Caro dodicenne appassionato di calcio, questa mia lettera vuol essere un affettuoso incitamento ad andare avanti con le tue passioni, nonostante tutto. Nonostante Ventura e Tavecchio, nonostante un campionato che nella sfida scudetto Juventus-Napoli presentava in campo tre italiani. Nonostante stiano per cominciare i mondiali, e l’Italia non è neanche ai nastri di partenza. Non che rivedere l’umiliazione delle ultime due edizioni avrebbe migliorato la nostra autostima, ma almeno avremmo avuto qualche speranza iniziale. Almeno avresti potuto organizzarti una di quelle maratone calcistiche che solo a quell’età puoi goderti con spensieratezza, quell’età in cui le giornate non finiscono mai e il tempo davanti a te sempre inesauribile.
Per Messico 86 il fuso orario non ci agevolava troppo, ma ciò nonostante vidi quasi tutte le partite, e pazienza se la nostra squadra andò a sbattere contro la Francia di Platini, quello era il mondiale della “Mano de Dios” e fu bello esserci anche se per poco. Ho dei ricordi non molto a fuoco ma non perché siano passati gli anni, ma perché i collegamenti via satellite e il tubo catodico del tempo facevano davvero pena. Italia 90 fu l’apoteosi adolescenziale, mi vidi persino la cerimonia di inaugurazione, registrai partite senza motivo (erano gli anni del delirio VHS), vidi persino – e con soddisfazione – partite tipo Camerun-Romania. Per la prima partita, Argentina-Camerun, prenotai il televisore del soggiorno, ci piazzai la poltrona di fronte e mi preparai un’orzata ghiacciata (era il massimo della trasgressione che potevo permettermi). La partita si giocava al pomeriggio, per cui non creai nessun problema familiare. E la sera le partite ce le guardavamo all’arena all’aperto: alla passione per il calcio potevamo provare anche a mescolare qualche infatuazione non ricambiata per le ragazzine che venivano all’arena e facevano domande tipo “dove dobbiamo segnare noi?”.
Certo che finì molto male, però le notti magiche sono state foriere di emozioni, come quell’incredibile squadra, in cui pochi credevano, che quattro anni dopo si fermò solo ai rigori contro il Brasile. Non starò a raccontare tutti i mondiali, per quelli ci sono le cronache sportive. Posso però dire che quando si trattò di decidere la data delle nozze, con molti mesi di anticipo, volli prima consultare il calendario dei mondiali. Ma figurati, mi derisero in molti. Scherzate pure, dissi io, ma preferisco sposarmi quando il mondiale sarà finito. Ve la immaginate una cerimonia il giorno della semifinale se gioca l’Italia? Con tutti che scappano via prima che cominci la partita. E così, anziché il 7 luglio, mi sposai il 14. Da campione del mondo.
La mia generazione è stata fortunata, lo dobbiamo ammettere. Siamo arrivati ad un punto calcisticamente così basso da poterci vantare di essere quelli che hanno visto due volte l’Italia vincere i mondiali, una volta seconda, una volta terza. Cosa è successo nel frattempo non lo so, ma ricordo ancora bene quell’emozione a soli sette anni, Cabrini che sbaglia il rigore, poi quell’euforia che mi portò addirittura ad avere un po’ di febbre, e a rimanere alla finestra mentre tutti fuori festeggiavano e sventolavano le bandiere. E le urla del 2006, la testata di Zidane, sbeffeggiare tedeschi prima e francesi poi, con molta più soddisfazione, va detto, di quanto non ci piacque nel 1982 far fuori Brasile e Argentina.
Caro dodicenne appassionato di calcio, forse l’Italia tornerà a vincere, o almeno a partecipare, ma certo tu non avrai più l’età giusta per goderti centinaia di partite. Puoi sempre fare il tifo per l’Islanda. E magari con le ragazzine che ti chiederanno da che parte bisogna segnare avrai pure più fortuna di noi.
Ho finalmente visitato Fico, la Fabbrica Italiana Contadina di EatItaly, di cui ho preferito non parlare prima perché sono convinto che prima di criticare qualcosa bisogna vederla e provarla. E devo dire che l’esperienza non è stata negativa, a patto di chiarire alcuni aspetti.
