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Dieci piccoli indizi: otto di coppe

Priscilla, segretaria di direzione in una nota azienda di software gestionale, stava mettendo a posto il meeting report dell’ultima riunione del suo direttore, riempendo ben due cartelle della sua tombola delle cazzate. Si trattava di una cartella in cui, al posto dei numeri, si scrivevano parole insulse ma tanto amate dai manager, quali “customer oriented”, “best practice”, “redemption”, “competitors” “core business”, “proattivi”. Ogni volta che qualcuno utilizzava una delle parole, si segnava sulla tombola. Da quando aveva scoperto quel gioco, Priscilla era molto più attenta durante le riunioni con il suo capo, anche se in più di un’occasione aveva dovuto mordersi la lingua per non gridare “Tombola!” una volta completata la cartella.

La riunione aveva per tema la drammatica questione del valore aggiunto. Il loro software infatti da sempre presentava una caratteristica schiacciante sulla concorrenza: era “a valore aggiunto”. Nessuno sapeva dire esattamente cosa ciò significasse, ma domandare “che vuol dire” era sconveniente per un manager che sa sempre tutto a prescindere, per cui si andava avanti, tra cliente a fornitore, sul tacito accordo del valore aggiunto: io e te sappiamo cosa vuol dire, strizziamo l’occhiolino, diamoci la mano, che fighi che siamo, mi raccomando il panettone a Natale lo voglio artigianale e con lo spumante.

Purtroppo però i concorrenti avevano lanciato il guanto di sfida. Per rispondere al loro straordinario software a valore aggiunto, infatti, avevano lanciato una campagna di comunicazione in cui descrivano il loro prodotto “ad elevato valore aggiunto”. Si trattava in effetti di un colpo geniale. In quell’“elevato” c’era un distacco difficile da colmare, una distanza che avrebbe potuto mandare all’aria il loro business plan e forse addirittura il premio di produttività a fine anno. Si discusse per ore, alla fine si decise di spendere qualche migliaio di euro per affidare ad un consulente l’incarico di produrre uno studio tramite il quale arrivare ad una risposta “performante”, come dicevano loro.

Mentre Priscilla completava il resoconto, meccanicamente la mano la indusse in tentazione, spostando il mouse e, click!, infilandola in quel percorso di perdizione che erano per lei i siti delle agenzie di viaggio. Viveva sei mesi l’anno progettando le vacanze natalizie e altri sei pensando a quelle estive. Erano queste ora ultime al centro dei suoi pensieri.

Provò a chiudere gli occhi, e si vide in una spiaggia tropicale, con indosso un bikini firmato e un pareo d’alta classe, a bere champagne mentre un aitante indigeno le spalmava la crema sulle spalle e lei lo rassicurava suggerendogli di non fermarsi… Non le ci volle molto a capire che su bikini firmato e pareo d’alta classe occorreva un po’ di fantasia, visto che ultimamente giurava di aver sentito singhiozzare il suo bancomat straziato dalla fame. Ma si, si sarebbe accontentata di un acquisto in saldo, tanto – si disse con un pizzico d’orgoglio – non era mai successo che un uomo le guardasse bikini e pareo, talmente occupato ad osservare il resto. Tornò alla sua spiaggia immaginaria, ma solo per concludere che anche lo champagne era un dettaglio a cui avrebbe dovuto rinunciare. I prezzi dei viaggi “tutto incluso” erano decisamente al di sopra delle sue possibilità, e poi c’era sempre il rischio di mettere su qualche chilo di troppo con tutto quel cibo già pagato. No, niente champagne. Rimaneva il bellone e la spiaggia. Non tropicale, però, che anche in quel caso le esigenze di budget stridevano con le potenzialità finanziarie del suo stipendio di impiegata.

