio Halloween. E’ una festa demenziale, da quaquazzoni mangia zucche rincitrulliti. Non ha l’eleganza del Carnevale, non ha lo spessore spirituale della festa di Tutti i Santi, in cui dovremmo riflettere e meditare – credenti e non – su chi ci ha preceduto in questa avventura terrestre.
Halloween serve a vendere quaderni, giocattoli e pupazzi, ma anche a forgiare subito dei piccoli, spaventati quaquazzoni. Insegnamo loro subito ad avere paura, terrore, angoscia: da bambini è una zucca, da adulti sarà il terrorismo islamico, la sars o gli immigrati.
Odio Haloween, e chissà, forse lo odia anche Michael Moore.
Viva il carnevale e le zucchine (quelle lunghe e saporite, magari fritte, non quelle arancioni e insipide dei quaquazzoni del nord).
Sfumature multietniche
Ieri ho giocato a calcetto con un gruppo di persone… variopinto.
C’era un peruviano, tutto tocchi di prima, samba e galanteria d’altri tempi. C’era un siciliano, l’ultimo ad arrivare in campo e attento a sedare le risse da lui stesso alimentate.
C’era un colombiano, anche lui passo felpato, eleganza malinconica e poca sostanza.
Un campano, l’organizzatore, amico di tutti.
Uno scozzese, l’unico a fare corretamente il riscaldamento senza lanciarsi subito sulla palla, con consapevolezza nordica.
Un genovese che si è esibito in un turpiloquio da fare arrossire una capo mafia cinese.
Un pugliese capace di segnare un solo di gol di rapina, nel vero senso della parola. Un giocatore dell’altra squadra, appena cominciata la partita, gli passa la palla, convinto che siano compagni. E lui la scaglia fortissimo in porta, avendo pure il coraggio di esultare.
PS. Il pugliese ero io. W l’Italia.
Imparcheggio
I posti auto riservati ai disabili sono un diritto sacrosanto.
Le strisce pedonali sono preziose, in una civiltà dominate dalle auto.
I paletti agli incroci servono eccome per agevolare la circolazione impedendo il parcheggio selvaggio.
I commercianti possono occupare spazio pubblico con i loro gazebo, a patto di pagare le tasse: mantengono viva la città.
Ma quando in poche settimane sotto casa ti vedi circondato da strisce pedonali (in diagonale, così portano via due posti macchina), strisce gialle (manco a Chernobyl ci sono tanti invalidi) pizzerie che aprono la terza sala sul marciapiede e paletti ovunque, tu poveraccio senza posto macchina che perdi mezz’ora ogni volta a lasciare la tua utilitaria ad un chilometro da casa non devi stupirti se cominciano a girarti vorticosamente fino a rimpiangere l’allegra anarchia prepotente dei comuni di centrodestra…
Libri in viaggio
Probabilmente avete già sentito parlare del Bookcrossing: dopo aver letto un libro (uno a cui evidentemente non ci siamo affezionati troppo) lo lasciamo in giro, in parco, in piazza, dove ci capita, firmandoci in fondo. Chi lo trova lo legge e poi lo abbandona di nuovo da qualche altra parte.
L’idea è semplice ma come sempre è esplosa grazie ad Internet, che permette ai partecipanti di non abbandonare il libro al caso (o al primo spazzino che lo getta via), ma di segnalare, tramite un sito web, dove l’ha lasciato, in modo che altri possano andare a cercarlo.
Ebbene, anche il mio piccolo "Bello dentro, fuori meno" sembra essere entrato in questo circuito. O meglio, in una evoluzione dello stesso, per cui un lettore regala un libro al primo che ne indovina il titolo. Mi ha divertito leggere molto le domande fatte su di me (sono vivo! sono vivo!) e soprattutto le risposte (di professione non faccio lo scrittore, ahimè, saranno in tre a poterselo permettere). E poi soprattutto la lista di tentativi fatti, tra cui i soliti best seller ("Tre metri sopra il cielo", "La gita a Tindari" "Io uccido"), dei capolavori assoluti ("Il nome della rosa", "Novecento") e altri titoli che mi è venuta voglia di leggere.
E alla fine dei conti resta il retrogusto amaro del sospetto che la Serena che ha regalato il libro probabilmente non l’ha reputato degno di entrare nella sua libreria, sob!(autostima ferita)