La comunicazione da me percepita da parte di di Fico, in questi primi mesi di vita, si è focalizzata sull’idea della promozione del cibo genuino, della filiera italiana dell’alimentare, della conoscenza eno-gastronomica. Si parlava di un posto adatto agli studenti e alle scolaresche, di un’esperienza per riscoprire il nostro rapporto con la tavola, e in questa logica si era arrivati a parlare di Disneyland del cibo.
Ebbene, questa comunicazione secondo me è fuorviante, tronfia, presuntuosa e in ultima istanza inefficace. Se davvero vi aspettate una Disneyland, e cioè intrattenimento, gioco, cultura (pop, certo, ma pur sempre cultura), non troverete nulla di tutto questo. O molto poco. Fico è uno centro commerciale. Un bellissimo, innovativo, per certi versi straordinario centro commerciale. Non sono certo Gardaland ma neanche le città d’arte o le fiere specializzate i concorrenti di Fico, ma semmai l’Ikea. Avete presente quelle domeniche pomeriggio uggiose in cui la vostra compagna o un amico – che spero allontaniate presto perché le amicizie vanno selezionate – vi convince a fare un giro all’Ikea, e mangiare salmone surgelato, e fare un giro tra prodotti di cui non avete bisogno, in un mondo luccicante e finto dove abbiamo deciso di sprecare il nostro tempo? Ebbene, è quello il tipo di esperienza che vi offre Fico, ed il vantaggio non è da poco, perché è meglio portarsi a casa una bottiglia di birra artigianale che un set di posate di plastica dai colori allucinanti.
Se solo oggi non ci fosse questa ossessione del politically correct per cui si allestisce un enorme centro commerciale proprio mentre in tanti chiudono, e anziché dire onestamente che l’obiettivo è vendere prodotti alimentari costosi (e di qualità), si parla di “riscoperta del rapporto con la terra”, probabilmente Fico sarebbe più simpatico. Ma davvero secondo i gestori bastano quattro vacche, due pecorelle e un orticello a ridarci la meraviglia della civiltà contadina? Grazie al cielo non siamo ancora in una realtà virtuale alla Black Mirror, di orti veri ce ne sono anche in città, e la provincia è piena di fattorie didattiche dove davvero fare esperienza della vita in campagna. Poi per carità, io non ci trovo niente di male in questa mini fattoria, ai bimbi piace, l’importante è che gli animali siano trattati bene, e magari togliamo quell’orrenda vetrinetta piena di astici “freschi” pronti a essere serviti. Non griderò liberate le aragoste, ma è così che nascono i vegani, cavolo, stiamo attenti ai dettagli.
Ma insomma, cos’è Fico? Un enorme galleria commerciale piena di ristoranti, punti di ristoro, negozi alimentari specializzati, qualche area all’aperto “contadina” (gli orti e le stalle di cui sopra) e sei punti, pomposamente chiamati giostre, dove fare esperienze multimediali. Esperienze che forse sono l’aspetto migliore dell’iniziativa: è stato più appagato il mio lato nerd, nell’apprezzare un video a 360° sulla scoperta del fuoco, molto suggestivo, che non quello ambientalista, che si domanda come si può parlare di riscoperta della terra in un posto in cui gli alberi sono di plexigass e hanno luci led al posto delle foglie. Questi punti sono gli unici aspetti “formativi” di Fico, e devo dire che sono interessanti: ricordano molto l’esperienza di Expo, per capirci, che deve essere rimasta ben impressa a chi ha progettato Fico. Schermi multimediali interattivi, videoproiettori, luci ben calibrate, però la forma in questo caso è più della sostanza, per cui sono sicuro che le mie figlie si ricorderanno di più del gioco in cui con un timone piloti una nave, che non della spiegazione sulla pesca nel Mediterraneo che avrebbe dovuto agevolare. Queste giostre originariamente dovevano prevedere un biglietto di ingresso anche costosetto (circa due euro l’una a persona), ma si è capito che non era il caso, e adesso tra sconti e agevolazioni una famiglia se le vede tutte con una quindicina di euro.
