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Dieci piccoli indizi: sei di spade

Il re dei Mucidi, Vastasuk, non era popolare per la sua affabilità. Aveva condannato a dieci mesi di galera un servo, reo di averlo svegliato durante un sonnellino pomeridiano, e a poco erano valse le giustificazioni di quest’ultimo, che aveva affermato che era stato il sovrano a chiedergli di svegliarlo. Non aveva importanza, aveva sentenziato il giudice, il re stava facendo un bel sogno e averlo svegliato era stata comunque un’azione riprovevole. Al limite si poteva rinchiudere il condannato in una cella con finestra sul mare, accettando le attenuanti.

Ci fu poco da stupirsi quindi se quando al castello reale arrivò, in tutta fretta, il capo degli speziali, sostenendo che aveva urgente bisogno di parlare con il sire, gli fu offerta gentilmente una sedia e gli fu consigliato di aspettare che il re si alzasse. Bel sogno o incubo, il servo non aveva nessuna intenzione di chiamarlo.

Quando il re finalmente si svegliò e accolse lo speziale, fu profondamente turbato dalle cattive notizie che questi gli annunciava. Non c’era da perdere altro tempo. La parte scura della forza, negli ultimi giorni, aveva dato ulteriori segni di cedimento. Bisognava che i Mucidi si impadronissero al più presto della parte bianca, protetta invece dal popolo nemico dei Berfatt.

Vastasuk convocò immediatamente Trappagghiun, il suo luogotenente più fidato. Era stato grazie a lui che, anni prima, i Mucidi, la popolazione più feroce, barbara e corrotta di Apul, si era impadronita della parte scura della forza. Ma ora occorreva completare l’opera, o tutto sarebbe stato inutile. Basta guerriglie con gli Gnurket, il popolo che più a nord si frapponeva alla loro avanzata. Avrebbero dovuto sterminarli una volta per tutte. Raccogliere ogni mucido in grado di combattere, predisporre la più poderosa armata di sempre e procedere senza esitazioni. Superato l’ostacolo degli Gnurket, raggiungere Capo Nord e sbarazzarsi dei Berfatt non sarebbe stato difficoltoso. Ci sarebbero voluti molti giorni di cammino, ma potevano contare su una forza muscolare e su una capacità guerresca che gli altri abitanti di Apul potevano solo sognare.

Era arrivato il momento che i Mucidi salissero a nord per conquistare tutta Apul e impadronirsi della parte bianca della forza. Trappaghiun ascoltò pazientemente l’impetuoso progetto di Vastasuk senza mai interromperlo. Non si sarebbe certamente opposto all’idea di attaccare. Tanto più che era stanco delle estenuanti guerriglie a cui li costringevano gli Gnurket. Era arrivato il momento di sbarazzarsene una volta per tutte. Però avrebbe prima preferito partire in avanscoperta, avvicinarsi alle terre dei Berfatt, scoprire dove tenevano nascosta la parte bianca della forza. Dopo il rapimento della parte scura, infatti, i Berfatt avevano sicuramente preso delle precauzioni, e coglierli alla sprovvista sarebbe stata la soluzione migliore.

Siamo d’accordo, concluse Vastasuk. Lo invitò a partire subito: il re l’avrebbe seguito non appena fosse stato in grado di organizzare un esercito di dimensioni faraoniche. Non andava perso nemmeno un minuto.

Anzi, disse al suo luogotenente che si accingeva ad uscire, prendi quell’idiota del servo che non ha voluto svegliarmi facendo perdere un paio d’ore preziose allo speziale e fallo condannare per almeno una decina di mesi. Perdere tempo così!

E che cacchio.

