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Go-karrell

C’è un posto dove si può parcheggiare dove si vuole rischiando al massimo di rimetterci un euro. Un posto dove si può fare inversione a U, svoltare a sinistra senza dare la precedenza, procedere tranquillamente i retromarcia in un’allegra anarchia dove non ci sono autovelox e corsie preferenziali.
Non è Napoli, come qualche maligno starà pensando. Sono i centri commerciali. Nei centri commerciali la libertà è assoluta e il codice è fatto di contrattazione. Di fronte alla signora che posteggia il carrello di traverso e comincia a valutare l’apporto calorico dei cioccolatini ricoperti di glassa si può balbettare, tossire, provare lo spunto di forza, o cambiare corsia. E non va meglio dietro al vecchio con la sciatica che si trascina ansimante aggrappato al carrello guardandosi intorno con occhio cupo alla ricerca di un angolo dove sputare.
Sorpassarlo èdifficile perché il nonno sbanda paurosamente e c’è il rischio che durante il sorpasso ve lo troviate abbracciato che vi implora di indicargli dov’è il colluttorio. C’è il forzuto che trascina su e giù il carrello come se fosse un peso per scatenare il bicipite, ma va in tilt nelle curve a sinistra che – è risaputo – inchiodano il carrello che contro la legge di gravità si ostina a girare su se stesso senza muoversi di un centimetro. C’è la timida che lascia il carrello subito dopo l’entrata lo parcheggia accanto alla guarda, poi fa avanti e indietro tutte le volte che compra qualcosa per non intralciare il traffico.
Non è casuale, forse, che “la casa degli italiani”, prima di essere un slogan politico di Berlusconi, fosse il pay-off della Standa: si fa tutti un po’ come cacchio ci va. Va bene. Niente corsie, niente vigili.
Ma porca miseria oliate le ruote dei nostri bolidi, ogni tanto.

Scarsi e perdenti

Gli scarsi sono i membri di una squadra che proprio non riescono a svolgere decentemente un’attività. Non sono capaci, lo sanno, e lo sanni gli altri.
Per usare nella metafora calcistica, sono quelli incapaci di stoppare la palla, giocarla, fare un passaggio. Li piazzi in difesa, invitandoli a infastidire l’avversario muovendosi e cercando di colpire il pallone e mandarlo lontano. Non sono dannosi, gli scarsi: presto il gruppo si adegua alle loro caratteristiche ed evita i contraccolpi generati dal loro modo di fare. Il vero problema del gruppo non sono gli scarsi, sono i perdenti.
I perdenti sono coloro con i quali sistematicamente si perde, nel lavoro come nello sport o nella vita. Hanno letto un libro nella vita, e lo citano continuamente; hanno partecipato ad un corso di due ore di qualcosa, e si sentono ormai esperti della materia; hanno cioè quel minimo assoluto di competenza sufficiente a farli sentire sicuri di sé, e a fare danni. I perdenti sono quelli che di solito pretendono di fare i centravanti, si fanno passare decine di palloni (e se non gliela passi se la prendono da soli) e li mandano sempre, inevitabilmente fuori.
Ci sono perdenti e scarsi ovunque: per fare un esempio la Arcuri è una scarsa, ma non fa danni, nessuno si aspetta che reciti nei suoi film, fa parte della scenografia; la Bellucci invece è perdente, perché pretende di partecipare a film seri, e li rovina. Ce ne sono tanti anche in politica, in letteratura. L’importante è imparare a distinguere: abbracciare gli scarsi perché in fondo lo siamo un po’ tutti in qualche settore, e tenere alla larga i perdenti che ci trascinano a fondo con la loro boria