Certo però non doveva esagerare con i risparmi. Ricollocò infatti la scena in una affollata spiaggia romagnola, con un vicino di ombrellone che parla ad alta voce al cellulare, ragazzine truccate che sfilano avanti e indietro, e un uomo che le si avvicina per venderle braccialetti di gomma e musica da discoteca ad ogni ora del giorno e della notte. Cancellò l’ultima scena dai ricordi e, dopo diversi di tentativi, si ritrovò di fronte ad una scelta. Quindici giorni in Puglia, regione che conosceva bene perché suo padre era originario di quelle parti, oppure, con un piccolo sforzo, andare un po’ più giù e raggiungere Corfù. Non ci pensò un secondo. Le piaceva la Puglia, ma c’era stata già tante volte. Invece Corfù faceva tanto isola selvaggia, spiaggia isolata, incontro avventuroso. Poi era pur sempre un viaggio all’estero da raccontare in pausa caffè, e raggiungendo la Puglia in auto, per poi proseguire in traghetto, non sarebbe nemmeno costato troppo. Stava già per osare una prenotazione quando una telefonata del direttore la riportò sul pianeta terra. Costui aveva di nuovo perso un file sul quale stava lavorando, uno dei progetti più straordinari dell’ultimo decennio, a sentir lui. Sì come no. Provi nel cestino. No, non un cestino vero, quello sul desktop, sulla scrivania… Arrivo. Non tocchi niente, per carità. Non chiuda la finestra su cui sta lavorando. Finestra virtuale, certo, so bene che le finestre del suo ufficio sono sempre chiuse perché preferisce l’aria condizionata. Un attimo e sono da lei.

Giusto qualche attimo in più, invece, e sarebbe stata a Corfù, a prendere il sole e a godersi gli sguardi tormentati della gioventù locale. Meglio però se avesse trovato un’amica con cui dividere le spese di viaggio, e che magari non le facesse concorrenza con gli spalmatori di crema indigena. Ci avrebbe pensato dopo, adesso aveva un file da salvare.

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Dieci piccoli indizi: nove di spade

Da ormai molto tempo gli Gnurket, uomini dalla carnagione scura che vivevano nella città di Tardnuestr, nel cuore del regno di Apul, rappresentavano l’ultimo baluardo contro i feroci eserciti dei Mucidi, provenienti da sud.
La loro disperata difesa impediva alle orde mostruose di invadere le terre pacifiche e più civilizzate che si estendevano fino all’estremo nord della penisola, abitato dai tranquilli e inoffensivi Berfatt. A permettere di resistere nonostante la schiacciante inferiorità numerica era soprattutto l’ammirazione e la stima che i soldati riponevano in Turtigghiun, valoroso re sempre in prima linea a combattere contro gli invasori.
E se la forza fisica degli uomini era sicuramente inferiore a quella dei Mucidi, in compenso il loro re era capace di escogitare ogni sorta di tranello per trarre in inganno i nemici forti e possenti sì, ma non particolarmente brillanti, ad eccezione del famigerato condottiero Trappagghiun.
Era sera. Un gruppo di soldati, stanchi dopo una lunga giornata di guerriglia contro truppe sparse di Mucidi che cercavano di penetrare i confini, si scaldava intorno al fuoco prima di andare a dormire per qualche ora, giusto il tempo di recuperare le forze per poi iniziare un nuovo turno di guardia.
Qualcuno cominciò a parlottare della leggendaria retromarcia. Nei momenti di difficoltà, infatti, i soldati per farsi forza raccontavano lo storico inganno della retromarcia, che aveva salvato Tardnuestr da una distruzione che era ormai data per certa, anni prima. Il più anziano dei soldati, avvertendo che come al solito si stavano aggiungendo particolari inesatti, scosse la testa. Non era così, che erano andate le cose. Lui c’era, infatti, nei giorni della retromarcia. In quei giorni in cui un gruppo numeroso di Mucidi sembrava ormai prossimo a vincere definitivamente le forze degli uomini a cui mancavano acqua e viveri, a causa di un incidente alla carovana che avrebbe dovuto rifornirli.