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Dieci piccoli indizi: sette bello

Ponte nel boscoQuanto sarebbe piaciuto agli elfi che popolavano il nord di Apul, conosciuti anche come Berfatt, essere gli unici abitanti dell’isola! Ma purtroppo non era così. C’erano gli Gnurket che abitavano più a sud la città di Tardnuestr e i dintorni, così grezzi e trogloditi, poverini. Fondamentalmente pacifici, almeno nei loro confronti, ma certo cambiarsi d’abito una volta ogni tanto avrebbe migliorato la loro vita sociale. Poi c’erano gli Sparatrapp, che confinavano anche loro a sud ma sul confine orientale: simpatici e innocui, potevano essere considerati i fratelli originali della famiglia. E però c’erano anche i mostruosi Mucidi, con le loro angherie e le loro continue minacce, per non parlare di gruppi sparuti come i Vashvash, commercianti gretti e puzzolenti, e i Chiummi, giganteschi esseri con giganteschi problemi di igiene personale. Un tempo Chiummi e Berfatt erano stati stretti alleati, ma quei giorni erano ormai ricordi lontani, e dei Chiummi si era persa traccia.

«Prego, accomodatevi». Fu Capurél, la madre del re, a rivolgersi ai due ospiti invitandoli a sedersi vicino a lei, mentre il figlio osservava qualcosa fuori dalla finestra. Per un attimo anzi costui sembrò voler dire qualcosa, ma la madre lo anticipò.
«Vi abbiamo fatto chiamare perché abbiamo una missione importante da affidarvi. Una missione per la quale abbiamo bisogno delle vostre capacità».
Per quanto i Berfatt preferissero contemplarsi nello specchio piuttosto che confrontarsi con gli altri, di tanto in tanto occorreva mandare un messaggero alle popolazioni vicine. E tutte le volte diventava difficile individuare qualcuno, perché nessuno voleva allontanarsi dalle terre del nord, con il rischio di perdersi o di finire vittima di un’imboscata. La scelta pertanto era stata quella di nominare ambasciatori coloro i quali potevano pure perdersi o finire vittime di un’imboscata senza arrecare danno alcuno al regno, anzi.
Due campioni in questo senso erano stati trovati in Pizzarun e Scapucchiun, due fratelli che condensavano il peggio che il popolo berfatt potesse proporre: pavidi, scarsi nella lotta, piuttosto impacciati con le armi, incapaci di accostare bene i colori di calzini e giubbe. E poi, per quanto cercassero di curarsi con manicure e trattamenti estetici, rituali molto diffusi tra i Berfatt, non riuscivano ad ottenere una sembianza per lo meno accettabile per gli standard di un popolo molto attento alle apparenze come quello degli elfi. Erano “elfi di periferia”, vivevano cioè lontani dalla città, nella quale venivano richiamati solo in grandi occasioni: mandarli in giro, insomma, era una buon modo per tenerli lontani e dimenticarsi del loro mono-sopracciglio. A dire il vero ogni volta che partivano i consiglieri del re rimanevano in trepidante attesa per il loro ritorno. Tremavano alla sola idea che potessero essere uccisi per strada. Che figura avrebbero fatto, i Berfatt, se altri popoli confinanti avessero recuperato quei due cadaveri spettinati, trasandati e fisicamente fuori forma?
Nessun dubbio che se c’era da inviare qualche comunicazione ai popoli vicini, toccasse a loro farla.

«Madre – borbottò Vacandin cercando di prendere la parola – a dire il vero…»
«I Mucidi preparano un attacco epocale. Ci è stato comunicato da un messaggero sparatrapp, e mio figlio Vacandin l’ha rimandato indietro proponendo un incontro. Ma visto che i giorni passano e con essi cresce la paura che qualcosa di brutto gli sia accaduto, è arrivato il momento di andare a scoprire direttamente cosa sta succedendo a Yarubbedd, la città principale degli Sparatrapp».
Quando il gioco si fa brutto, insomma, i brutti cominciano a giocare.
«Mamma – intervenne allora il re alzando la voce – guarda che quelli non sono Pizzarun e Scapucchiun. Non vedi? Di solito i due indossano calzini spaiati e giacche a strisce marroni. Questi invece sono vestiti di blu».
La regina madre ebbe un sussulto e portò la mano al petto.
«Chi siete voi, dunque, e come osate sostituirvi ai nostri due messaggeri?»
«A dire il vero, vostra maestà, noi siamo i loro cugini. Il fatto è che Pizzarun e Scapucchiun avevano troppa paura di presentarsi direttamente davanti a voi. Ma adesso che sappiamo che non volete imprigionarli o peggio ancora depilarli, possiamo andare a chiamarli».