Ci sono anche delle belle sale “cinema”, alta definizione, audio surround, quasi sempre vuote, e il motivo è semplice, i video talvolta sono terribili. Mi dispiace per Maurizio Nichetti, regista che stimo e che li ha curati, ma proprio questi video mi sono sembrati cavoli a merenda. Sono realizzati da studenti di cinematografia, Fico ci fa notare in più circostanze che probabilmente non sono costati niente, quasi a mettere le mani avanti, e dei video degli studenti hanno tutti i difetti: ossessiva ricerca della scena madre, sfocature volute, primissimi piani e fotografia da spot, inquadrature sghembe, rallenty, animazioni al livello dei cartoni animati sovietici degli anni ottanta. Quello che ti aspetti da uno studente, ma che un professionista non farebbe. Mi spiegate cosa dovrei trovare di appagante in un rallenty di un fagiolo che si rotola su se stesso, scivola, incontra una goccia d’acqua, cade a precipizio e finalmente finisce e atterra in un’insalata? Mandateci piuttosto una puntata di Linea Verde, è più interessante, e poi parla di cibo. Per non parlare del video in cui due ballerini seminudi si palpano, si accarezzano, si cercano, e il tutto dovrebbe aiutarci a capire il nostro rapporto con il fuoco. Che poi per me il balletto moderno sempre quello ha rappresentato, il vorrei ma non posso di un fisicato che guarda la sua donna, sospira, la sfiora, le sussurra “ti darei volentieri due colpi come dico io ma sai com’è, questa calzamaglia contenitiva ha degli effetti collaterali…”. Ma non divaghiamo, sono io uno zotico che non comprende il balletto, ma davvero, mi aspettavo qualche breve documentario sulla produzione del vino, la coltivazione del riso, cose adatte ad un sempliciotto come me. Davvero, Signor Fico, ripensa a questi schermi, alla peggio collegali su Rai Yoyo che almeno i bambini si divertono un po’.
Evviva la tecnologia, allora, diciamolo con orgoglio, altro che terra. Quella c’è e va riscoperta, ma in campagna, tra i vitigni della Valsamoggia e gli allevamenti della bassa, con gli apicoltori dell’Appennino e i frutteti imolesi, mica qua. Anche perché la tecnologia ha reso migliore la nostra vita e il modo in cui mangiamo, non c’è da vergognarsi: vogliamo dirlo una volta per tutte che questa nostalgia del cibo di una volta è in larga parte una grande ca**ata? Vogliamo dirlo che l’olio “naturale” che i nostri nonni preparavano nei frantoi aperti era fatto di olive e traccie di sudore, feci, peli di animali, unghie, foglie e chissà cos’altro, altro che i container sigillati a tenuta stagna e privi di qualunque contaminazione di oggi?
Vogliamo dirlo che un conto è temere comprensibilmente le manipolazioni OGM, un conto è negare che gli innesti hanno migliorato il sapore di quasi tutto quello che mangiamo?
Tanto è vero che nell’unica giostra veramente innovativa e coraggiosa, si dimostra che in futuro non useremo più la terra per coltivare, e qui non dico oltre perché sarebbe un po’ spoiler e non voglio rovinarvi la sorpresa (per me lo è stato).
Insomma, tutto bene? No. Bene l’organizzazione, bene i parcheggi (e non era scontato: a pochi centinaia di metri da qui c’è il parcheggio del centro commmerciale Meraville, progettato evidentemente da una squadra di alcolizzati sadici, con deliri di onnipotenza e nessuna conoscenza della geometria). Bene gli ambienti, perché l’uso del legno per le coperture e una sagace gestione delle luci e degli arredi rende il posto piacevole, accogliente, ben lontano da quel “capannone industriale” che hanno citato alcuni critici. Magari manca il punto con una personalità da “selfie”, l’albero della vita insomma, chissà che non ci pensino. Bene anche le giostre e persino i mediocri spazi “naturali” per orti e animali. Ma sono le proporzioni, che non tornano. In un parco dei divertimenti o in una fiera c’è l’intrattenimento, mettiamo per l’80%, e poi un 20% di ristoro e commercio. Mettiamo anche 70 e 30. Qui le cifre si capovolgono: ecco perché dico che può essere un esperimento vincente solo se lo chiamiamo per quello che è, la più grande galleria commerciale d’Italia. Per carità, da non paragonare a Ipercoop o simili, il paragone semmai è con i centri presenti all’estero tipo la Corte Ingles o Macy’s, solo focalizzato sull’alimentare. Oltre tutto l’offerta andrebbe riequilibrata, perché ci sono troppi posti che vendono prodotti che trovi anche altrove, e li paghi meno, e una sola gelateria (Carpegiani), dove occorre fare almeno mezz’ora di attesa per un gelato, con una scelta di gusti che definire essenziale è un eufemismo.