Turtigghiun, allora molto giovane, era partito di notte con un gruppo di soldati fidati alle volte dell’accampamento dei Mucidi. Era difeso da almeno una decina di guardie su ogni fronte. Se le avessero attaccate, queste ultime avrebbero immediatamente svegliato gli altri. Occorreva stanarle. Turtigghiun decise di far accendere un fuoco in una boscaglia non distante dall’accampamento e di cominciare ad arrostire michimaus. I Mucidi infatti ne erano ghiotti, e forse anche per questo riuscivano ad avere una massa muscolare maggiore rispetto a quella degli uomini che invece quelle bestiole faticavano a mandarle giù. Quando la prima guardia vide il fuoco, partì subito in avanscoperta, ma arrivata nei pressi del fuoco trovò solo michimaus fumanti, e con l’ingordigia tipica dei Mucidi cominciò a ingurgitare a più non posso. Così fece la seconda che si era mossa per capire perché la prima non tornava, e così la terza, finché tutte le guardie dei Mucidi non si ritrovarono a banchettare. I soldati allora pensarono fosse venuto il momento di attaccare. Avrebbero potuto colpire tanti Mucidi. Costoro erano talmente superiori numericamente che alla fine anche darsi alla fuga sarebbe stato difficile, ma certo ne sarebbe valsa la pena. Un sacrificio da eroi. Ma Turtigghiun disse che no, non voleva attaccarli. Voleva solo rubare le insegne che i Mucidi erano soliti depositare sulla linea più avanzata dell’accampamento. I suoi compagni borbottarono allibiti: tutti quei rischi per rubare due bandiere senza valore? La mossa avrebbe solamente fatto infuriare il generale dei Mucidi che la mattina seguente avrebbe attaccato con maggior veemenza! Ma Turtigghiun non ne volle sapere. Partì lui stesso alla volta delle insegne: la notte era buia ma aveva osservato con cura l’accampamento il pomeriggio precedente, sapeva dove trovarle, le estrasse dal terreno senza troppa difficoltà, ma anziché fuggire nelle retrovie, corse oltre, invitando i suoi a seguirlo. Raggiunsero le retrovie dell’accampamento. Certo, pensarono i suoi: un attacco alle spalle, ecco a cosa pensave il giovane sovrano. Cogliergli da dietro sarebbe stato più violento e spietato. E invece il re riorganizzò il banchetto per le guardie, anche stavolta michimaus arrostiti, anche stavolta violazione delle regole dei Mucidi per una lauta mangiata. Però stavolta non c’erano insegne da rubare: e infatti il re andò a piantare nel terreno quelle che aveva rubato dall’altra parte, tra lo sgomento dei soldati che continuavano a domandarsi se stavano rischiando la vita per un pazzo furioso.

La mattina dopo fu finalmente tutto chiaro. I Mucidi disponevano di un mediocre senso dell’orientamento, e scrutare le stelle era complicato, in un’isola quasi sempre ricoperta da un cielo nuvoloso come era Apul. Quando la mattina si ritrovarono con le insegne a sud anziché a nord, semplicemente pensarono che quella era la direzione verso cui andare. Ovviamente nessuna delle guardie ebbe molto da obiettare, anche perché Turtigghiun aveva fatto condire i topastri arrosto con spezie ottenute da papaveri blu e rossi, e la mattina dopo era già tanto se le vedette riuscivano a fare pipì senza innaffiarsi i piedi.
L’esercito mucido si rese pertanto protagonista in quella occasione della più impressionante retromarcia che la storia ricordasse. Addirittura si narra che quando all’orizzonte apparvero le prima città dei Mucidi, queste vennero assediate e colpite, in uno scontro fratricida che richiese un po’ di tempo prima che il generale si rendesse conto del pasticcio combinato.
Da quel giorno in poi i Mucidi impararono a prendere nota con attenzione del posto in cui si accampavano, cercando riferimenti precisi nell’ambiente circostante. Si erano resi protagonisti della più clamorosa retromarcia della storia.
Non potevano correre il rischio di ripetere la figuraccia.