Non erano belli, Pizzarun e Scapucchiun, ma avevano il dono della strizza. Convivevano con la paura in qualsiasi circostanza. Il re poteva fidarsi: sapeva che anche stavolta la loro straordinaria capacità di fuggire a gambe levate davanti al pericolo li avrebbe salvati, consentendo loro di portare a termine la missione.

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Dieci piccoli indizi: otto di coppe

Priscilla, segretaria di direzione in una nota azienda di software gestionale, stava mettendo a posto il meeting report dell’ultima riunione del suo direttore, riempendo ben due cartelle della sua tombola delle cazzate. Si trattava di una cartella in cui, al posto dei numeri, si scrivevano parole insulse ma tanto amate dai manager, quali “customer oriented”, “best practice”, “redemption”, “competitors” “core business”, “proattivi”. Ogni volta che qualcuno utilizzava una delle parole, si segnava sulla tombola. Da quando aveva scoperto quel gioco, Priscilla era molto più attenta durante le riunioni con il suo capo, anche se in più di un’occasione aveva dovuto mordersi la lingua per non gridare “Tombola!” una volta completata la cartella.

La riunione aveva per tema la drammatica questione del valore aggiunto. Il loro software infatti da sempre presentava una caratteristica schiacciante sulla concorrenza: era “a valore aggiunto”. Nessuno sapeva dire esattamente cosa ciò significasse, ma domandare “che vuol dire” era sconveniente per un manager che sa sempre tutto a prescindere, per cui si andava avanti, tra cliente a fornitore, sul tacito accordo del valore aggiunto: io e te sappiamo cosa vuol dire, strizziamo l’occhiolino, diamoci la mano, che fighi che siamo, mi raccomando il panettone a Natale lo voglio artigianale e con lo spumante.

Purtroppo però i concorrenti avevano lanciato il guanto di sfida. Per rispondere al loro straordinario software a valore aggiunto, infatti, avevano lanciato una campagna di comunicazione in cui descrivano il loro prodotto “ad elevato valore aggiunto”. Si trattava in effetti di un colpo geniale. In quell’“elevato” c’era un distacco difficile da colmare, una distanza che avrebbe potuto mandare all’aria il loro business plan e forse addirittura il premio di produttività a fine anno. Si discusse per ore, alla fine si decise di spendere qualche migliaio di euro per affidare ad un consulente l’incarico di produrre uno studio tramite il quale arrivare ad una risposta “performante”, come dicevano loro.

Mentre Priscilla completava il resoconto, meccanicamente la mano la indusse in tentazione, spostando il mouse e, click!, infilandola in quel percorso di perdizione che erano per lei i siti delle agenzie di viaggio. Viveva sei mesi l’anno progettando le vacanze natalizie e altri sei pensando a quelle estive. Erano queste ora ultime al centro dei suoi pensieri.

Provò a chiudere gli occhi, e si vide in una spiaggia tropicale, con indosso un bikini firmato e un pareo d’alta classe, a bere champagne mentre un aitante indigeno le spalmava la crema sulle spalle e lei lo rassicurava suggerendogli di non fermarsi… Non le ci volle molto a capire che su bikini firmato e pareo d’alta classe occorreva un po’ di fantasia, visto che ultimamente giurava di aver sentito singhiozzare il suo bancomat straziato dalla fame. Ma si, si sarebbe accontentata di un acquisto in saldo, tanto – si disse con un pizzico d’orgoglio – non era mai successo che un uomo le guardasse bikini e pareo, talmente occupato ad osservare il resto. Tornò alla sua spiaggia immaginaria, ma solo per concludere che anche lo champagne era un dettaglio a cui avrebbe dovuto rinunciare. I prezzi dei viaggi “tutto incluso” erano decisamente al di sopra delle sue possibilità, e poi c’era sempre il rischio di mettere su qualche chilo di troppo con tutto quel cibo già pagato. No, niente champagne. Rimaneva il bellone e la spiaggia. Non tropicale, però, che anche in quel caso le esigenze di budget stridevano con le potenzialità finanziarie del suo stipendio di impiegata.