Può essere interessante per un turista? Non lo so. Se ha molto tempo, forse. Ma perché passare una giornata qui dentro con tutto il ben di Dio da vedere che c’è la fuori? Non siamo mica a Dubai. Fossimo vicini all’aeroporto, probabilmente sarebbe un’idea vincente, in attesa magari di una coincidenza, o prima del volo di ritorno, mi fermo qui e faccio un po’ di shopping. L’aeroporto però è lontano.
In effetti ho visitato Fico oggi, sabato 31 marzo, vigilia di Pasqua, in teoria giorno di grande afflusso, ma non c’è stato, proprio per niente. Neanche vuoto, per carità, ma se queste sono le cifre di un sabato, mi domando come si farà a mantenere aperto questo baraccone nei giorni feriali. Ancora, i prezzi dei ristoranti sono medio alti, dai 40 euro a persona a molto, molto di più. Con il risultato che, almeno oggi, la stragrande maggioranza erano tristemente vuoti, mentre la gente faceva la fila nei punti ristoro più a buon prezzo (take away, finger food, insomma quelle bancarelle a cui abbiamo imparato a dare un nome inglese perché è più cool, anzi, fico). Io non sono un pauperista che si scaglia contro i prezzi alti, perché la qualità si paga, ma se voglio mangiare da Amerigo (per fare un nome), mangio volentieri nella sua trattoria di Savigno, non in questa galleria.
Insomma, bisogna che qualcosa si inventino, se vogliono che il gioco funzioni. So che c’è una sala congressi, bene, perché non usarla anche per qualche spettacolo dal vivo? Ceno e poi mi ascolto un bel concerto, o magari uno spettacolo teatrale. C’è anche un piccolo spazio “teatro” dove oggi una signora non più giovanissima faceva aerobica tipo Jane Fonda, ma insomma, si può fare di meglio, no? Possibile che tanti anni di Motor Show non abbiano insegnato niente? Va bene mangiare, ma non solo mangiare, dai. Presentazioni di libri, “firmacopie”, stand per stazioni radio o tv, qualche esibizione sportiva. E poi gonfiabili, dove sono i gonfiabili? Chi mai può predisporre oggi un business plan di un’attrazione turistica senza gonfiabili? E qualche giostra “vera”? Ho visto un campetto da minigolf, ma torno a ripetermi, si può fare molto meglio.
Il companatico c’è, è saporito, ma serve il pane.
Perché persino noi pugliesi durante i matrimoni di otto nove ore ad un certo punto ci alziamo e cominciamo a ballare.