Ball Center

Dei call center si parla spesso per le condizioni disumane di lavoro, per le paghe da terzo mondo, per l’alienazione di chi deve dare risposte precompilate per ore e ore senza poter mai staccare gli occhi dal monitor.
Se ne parla perché è un lavoro che non prevede possibilità di far carriera, e perché in molti casi neanche lo stipendio è sicuro, essendo legato all’efficacia dell’operazione telefonica (in caso di telemarketing).
Io vorrei aggiungere un altro punto di vista: quello del cliente. Sono stufo di musichette noiose (fosse una canzone intera: sono brani di pochi secondi ripetuti ossessivamente), di aspettare anche 15, 20 minuti prima di una risposta, di ragazzi stressati che danno risposte a vanvera e si contraddicono. C’è Lucia per cui il servizio è disattivo, secondo Marco funziona tutto perfettamente, Giulia consiglia di staccare la corrente e riavviare, per Franco il servizio non esiste. Mai due volte la stessa risposta, e soprattutto vaghezza, incertezza, ambiguità, tentennamenti, risposte evasive e provare a prenderci.
Basta!!!!
Assumete delle persone, formatele, fategli fare dei corsi, spiegategli le offerte e i vostri servizi, date modo loro di riposarsi di tanto in tanto, pagateli di più, fate quello che volete ma datemi un servizio decente. Non faccio nomi di aziende tanto, con qualche rara eccezione, la mediocrità del servizio è dilagante.
Salve sono Carla, in cosa posso aiutarla? In niente, Carla, tu hai studiato filosofia teoretica, per te l’ìp è una pompa di benzina e sono sei ore che prendi insulti per conto della tua azienda. Tu non puoi aiutarmi, Carla: spiegalo al tuo capo.

…ma la tua festa, c’anco tardi a venir, non ti sia grave

Ieri per molti ragazzi ci sono stati gli esami di scuola media. I primi veri e propri esami, visto che quelli della scuola elementare sono stati cancellati per non “stressare” i pargoli. (come se essere circondati da genitori ossessivi con il senso di colpa e la sindrome dell’amico non fosse uno stress peggiore: ma questa è un’altra storia).
Ho nostalgia degli esami.
Gli esami erano bianco e nero, dentro o fuori. Sapevi il giorno in cui ti toccava, ti preparavi, avevi l’adrenalina a mille ma poi il gioioso svacco di dopo, un piacere difficile da recuperare. Gli esami davano un risultato certo, magari ingiusto, ma c’era. L’opaco grigiore del mondo del lavoro, invece, fatto di valutazioni strategiche, aspettative crescenti, investimenti sulla produttività, ti inaridisce giorno dopo giorno. Come un liceo che non sai quando dureraà: cinque anni, forse sette, forse trenta. Dipende dal mercato, dalla congiuntura economica, dal consiglio di amministrazione. Mai un bel voto, mai uno cattivo: tu pensi di aver superato un esame, ma in realtà bluffavano, quella era solo la prima parte, poi ci sarà la seconda, poi forse una terza.
Ho nostalgia del bianco e nero, del dentro o fuori.
E soprattutto di quello svacco del giorno dopo che ormai non arriva più…

6-6-2006

Six, six, six, the number of the beast…
La canzone degli Iron Maiden cara a chi è come il sottoscritto è cresciuto negli anni ottanta mi serve per introdurre l’argomento: oggi è il 6-6-2006. Una data fantastica, per esempio, per lanciare un film horror come Omen, e magari per organizzare qualche festicciola in tema sullo stile lugubre alla Halloween.
Sono cattolico e quindi credo nel demonio, ma credo sia ben diverso, e molto più pericoloso, della macchietta legata a simboli e figure attraverso cui gli uomini l’hanno raffigurato nei secoli, forse per esorcizzarlo. Il demonio non è una bestia con le corna, è quella forza che spinge gli uomini a scannarsi per sete di poter o semplicemente, come direbbe Reagan, perché non sono disposti a negoziare il loro stile di vita lussuoso e sprecone. Il demonio, è vero, si manifesta talvolta in maniera violenta: ma più a casi legati a problemi psichici spacciati per indemoniati, basta aprire un giornale nella pagina di cronaca per leggere di stupri, violenze su minori, associazioni a delinquere di vario genere. Sono lì, i demoni, sono dentro di noi, perché ciò che è male viene dal cuore dell’uomo, purtroppo, e non da fuori.
E soprattutto non aspetta il 6-6-2006 per manifestarsi…