Certo però non doveva esagerare con i risparmi. Ricollocò infatti la scena in una affollata spiaggia romagnola, con un vicino di ombrellone che parla ad alta voce al cellulare, ragazzine truccate che sfilano avanti e indietro, e un uomo che le si avvicina per venderle braccialetti di gomma e musica da discoteca ad ogni ora del giorno e della notte. Cancellò l’ultima scena dai ricordi e, dopo diversi di tentativi, si ritrovò di fronte ad una scelta. Quindici giorni in Puglia, regione che conosceva bene perché suo padre era originario di quelle parti, oppure, con un piccolo sforzo, andare un po’ più giù e raggiungere Corfù. Non ci pensò un secondo. Le piaceva la Puglia, ma c’era stata già tante volte. Invece Corfù faceva tanto isola selvaggia, spiaggia isolata, incontro avventuroso. Poi era pur sempre un viaggio all’estero da raccontare in pausa caffè, e raggiungendo la Puglia in auto, per poi proseguire in traghetto, non sarebbe nemmeno costato troppo. Stava già per osare una prenotazione quando una telefonata del direttore la riportò sul pianeta terra. Costui aveva di nuovo perso un file sul quale stava lavorando, uno dei progetti più straordinari dell’ultimo decennio, a sentir lui. Sì come no. Provi nel cestino. No, non un cestino vero, quello sul desktop, sulla scrivania… Arrivo. Non tocchi niente, per carità. Non chiuda la finestra su cui sta lavorando. Finestra virtuale, certo, so bene che le finestre del suo ufficio sono sempre chiuse perché preferisce l’aria condizionata. Un attimo e sono da lei.

Giusto qualche attimo in più, invece, e sarebbe stata a Corfù, a prendere il sole e a godersi gli sguardi tormentati della gioventù locale. Meglio però se avesse trovato un’amica con cui dividere le spese di viaggio, e che magari non le facesse concorrenza con gli spalmatori di crema indigena. Ci avrebbe pensato dopo, adesso aveva un file da salvare.

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Dieci piccoli indizi: nove di spade

Da ormai molto tempo gli Gnurket, uomini dalla carnagione scura che vivevano nella città di Tardnuestr, nel cuore del regno di Apul, rappresentavano l’ultimo baluardo contro i feroci eserciti dei Mucidi, provenienti da sud.
La loro disperata difesa impediva alle orde mostruose di invadere le terre pacifiche e più civilizzate che si estendevano fino all’estremo nord della penisola, abitato dai tranquilli e inoffensivi Berfatt. A permettere di resistere nonostante la schiacciante inferiorità numerica era soprattutto l’ammirazione e la stima che i soldati riponevano in Turtigghiun, valoroso re sempre in prima linea a combattere contro gli invasori.
E se la forza fisica degli uomini era sicuramente inferiore a quella dei Mucidi, in compenso il loro re era capace di escogitare ogni sorta di tranello per trarre in inganno i nemici forti e possenti sì, ma non particolarmente brillanti, ad eccezione del famigerato condottiero Trappagghiun.
Era sera. Un gruppo di soldati, stanchi dopo una lunga giornata di guerriglia contro truppe sparse di Mucidi che cercavano di penetrare i confini, si scaldava intorno al fuoco prima di andare a dormire per qualche ora, giusto il tempo di recuperare le forze per poi iniziare un nuovo turno di guardia.
Qualcuno cominciò a parlottare della leggendaria retromarcia. Nei momenti di difficoltà, infatti, i soldati per farsi forza raccontavano lo storico inganno della retromarcia, che aveva salvato Tardnuestr da una distruzione che era ormai data per certa, anni prima. Il più anziano dei soldati, avvertendo che come al solito si stavano aggiungendo particolari inesatti, scosse la testa. Non era così, che erano andate le cose. Lui c’era, infatti, nei giorni della retromarcia. In quei giorni in cui un gruppo numeroso di Mucidi sembrava ormai prossimo a vincere definitivamente le forze degli uomini a cui mancavano acqua e viveri, a causa di un incidente alla carovana che avrebbe dovuto rifornirli.