L’organizzazione degli spazi in un punto vendita, strutturati secondo logiche di marketing, è stata una delle mie vecchie passioni: ci scrissi una tesina per l’esame di “Teorie e tecniche dei mezzi comunicazione di massa” nel lontano 1995. L’oggetto della mia analisi fu la Standa di via Rizzoli a Bologna, in cui mi destreggiai ad applicare i principi della semiotica all’analisi del punto vendita
Comprendete pertanto da questa introduzione vanesia come le modifiche ai centri commerciali mi affascinino sempre, visto che si tratta – come confermano i dati provenienti dagli Stati Uniti – di ambienti ormai in via d’estinzione che cercano una nuova identità per sopravvivere. Se poi questi cambiamenti sono anticipati da mesi di preparazione e una discreta anticipazione su mass-media, comprendete la mia curiosità nel visitare la Extracoop di Villanova di Castenaso, il primo centro commerciale realizzato secondo una nuova logica. Il buon Jean Marie Floch, uno dei pionieri di questo campo, ci insegnò che il consumatore può essere pratico, utopico, ludico o critico. Ebbene, nel caso dell’Extracoop pare evidente che lo sforzo sia quello di spostarsi verso il ludico, a discapito del pratico. Se la gente compra sempre di più su Amazon, tanto vale che al centro commerciale venga per divertirsi. Ecco allora che vengono ridotti ad angoli insignificanti quegli spazi che proprio su Internet trovano più acquirenti (un esempio di tutti: console e videogiochi, quasi completamente scomparsi), aumentano gli spazi vuoti, quasi a giustificare l’idea che si faccia la spesa per rimorchiare, e quindi guardare e guardarsi, appaiono angoli dove mangiare sushi seduti su uno sgabello. Davvero, se avessi detto allo studente che osservava in quattro piano in cui la Standa differenziava le merci che 25 anni dopo avrebbe trovato un bancone di sushi in un centro commerciale, mi avrebbe preso per matto. E forse non avrebbe avuto tutti i torti, visto che il bancone in questione è desolato. Scompaiono anche le corsie, a favore di una disposizione che fa sua una logica postmoderna per cui i confini non sono più legati alla tipologia del prodotto, ma al nostro stile di vita (e qui torna il consumatore utopico): gli elettrodomestici non stanno più tutti insieme, ma per esempio i forni staranno insieme ai casalinghi. E siccome il consumatore ludico ha un sacco di tempo da perdere, i barattoli di cioccolata in offerta saranno a quasi 50 metri di distanza dalla loro collocazione, in un’isola lontana in questo mare del consumo ludico. Tanto è vero che ho dovuto chiedere a una commessa dove diavolo fossero, e la poverina non mi ha potuto rispondere con un classico (terza corsia a destra, poi in fondo), perché le tranquillizzanti griglie che per una vota ci facevano sentire a Manhattan sono scomparse. La dipendente, sollevando gli occhi al cielo, mi ha risposto “vada laggiù, da quella parte”. Si perché nell’Extracoop si esplora, non si cerca.
Come avrete capito io sono un consumatore molto pratico, e ho vissuto con qualche difficoltà questo cambiamento. E non sono l’unico, tanto è vero che quando una signora anziana mi ha visto con il barattolo in mano, mi ha chiesto con gli occhi lucidi “Mi dica, signore… Dove l’ha trovato?”. Stavo per abbracciare la nonnina per condividere con lei questo spaesamento.
Insomma, l’esperimento è coraggioso, se poi sarà anche di successo, sarà il tempo a dirlo. Non ci sono più colorazioni diverse a distinguere gli ambienti, sei farmacia, due passi e finisci nell’ortofrutta, e qualcuno magari stasera per il raffreddore cercherà di sciogliere una mandorla in un bicchiere d’acqua, se in un tutto unico dove le categorie hanno meno senso che in passato. E se, come me, rimpiangete il buon vecchio Kant e le categorie, per quanto soggettive, un buon sistema per classificare il mondo ed evitare la follia, insomma, all’inizio sarà un po’ dura.
Come avrete capito, dopo anni di quasi fanatico consumo, i dirigenti della Coop ce l’hanno fatta quasi a convincermi a fare la spesa al Conad.
PS. Per chi se lo stesse domandando, la tesina è andata per sempre perduta con l’hard-disk che si portò via anche settanta pagine di un romanzo che stavo scrivendo. Erano gli anni novanta e la nostra fede nell’informatica, all’epoca, ci porta a credere nell’immotalità di computer e supporti fisici. Con la maturità abbiamo imparato a fare i back-up, ma intando la tesina è andata perduta. Come la Standa, d’altronde.
Lo sguardo rivolto fuori dal finestrino, il telefono in una mano, il capo di un sacchetto pieno nell’altra, poggiata per terra. Fa caldo, per essere ottobre, ma lui non lo sa perché è il suo primo ottobre a Bologna. L’autobus semivuoto ferma rumorosamente, lui alza la voce per farsi sentire.
«Certo che sto andando a letto, appena rientro, che vuoi che faccia.»
Sguardo a curiosare nell’autobus alla ricerca di uno sguardo di intesa.