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Dieci piccoli indizi: apertura e Re di denari

Apertura

Lo starnuto del brigadiere Crisafulli fu talmente violento che la pastiglia alla menta balsamica che teneva in bocca gola si proiettò fuori dalle sue labbra, rimbalzò sulla scrivania e andò a spataccarsi sulla giacca del maresciallo Zavaglia che proprio in quel momento faceva il suo rientro in caserma.

La pastiglia rimase incollata alcuni istanti prima di scivolare, lentamente, lasciando una scia verdastra sul petto del militare, tra l’incredulità del maresciallo che istintivamente portò la mano al fodero della pistola. Decisamente non era una medaglia di cui andare fieri, quella pastiglia contro il mal di gola, che per fortuna ritenne opportuno cadere per terra senza l’intervento da parte di alcuno.

«Mi perdoni maresciallo. È il raffreddore. Forse dovrei stare a casa a riposo qualche giorno.»

Zavaglia stava per avviarsi verso il suo ufficio senza nemmeno rispondergli quando si accorse di un mazzo di carte napoletane sul tavolo del suo sottoposto. Per un attimo, pensando al fatto che quella notte era stato chiamato alle due per un furto in una abitazione, che doveva predisporre un paio di verbali urgenti, che doveva occuparsi di uno spacciatore che aveva colto in fragrante quella mattina, che doveva accompagnare l’ufficiale giudiziario per eseguire alcuni sfratti e che soprattutto non ricordava più nemmeno quando era stato in ferie l’ultima volta, ebbe sul serio la tentazione di ricorrere all’arma e svuotare il caricatore contro la scrivania del brigadiere.

«Fai sparire subito quelle carte. Quante volte te lo devo ripetere? Che figura ci facciamo con un cittadino che entra e ti vede impegnato in un solitario?»

«Posso spiegare tutto, maresciallo. Sto lavorando. Cioè sono al centralino, ma non chiama nessuno. Le carte…»

Il maresciallo allargò le braccia e lo invitò, almeno, ad avere la decenza di giocare con il computer, così da dare meno nell’occhio. Ma Crisafulli aveva una risposta per tutto, e gli spiegò che il solitario al computer non gli piaceva: una volta era andata via la corrente e aveva perso tutto. E invece un mazzo di carte non si spegneva mai, funzionava all’aperto e in treno, era portatile e silenzioso. Tuttavia quelle non erano carte, erano un referto. Il giovane carabiniere stava ancora fornendo dei dettagli quando il suo superiore lo interruppe.

«Sai che ti dico, Crisafulli? Mi hai convinto. Ho bisogno di fare una pausa. Gioco anch’io. Però non un solitario. Giochiamo a briscola. E però ci giochiamo qualcosa.»

A Crisafulli non piaceva l’andazzo che stava prendendo la conversazione. Non era un granché come giocatore di briscola. Non era un granché nemmeno con il solitario a dire il vero, ma lì non poteva perdere niente se non un po’ di tempo. Con quelle carte, però… Se vinci tu, concluse il maresciallo, dimentichiamo l’increscioso episodio delle carte, della caramella, e persino del fatto che se non metti a posto quella cornetta difficilmente riceverai mai telefonate. Se vinco io, tu ti fai gli sfratti di oggi e no, non mi importa che hai promesso di tornare a casa in Sicilia entro sera, vorrà dire che ci metterai un po’ di più. Allora, mescoli le carte o no?»

Crisafulli eseguì gli ordini maledicendosi in silenzio per non essersi messo in malattia, quella mattina, come gli aveva suggerito Cosimina, la sua fidanzata che l’aspettava a Messina un fine settimana sì e uno no.