Turtigghiun, allora molto giovane, era partito di notte con un gruppo di soldati fidati alle volte dell’accampamento dei Mucidi. Era difeso da almeno una decina di guardie su ogni fronte. Se le avessero attaccate, queste ultime avrebbero immediatamente svegliato gli altri. Occorreva stanarle. Turtigghiun decise di far accendere un fuoco in una boscaglia non distante dall’accampamento e di cominciare ad arrostire michimaus. I Mucidi infatti ne erano ghiotti, e forse anche per questo riuscivano ad avere una massa muscolare maggiore rispetto a quella degli uomini che invece quelle bestiole faticavano a mandarle giù. Quando la prima guardia vide il fuoco, partì subito in avanscoperta, ma arrivata nei pressi del fuoco trovò solo michimaus fumanti, e con l’ingordigia tipica dei Mucidi cominciò a ingurgitare a più non posso. Così fece la seconda che si era mossa per capire perché la prima non tornava, e così la terza, finché tutte le guardie dei Mucidi non si ritrovarono a banchettare. I soldati allora pensarono fosse venuto il momento di attaccare. Avrebbero potuto colpire tanti Mucidi. Costoro erano talmente superiori numericamente che alla fine anche darsi alla fuga sarebbe stato difficile, ma certo ne sarebbe valsa la pena. Un sacrificio da eroi. Ma Turtigghiun disse che no, non voleva attaccarli. Voleva solo rubare le insegne che i Mucidi erano soliti depositare sulla linea più avanzata dell’accampamento. I suoi compagni borbottarono allibiti: tutti quei rischi per rubare due bandiere senza valore? La mossa avrebbe solamente fatto infuriare il generale dei Mucidi che la mattina seguente avrebbe attaccato con maggior veemenza! Ma Turtigghiun non ne volle sapere. Partì lui stesso alla volta delle insegne: la notte era buia ma aveva osservato con cura l’accampamento il pomeriggio precedente, sapeva dove trovarle, le estrasse dal terreno senza troppa difficoltà, ma anziché fuggire nelle retrovie, corse oltre, invitando i suoi a seguirlo. Raggiunsero le retrovie dell’accampamento. Certo, pensarono i suoi: un attacco alle spalle, ecco a cosa pensave il giovane sovrano. Cogliergli da dietro sarebbe stato più violento e spietato. E invece il re riorganizzò il banchetto per le guardie, anche stavolta michimaus arrostiti, anche stavolta violazione delle regole dei Mucidi per una lauta mangiata. Però stavolta non c’erano insegne da rubare: e infatti il re andò a piantare nel terreno quelle che aveva rubato dall’altra parte, tra lo sgomento dei soldati che continuavano a domandarsi se stavano rischiando la vita per un pazzo furioso.

La mattina dopo fu finalmente tutto chiaro. I Mucidi disponevano di un mediocre senso dell’orientamento, e scrutare le stelle era complicato, in un’isola quasi sempre ricoperta da un cielo nuvoloso come era Apul. Quando la mattina si ritrovarono con le insegne a sud anziché a nord, semplicemente pensarono che quella era la direzione verso cui andare. Ovviamente nessuna delle guardie ebbe molto da obiettare, anche perché Turtigghiun aveva fatto condire i topastri arrosto con spezie ottenute da papaveri blu e rossi, e la mattina dopo era già tanto se le vedette riuscivano a fare pipì senza innaffiarsi i piedi.
L’esercito mucido si rese pertanto protagonista in quella occasione della più impressionante retromarcia che la storia ricordasse. Addirittura si narra che quando all’orizzonte apparvero le prima città dei Mucidi, queste vennero assediate e colpite, in uno scontro fratricida che richiese un po’ di tempo prima che il generale si rendesse conto del pasticcio combinato.
Da quel giorno in poi i Mucidi impararono a prendere nota con attenzione del posto in cui si accampavano, cercando riferimenti precisi nell’ambiente circostante. Si erano resi protagonisti della più clamorosa retromarcia della storia.
Non potevano correre il rischio di ripetere la figuraccia.