«E va bene, se proprio insisti darò una lavata al pavimento visto che non lo faccio da alcuni giorni, mezzo tappo di detersivo in un secchio.»
Vorrebbe usare lo smartphone per distrarsi con qualche gioco, ma non può, perché è al telefono e l’interlocutore non molla.
«Non fa freddo, te lo assicuro. Si, fra poche fermate sono a casa. Capirai, è sabato sera e sono le dieci meno un quarto, proprio una seratona.»
Si afferra il bavero della giacca, lo accarezza, una smorfia contratta sul viso.
«Ho quello marrone. Fa caldo, con quello verde, te l’ho detto. Quello marrone va benissimo.»
Arriva la mia fermata e devo scendere, ma io conosco quel ragazzo che parla al telefono. Non so come si chiama o dove abiti, ma so chi è, perché lo sono stato anch’io. È uno studente fuorisede. E meridionale, perché durante la conversazione hanno anche parlato di tempo di cottura e sugo, o qualcosa del genere, purtroppo ho perso qualche passaggio. Chissà se sua madre gli nasconde il dentifricio e le lattine di tonno nelle tasche dello zaino, come faceva la mia, che c’è rimasto un po’ di spazio e non si sa mai.
Ogni anno li rivedo a Bologna: lui o lei davanti, lo sguardo sognante a fissare le vetrine dei negozi così grandi, i coetanei in giro, il pensiero a quelle aule dove si arriva con i libri sotto braccio e si scelgono le lezioni da seguire. Poi la mamma, che si domanda come farà a curarsi quando avrà l’influenza, quale sarà il posto migliore dove fare la spesa, se basterà un cambio di lenzuola, se il suo compagno di camera non nascondeva qualcosa di losco, come se la caverà con il fisso che gli passeranno ogni mese. Dietro il papà, che pensa soltanto come se la caveranno loro, con il fisso che gli passeranno ogni mese.
Bologna ha una miniera di diamanti a cielo aperto, e sono le migliaia di studenti fuori sede che la popolano. E non solo per la faccenda degli affitti, delle spese, dell’indotto, che c’è, ma non è l’aspetto più importante. Molti di quei ragazzi, dopo la laurea, si fermeranno qui, ne arricchiranno il tessuto sociale, ne potenzieranno le imprese, ne creeranno di nuove. Ci sarà pure qualche inutile addetto stampa che se ne andrà a lavorare in Appennino, ma insomma, si tratta di fallimenti trascurabili e minoritari. È come se a una squadra di calcio arrivassero continuamente rinforzi di cui non deve neppure pagare il cartellino. Mentre le “squadre” del sud si spopolano e si impoveriscono. Ora, il rischio serio che si sta profilando è quello che questi diamanti se ne vadano altrove, in Francia, Germania, Spagna, Regno Unito (lì forse meno).
E sarà dura, molto dura, perché su certe moquette tedesche altro che mezzo tappo di detersivo in un secchio, ci vuole.
PS Io sono stato molto più fortunato, di quel ragazzo, perché lo smartphone non c’era ancora.
In fondo le pubblicità dei panettoni sono lì dietro l’angolo che ci aspettano. E poi non è che con tutto questo caldo si stesse poi così bene. Il lavoro nobilita l’uomo. Sai che noia sarebbe la vita sempre stesi in sdraio a prendere il sole?
Si vabbe’.
Il rientro è un trauma a cui non ci si abitua mai. Non è un caso che “la vacanza” sia stata sconosciuta agli uomini che hanno popolato la terra per milioni di anni, e l’abitudine di mollare tutto e godersela per tre settimana sia emersa solo a partire dal secolo scorso, almeno in forma così popolare. Hai voglia a convincerti che è un passaggio necessario: per quanto ci possiamo sforzare di essere seri e adulti, prima o poi ci sarà un dettaglio che ci farà ripiombare nella tristezza. Un costume da bagno rimasto appoggiato ad una sedia, un biglietto aereo stropicciato, quel libro che avremmo voluto leggere, e invece.