Re di denari

La notizia della morte del re si era diffusa velocemente nel piccolo regno dei Berfatt, a nord dell’isola di Apul, gettando nello sconforto sudditi e familiari. Benché anziano, infatti, il re godeva di buona salute e probabilmente avrebbe vissuto qualche anno in più se non avesse fatto il bagno di mezzanotte dopo aver mangiato mezzo chilo di alghe al forno. Non che fosse stata la congestione a ucciderlo: quella l’aveva costretto semmai a un paio di giorni a letto. Il re però non sopportava di stare recluso in casa, e per evitare le guardie che sua moglie aveva posto accanto alla sua porta aveva cercato la via di fuga dalla finestra, cadendo precipitosamente al piano inferiore. Non che fosse stata la caduta a ucciderlo. Quella l’aveva imbracato in una serie di fasciature piuttosto ingombranti e aveva costretto la moglie Capurél a prevedere una guardia anche vicino alla finestra. Ma al re la convalescenza dava sui nervi, soprattutto perché l’umidità rendeva crespi i suoi magnifici capelli e complicava la cura dei baffi a cui teneva molto. D’altronde per il suo popolo Dio, patria e ciglia erano i valori fondanti, ma visto che la fede ultimamente viveva una fase di stanca e il regno era al sicuro da parecchio tempo da invasioni e razzie, quello che rimaneva ai suoi sudditi era una cura maniacale per l’aspetto fisico.

Insomma, il re era pacificamente morto nel sonno, ma secondo alcuni saggi chiamati a verificare le cause della sua morte, ad accelerare la dipartita era stato lo smarrimento del suo pettine preferito, che aveva lasciato in consegna ai suoi figli, visto che da solo non riusciva più a pettinarsi a causa delle fratture.

Quale che fosse la causa della morte dell’anziano sovrano, di una cosa erano certi quasi tutti: nessuno dei due figli era ancora pronto per raccoglierne l’eredità. Vacandin, il maggiore, era timido, riservato, silenzioso. Tutte caratteristiche che rendevano difficile adempiere alla principale missione di tutti i sovrani dei Berfatt: trovare una moglie combattiva e coraggiosa e lasciare che a occuparsi del regno fosse lei. Al massimo il re poteva dilettarsi in pubbliche relazioni e battute di caccia ai funghi, le uniche battute di caccia possibili visto che ad Apul gli animali scarseggiavano e i cacciatori erano talmente fuori forma che più che un fungo immobile non avrebbero potuto catturare.

Il fratello Cip Ciap avrebbe avuto meno difficoltà a trovare una donna, ma il problema non era la donna, ma semmai l’una; al giovane una sola compagna pareva non bastare. Erano piuttosto numerose le ragazze a poter raccontare di aver avuto una relazione, di un giorno o di un mese, con il bel principe gaudente e spensierato.

La regina Capurél convocò pertanto i due figli subito dopo le esequie del marito. Non era infatti scontato che il trono sarebbe passato a Vacandin: la regina avrebbe potuto scegliere il figlio minore, come speravano i popolani (soprattutto le popolane) o anche un estraneo, purché bello e senza problemi di alopecia, secondo le sacre tradizioni dei Berfatt. Parlò loro con estrema franchezza. Voleva sapere chi dei due avesse perso il sacro pettine del padre. Non era tanto la loro l’impudenza, che voleva valutare, spiegò loro, quanto la sincerità e il coraggio dei suoi figli. Cip Ciap prese subito la parola: a perdere il pettine era stato Vacandin, lo custodivano una settimana per uno, e quando era arrivato il suo turno, il fratello non glielo aveva consegnato. Cip Ciap affermò anche di aver visto Vacandin uscire con il pettine in borsa, senza prendere precauzione alcuna. Non si poteva affidare il regno ad un inetto incapace di custodire un oggetto di valore. Non si poteva.

Vacandin rimase in silenzio. Capurél attese allora la sua versione dei fatti. Il figlio le rispose che era vero, il pettine era in custodia da lui, ma che non lo aveva mai portato fuori dal castello. Tuttavia questo non aveva importanza, ormai. Era stato perduto mentre lui avrebbe dovuto custodirlo, e doveva pagarne le conseguenze.