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Dieci piccoli indizi: apertura e Re di denari

Apertura

Lo starnuto del brigadiere Crisafulli fu talmente violento che la pastiglia alla menta balsamica che teneva in bocca gola si proiettò fuori dalle sue labbra, rimbalzò sulla scrivania e andò a spataccarsi sulla giacca del maresciallo Zavaglia che proprio in quel momento faceva il suo rientro in caserma.

La pastiglia rimase incollata alcuni istanti prima di scivolare, lentamente, lasciando una scia verdastra sul petto del militare, tra l’incredulità del maresciallo che istintivamente portò la mano al fodero della pistola. Decisamente non era una medaglia di cui andare fieri, quella pastiglia contro il mal di gola, che per fortuna ritenne opportuno cadere per terra senza l’intervento da parte di alcuno.

«Mi perdoni maresciallo. È il raffreddore. Forse dovrei stare a casa a riposo qualche giorno.»

Zavaglia stava per avviarsi verso il suo ufficio senza nemmeno rispondergli quando si accorse di un mazzo di carte napoletane sul tavolo del suo sottoposto. Per un attimo, pensando al fatto che quella notte era stato chiamato alle due per un furto in una abitazione, che doveva predisporre un paio di verbali urgenti, che doveva occuparsi di uno spacciatore che aveva colto in fragrante quella mattina, che doveva accompagnare l’ufficiale giudiziario per eseguire alcuni sfratti e che soprattutto non ricordava più nemmeno quando era stato in ferie l’ultima volta, ebbe sul serio la tentazione di ricorrere all’arma e svuotare il caricatore contro la scrivania del brigadiere.

«Fai sparire subito quelle carte. Quante volte te lo devo ripetere? Che figura ci facciamo con un cittadino che entra e ti vede impegnato in un solitario?»

«Posso spiegare tutto, maresciallo. Sto lavorando. Cioè sono al centralino, ma non chiama nessuno. Le carte…»

Il maresciallo allargò le braccia e lo invitò, almeno, ad avere la decenza di giocare con il computer, così da dare meno nell’occhio. Ma Crisafulli aveva una risposta per tutto, e gli spiegò che il solitario al computer non gli piaceva: una volta era andata via la corrente e aveva perso tutto. E invece un mazzo di carte non si spegneva mai, funzionava all’aperto e in treno, era portatile e silenzioso. Tuttavia quelle non erano carte, erano un referto. Il giovane carabiniere stava ancora fornendo dei dettagli quando il suo superiore lo interruppe.

«Sai che ti dico, Crisafulli? Mi hai convinto. Ho bisogno di fare una pausa. Gioco anch’io. Però non un solitario. Giochiamo a briscola. E però ci giochiamo qualcosa.»

A Crisafulli non piaceva l’andazzo che stava prendendo la conversazione. Non era un granché come giocatore di briscola. Non era un granché nemmeno con il solitario a dire il vero, ma lì non poteva perdere niente se non un po’ di tempo. Con quelle carte, però… Se vinci tu, concluse il maresciallo, dimentichiamo l’increscioso episodio delle carte, della caramella, e persino del fatto che se non metti a posto quella cornetta difficilmente riceverai mai telefonate. Se vinco io, tu ti fai gli sfratti di oggi e no, non mi importa che hai promesso di tornare a casa in Sicilia entro sera, vorrà dire che ci metterai un po’ di più. Allora, mescoli le carte o no?»

Crisafulli eseguì gli ordini maledicendosi in silenzio per non essersi messo in malattia, quella mattina, come gli aveva suggerito Cosimina, la sua fidanzata che l’aspettava a Messina un fine settimana sì e uno no.