Tutto congiura contro di noi, perché diciamocelo, il rientro è innaturale, in natura non si rientra. Una volta venuti alla luce non torniamo nel pur confortevole ambiente materno, la farfalla non torna nel bozzolo e un fiore non torna germoglio. E allora, se non possiamo liberarci del ricordo dei bei tempi perduti (che già Virgilio ricordava essere uno dei sentimenti più dolci e dolorosi al tempo stesso), portiamoceli dietro, manifestiamoli orgogliosamente. Continuiamo a canticchiare l’esercito del selfie anche in ottobre, compriamoci l’album intero se esiste, magari la stessa canzone riproposta in dieci forme diverse. Sostituiamo il divano con una sdraio di tela. Guardiamo Teche Teche te tutto l’anno, al cinema e in surround. Presentiamoci in ufficio con la treccina colorata o gli occhiali da sole da cinque euro e mettiamo fuori dalla camera da letto il cartoncino “non disturbare”. Una sorta di omeopatia del rientro, probabilmente più inefficace ancora di quell’altra, ma come quella buona a distrarci un po’e a illuderci per qualche minuto.
Perché se tutto va bene tornerà l’estate, ma noi saremo un anno più vecchi, maledizione.
La vasca piena fino all’orlo, la tentazione di violare le prescrizioni materne permettendo a Big Jim una nuotata epica in quell’avventuroso bacino artificiale. Le pentole per terra, ricolme anche loro, quelle più grandi basi spaziali da dove avviare le esplorazioni, quelle piccole navicelle nemiche da bombardare. Il secchio vicino al water, e l’indicazione di dosare bene le porzioni, che gli sprechi non saranno tollerati, e magari di fare insieme quella grossa e quella piccola, così da minimizzare le perdite idriche.
Per un pugliese della mia età il razionamento dell’acqua non è una minaccia, è un ricordo. Perché noi a quelle giornate in cui l’acqua arrivava per 4 o 5 ore al giorno, e giù a riempire ogni contenitore impossibile in quel lasso di tempo, ci eravamo abituati. Altro che le urla indignate “vergogna” di questi giorni dei capitolini che preferirebbero devastare un lago piuttosto che rinunciare alla granita.
Erano persino divertenti, quelle giornate, tutto quel trambusto di pentole e bottiglie da portare avanti e indietro per la casa, e si finiva per raccoglierne sempre di più di quanto non fosse necessario. E già, perché da un punto di vista razionale non so quanto serva ridurre la distribuzione dell’acqua, visto che poi la gente fa scorta. Magari è addirittura uno spreco, perché noi alla fine in quella vasca stracolma ci facevamo il bagno, quando invece avremmo potuto cavarcela con una doccia veloce. Perché, ovviamente, il razionamento avveniva sempre d’estate.
Però un vantaggio ce l’ha. Perché quando apri il rubinetto e non esce niente qualche domanda te la poni. Questo senso di impotenza che prende noi convinti che tutto ci sia sempre dovuto, dal wi-fi all’aria condizionata, ti pervade, ti annichilisce, ti fa riflettere. Ti fa pensare a quel miliardo di persone che un rubinetto non l’hanno mai visto, e sono abituate a fare della scarsità la cifra di un’esistenza sfortunata. Poi è ovvio, il problema vero sono gli sprechi, le aziende che pagano l’acqua a forfait, il fatto che per produrre un litro di una nota bevanda gassata se ne consumino 200 di acqua, e anche una tazzina di caffè (ahimè) ci costa 140 litri. Però intanto abituarci ad un po’ di ristrettezze ci farà bene. A ricordarci di chiudere il rubinetto mentre ci laviamo i denti, a mettere un frangigetto alla doccia.
Io spegnerei anche la corrente elettrica ogni tanto, salvaguardando chi ne ha bisogno per vivere, ovviamente. Per tornare a quelle serate a lume di candela – neanche quelle ci sono mancate in gioventù – in cui si tornava a raccontare storielle o giocare a carte. Perché a volte se sgombriamo il tavolo da tanti soprammobili inutili con cui l’abbiamo ricoperto, forse rimane un po’ più di spazio per noi.
PS Tutte le case pugliesi cent’anni fa avevano una stanza sotterranea adibita a pozzo, da riempire con l’acqua piovana e utilizzare per esempio come riserva per il giardino. Poi ne abbiamo fatto tavernette, ma l’idea del pozzo non era poi tanto male.