Capurél si volse indietro verso un armadio in fondo alla sala, aprì un cassetto e ne estrasse il pettine. Era stata lei a prenderlo per farlo ripulire. Cosa che faceva abitualmente senza avvisare il marito, il quale temeva potesse sciuparsi. Lo faceva perché il re era capace di farsi cogliere da profonda malinconia alla vista dei capelli attaccati al pettine, e con gli anni era andato peggiorando. Per questo la moglie li faceva rimuovere di nascosto. Solo che questa volta l’artigiano che se ne prendeva cura le aveva chiesto un po’ più di tempo per completare il lavoro

Capurél guardò con aria severa Cip Ciap: un mentitore non solo non sarebbe mai stato un buon re, ma non sarebbe mai stato un buon berfatt. Doveva cambiare e in fretta, se non voleva fare la fine che il destino assegna agli uomini falsi. Poi mise una mano sulla spalla di Vacandin e lo invitò a farsi coraggio, a guardare al futuro con fiducia e ad usare più balsamo.

Il popolo dei Berfatt avrebbe presto incoronato un nuovo re.

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Desiderio nascosto

scivoloLe scale in effetti potrebbero essere un problema. Il primo gradino, soprattutto, è un vero tranello, perché l’ingegnere infingardo che l’ha progettato l’ha posto molto, troppo in alto. Ma ce la posso fare. Quante volte mi sono arrampicato su per le ciminiere del siderurgico, così in alto da non vedere più nemmeno il capoarea piccolo piccolo decine di metri più sotto che si sbracciava inutilmente imprecando contro tre generazioni di miei avi?

Poi c’è da valutare che la pista di lancio è in effetti troppo stretta. Non è stata evidentemente progettata per me. Ma quando mai ho utilizzato qualcosa che fosse progettato esclusivamente per me? Da bambino ho indossato per decenni i vestiti larghi e sformati di mio fratello, inciampando nei pantaloni troppo lunghi e nascondendo le mani in fondo a maniche che le risucchiavano spietatamente. E la mia prima automobile, quella meravigliosa Autobianchi Bianchina con cui portavo al mare tutta la famiglia, non era certo stata concepita per trasportare pasta al forno, polpettone, anguria, focaccia con le cipolle, ombrellone, sdraio per papà, sdario per la mamma, paletta, secchiello, pallone, canotto e cinque persone. No davvero, la pista non sarà un problema.

Sarà soprattutto la brama per quel momento di gioia assoluta, per quella forte emozione, il cuore che batte forte nel petto, lo sguardo che si annebbia, le mani che tremano, sarà il coraggio di chi non si ferma di fronte a chi gli dice di no che mi aiuterà a superare ogni ostacolo. Lo stesso coraggio con il quale ho sepolto i mie genitori morti dopo una vita di fatiche contadine e l’unica soddisfazione di avermi mandato alle scuole alte, il coraggio di chi si è sposato giovane quando gli dicevano ma chi te lo fa fare, divertiti, aspetta un po’, ma io non ce la facevo ad aspettare e volevo che il mio amore mi accompagnasse lì, subito.

Alcune cautele andranno prese. Devo fare in fretta, su questo non c’è dubbio. Studiare bene in anticipo ogni movimento, coordinarmi come un trapezista che muove i muscoli all’unisono consapevole che il minimo errore può comportare una disgrazia. E soprattutto, devo evitare lo sguardo traditore di chi è venuto qui con me, ed è pronto a raccontare tutto, a ricoprirmi di ridicolo, a denunciare le mie azioni semplicemente perché qualcuno ha stabilito così. Quasi che debba chiedere il permesso, io, a chi ho contribuito a mettere al mondo. Di notte, potrei tornare qui di notte. O magari al mattino presto, anziché fare la fila dalle otto di fronte al supermercato che tanto apre alle nove.

Veloce, silenzioso, invisibile.

Non sono invisibile adesso, però. Mi avranno visto? Dissimulare, presto. Fischiettare. Negare, negare l’evidenza. Allontanarsi.