Re di denari

La notizia della morte del re si era diffusa velocemente nel piccolo regno dei Berfatt, a nord dell’isola di Apul, gettando nello sconforto sudditi e familiari. Benché anziano, infatti, il re godeva di buona salute e probabilmente avrebbe vissuto qualche anno in più se non avesse fatto il bagno di mezzanotte dopo aver mangiato mezzo chilo di alghe al forno. Non che fosse stata la congestione a ucciderlo: quella l’aveva costretto semmai a un paio di giorni a letto. Il re però non sopportava di stare recluso in casa, e per evitare le guardie che sua moglie aveva posto accanto alla sua porta aveva cercato la via di fuga dalla finestra, cadendo precipitosamente al piano inferiore. Non che fosse stata la caduta a ucciderlo. Quella l’aveva imbracato in una serie di fasciature piuttosto ingombranti e aveva costretto la moglie Capurél a prevedere una guardia anche vicino alla finestra. Ma al re la convalescenza dava sui nervi, soprattutto perché l’umidità rendeva crespi i suoi magnifici capelli e complicava la cura dei baffi a cui teneva molto. D’altronde per il suo popolo Dio, patria e ciglia erano i valori fondanti, ma visto che la fede ultimamente viveva una fase di stanca e il regno era al sicuro da parecchio tempo da invasioni e razzie, quello che rimaneva ai suoi sudditi era una cura maniacale per l’aspetto fisico.

Insomma, il re era pacificamente morto nel sonno, ma secondo alcuni saggi chiamati a verificare le cause della sua morte, ad accelerare la dipartita era stato lo smarrimento del suo pettine preferito, che aveva lasciato in consegna ai suoi figli, visto che da solo non riusciva più a pettinarsi a causa delle fratture.

Quale che fosse la causa della morte dell’anziano sovrano, di una cosa erano certi quasi tutti: nessuno dei due figli era ancora pronto per raccoglierne l’eredità. Vacandin, il maggiore, era timido, riservato, silenzioso. Tutte caratteristiche che rendevano difficile adempiere alla principale missione di tutti i sovrani dei Berfatt: trovare una moglie combattiva e coraggiosa e lasciare che a occuparsi del regno fosse lei. Al massimo il re poteva dilettarsi in pubbliche relazioni e battute di caccia ai funghi, le uniche battute di caccia possibili visto che ad Apul gli animali scarseggiavano e i cacciatori erano talmente fuori forma che più che un fungo immobile non avrebbero potuto catturare.

Il fratello Cip Ciap avrebbe avuto meno difficoltà a trovare una donna, ma il problema non era la donna, ma semmai l’una; al giovane una sola compagna pareva non bastare. Erano piuttosto numerose le ragazze a poter raccontare di aver avuto una relazione, di un giorno o di un mese, con il bel principe gaudente e spensierato.

La regina Capurél convocò pertanto i due figli subito dopo le esequie del marito. Non era infatti scontato che il trono sarebbe passato a Vacandin: la regina avrebbe potuto scegliere il figlio minore, come speravano i popolani (soprattutto le popolane) o anche un estraneo, purché bello e senza problemi di alopecia, secondo le sacre tradizioni dei Berfatt. Parlò loro con estrema franchezza. Voleva sapere chi dei due avesse perso il sacro pettine del padre. Non era tanto la loro l’impudenza, che voleva valutare, spiegò loro, quanto la sincerità e il coraggio dei suoi figli. Cip Ciap prese subito la parola: a perdere il pettine era stato Vacandin, lo custodivano una settimana per uno, e quando era arrivato il suo turno, il fratello non glielo aveva consegnato. Cip Ciap affermò anche di aver visto Vacandin uscire con il pettine in borsa, senza prendere precauzione alcuna. Non si poteva affidare il regno ad un inetto incapace di custodire un oggetto di valore. Non si poteva.

Vacandin rimase in silenzio. Capurél attese allora la sua versione dei fatti. Il figlio le rispose che era vero, il pettine era in custodia da lui, ma che non lo aveva mai portato fuori dal castello. Tuttavia questo non aveva importanza, ormai. Era stato perduto mentre lui avrebbe dovuto custodirlo, e doveva pagarne le conseguenze.

Capurél si volse indietro verso un armadio in fondo alla sala, aprì un cassetto e ne estrasse il pettine. Era stata lei a prenderlo per farlo ripulire. Cosa che faceva abitualmente senza avvisare il marito, il quale temeva potesse sciuparsi. Lo faceva perché il re era capace di farsi cogliere da profonda malinconia alla vista dei capelli attaccati al pettine, e con gli anni era andato peggiorando. Per questo la moglie li faceva rimuovere di nascosto. Solo che questa volta l’artigiano che se ne prendeva cura le aveva chiesto un po’ più di tempo per completare il lavoro

Capurél guardò con aria severa Cip Ciap: un mentitore non solo non sarebbe mai stato un buon re, ma non sarebbe mai stato un buon berfatt. Doveva cambiare e in fretta, se non voleva fare la fine che il destino assegna agli uomini falsi. Poi mise una mano sulla spalla di Vacandin e lo invitò a farsi coraggio, a guardare al futuro con fiducia e ad usare più balsamo.

Il popolo dei Berfatt avrebbe presto incoronato un nuovo re.

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Desiderio nascosto

scivoloLe scale in effetti potrebbero essere un problema. Il primo gradino, soprattutto, è un vero tranello, perché l’ingegnere infingardo che l’ha progettato l’ha posto molto, troppo in alto. Ma ce la posso fare. Quante volte mi sono arrampicato su per le ciminiere del siderurgico, così in alto da non vedere più nemmeno il capoarea piccolo piccolo decine di metri più sotto che si sbracciava inutilmente imprecando contro tre generazioni di miei avi?

Poi c’è da valutare che la pista di lancio è in effetti troppo stretta. Non è stata evidentemente progettata per me. Ma quando mai ho utilizzato qualcosa che fosse progettato esclusivamente per me? Da bambino ho indossato per decenni i vestiti larghi e sformati di mio fratello, inciampando nei pantaloni troppo lunghi e nascondendo le mani in fondo a maniche che le risucchiavano spietatamente. E la mia prima automobile, quella meravigliosa Autobianchi Bianchina con cui portavo al mare tutta la famiglia, non era certo stata concepita per trasportare pasta al forno, polpettone, anguria, focaccia con le cipolle, ombrellone, sdraio per papà, sdario per la mamma, paletta, secchiello, pallone, canotto e cinque persone. No davvero, la pista non sarà un problema.

Sarà soprattutto la brama per quel momento di gioia assoluta, per quella forte emozione, il cuore che batte forte nel petto, lo sguardo che si annebbia, le mani che tremano, sarà il coraggio di chi non si ferma di fronte a chi gli dice di no che mi aiuterà a superare ogni ostacolo. Lo stesso coraggio con il quale ho sepolto i mie genitori morti dopo una vita di fatiche contadine e l’unica soddisfazione di avermi mandato alle scuole alte, il coraggio di chi si è sposato giovane quando gli dicevano ma chi te lo fa fare, divertiti, aspetta un po’, ma io non ce la facevo ad aspettare e volevo che il mio amore mi accompagnasse lì, subito.

Alcune cautele andranno prese. Devo fare in fretta, su questo non c’è dubbio. Studiare bene in anticipo ogni movimento, coordinarmi come un trapezista che muove i muscoli all’unisono consapevole che il minimo errore può comportare una disgrazia. E soprattutto, devo evitare lo sguardo traditore di chi è venuto qui con me, ed è pronto a raccontare tutto, a ricoprirmi di ridicolo, a denunciare le mie azioni semplicemente perché qualcuno ha stabilito così. Quasi che debba chiedere il permesso, io, a chi ho contribuito a mettere al mondo. Di notte, potrei tornare qui di notte. O magari al mattino presto, anziché fare la fila dalle otto di fronte al supermercato che tanto apre alle nove.

Veloce, silenzioso, invisibile.

Non sono invisibile adesso, però. Mi avranno visto? Dissimulare, presto. Fischiettare. Negare, negare l’evidenza. Allontanarsi.

– Nonno, che fai? Smetti di guardare da quella parte, ti ho visto sai? Lo sai che la mamma ti ha detto che non è per te, poi succede come l’altra volta che ti sei fatto male alle ginocchia. Tu non ci puoi salire sullo scivolo del parco, è per noi bambini! Fai il bravo, nonno, spingimi sull’altalena.

Le testine si allineano, le teste pensano