– Nonno, che fai? Smetti di guardare da quella parte, ti ho visto sai? Lo sai che la mamma ti ha detto che non è per te, poi succede come l’altra volta che ti sei fatto male alle ginocchia. Tu non ci puoi salire sullo scivolo del parco, è per noi bambini! Fai il bravo, nonno, spingimi sull’altalena.

W il garantismo

Non c’era stato nemmeno il tempo di seppellire il povero corpo esanime di Abele, che già lo stavano sezionando con cura per l’autopsia disposta dall’inquirenti.
Dio, che stava per proporre a Caino la frase che si era preparata, dov’è tuo fratello, si trattenne perché non si aspettava certo tutta quell’agitazione in un mondo creato di fresco. Ma poi decise comunque di procedere, e che cacchio, era pur sempre il Creatore. E insomma, Caino, dov’è tuo fratello? L’avvocato consigliò Caino di non rispondere, perché ogni cosa avrebbe potuta essere usata contro di lui. Fu l’avvocato stesso a rispondere che dal momento che non esistevano documenti di affido parentale né contratti di custodia in esclusiva, il suo cliente non era tenuto a conoscere la precisa collocazione del fratello.
La faccenda innervosì non poco il Signore, che aveva ancora sotto gli occhi il sangue di Abele: ma solo per un attimo, perché gli uomini della scientifica intervenuti l’avevano raccolto tutto disponendo un’analisi del dna che confermasse fosse davvero appartenuto ad Abele.
I RIS spiegarono che sarebbero stati necessari mesi prima di ottenere un riscontro, anche perché c’erano tracce di dna ovunque e soprattutto mancavano testimoni. Esasperato, Dio scacciò Caino ordinandogli di muoversi ramingo e fuggiasco, ma anche in questo caso la difesa si oppose ritenendo che il confino fosse una procedura che violava i diritti civili e che in ogni caso Caino aveva i diritti di cittadinanza che non poteva essere revocati. E poi, la testimonianza di una divinità non era contemplata dal codice di procedura penale di uno stato laico.
Caino ottenne così gli arresti domiciliari, ma si lamentò anche di questo, perché riteneva di poter essere vittima di ritorsioni, per cui fece causa a Dio per i danni causati alla sua immagine. Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!, tuonò allora il Signore che già pensava di anticipare il diluvio, e impose a Caino un segno perché non fosse colpito da chi l’avesse incontrato. Ma il bracialetto elettronico è pratica abnorme e non giustificata, sostenne il documento dell’efficiente avvocato, e poi mancano i presupposti di necessità e urgenza. Esasperato, Dio esclamò: ma io sono il Giudice Supremo! Sia fatta la mia volontà. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. L’avvocato ricusò il giudice, perché evidentemente c’erano seri pregiudizi per la serenità del giudizio e per l’ottenimento di un equo processo.
Caino emigrò a Nord dove attese la prescrizione dei termini di custodia cautelare.

Bologna d’agosto

Panoramica

Bologna d’agosto è come un presepe senza statuette, irreale e affascinante. Ha la stessa percepibile carica di energia di uno stadio deserto o di una chiesa vuota, si avverte la scia dell’uomo e delle sue azioni, paradossalmente, proprio quando le sue manifestazioni si fanno più rade. Bisogna vederla, Bologna d’agosto, per comprenderla il resto dell’anno. Bologna d’agosto, che brutto modo di esprimersi, generico e qualunquista, televisivo quasi, da talk-show, come se Bologna fosse tutta uguale, in ogni strada, in ogni quartiere. Riduciamo gli spazi, concentriamoci, zoomiamo e mettiamo a fuoco qualche chilometro quadrato, un quartiere, un isolato. Quello in cui vivo io, per esempio, l’area tra Via Murri e Via degli Orti, forse uno degli spaccati migliori per capire la Bologna di oggi, la classe operaia che non è andata in paradiso, perché non c’ha mai creduto, ma si è comprata il gippone e la casa al mare, ha cominciato a temere la gente che viene da fuori e a sostituire i bambini con i cani. Questa classe operaia che ha smesso di contestare la borghesia perché né è diventata parte integrante, e la rivoluzione che si è fatta trasformazione.
Cos’hanno, di affascinante, queste strade in agosto, a parte il fatto che si arriva in ufficio nella metà del tempo, che si riscopre che in fondo fare la spesa nella bottega sotto casa, in ciabatte, senza carrello e card per i punti, è piacevole e quasi divertente (carissimo, come tutti i piaceri bolognesi, ma questa è un’altra storia)? Cosa c’è di così strabiliante nel riscoprire quanto sono belli i bambini – i pochi in giro – quando corrono senza zaini deformi e musi imbronciati (e, – magia! – senza cellulare) e quanto sono comodi i mezzi pubblici quando le preferenziali sono lasciate a loro soltanto? Niente, normale cronaca cittadina di una comunità in ferie. C’è un dettaglio, però. Il mio quartiere, d’agosto, non è disabitato. Affatto. Il bar in fondo alla strada (presto lo sostituiranno con un maxi-shore very fashionable: non riesco a chiamarlo negozio d’abbigliamento, anche se bello ciò che ci è estraneo non è giusto tradurlo) è pieno di gente, ce n’è ai giardini di fronte e a comprare il giornale all’edicola (senza supplemento, grazie). Qual è, allora, il miracolo? Semplice. Il mio quartiere è pieno di gente, ad agosto. Ma, a parte me, il più giovane ha settanta anni.

Campo lungo, dettaglio, breve carrellata

Ad agosto non ci sono studenti a Bologna (il che non è poco, se si considera che un abitante su sette è uno studente fuorisede). E allora parliamo di loro, della popolazione che si riappropria del mio quartiere quando chi produce è in coda per il lido o meglio in coda per il lido sull’isola oceanica (che fare vacanze senza andare all’estero non sembra neanche fare vacanze), parliamo di questi ultra settantenni che se ne stanno buoni, nascosti, tranquilli per undici mesi all’anno, ad agosto saltano fuori e puliscono la loro Fiat Uno quattro porte con il ventilatore attaccato all’accendisigari e il parasole sul volante, posteggiata lì l’ultima volta nel ’92 e da allora padrona assoluta del parcheggio. Si perché le puliscono ma non le usano quasi mai. E questo, scusate se sono un poco offensivo, è solo un bene, perché un settantenne in macchina sui viali a Bologna al giorno d’oggi è un agnello in un branco di lupi, genera crisi di rigetto, nella migliore delle ipotesi dopo un paio di chilometri di colpi di clacson e insulti decide, spaventato e disorientato, di ritornarsene a casa. Contromano. E allora parliamo di loro, del bar dove da quarant’anni gli avventori si domandano come sarebbero cresciuti i loro figli se avessero provato l’emozione di vincere uno scudetto (interisti non siate egoisti nel vostro dolore, c’è chi aspetta da molto più tempo di voi), dove qualcuno tenta di consolarsi col basket, lì vinciamo di tutto, ma un campionato di basket nazionale che, con qualche eccezione, comincia in Abruzzo e finisce in Veneto, siamo sinceri, non dà le stesse gioie, non può, ha una patina di provinciale che neanche un Eurolega riesce a cancellare via. Parliamo di questi vecchi partigiani che, quando Bologna per la prima volta nella storia vince il centro-destra, commentano malinconici e sorridenti: per forza, siamo diventati troppo ricchi.

Interno, primo piano, dissolvenza.

Le donne di una certa età, a Bologna, si fanno notare più dei loro coetanei. Le notate al mercato, quando con classe e buon gusto vi passano sfacciatamente avanti nella fila, una, due, tre, fino a che il salumiere ha un moto di buon cuore (o di stizza, perché siete immobili e increduli da mezz’ora) e dice loro “Scusi sa sciora ma credo che quel giovinotto fosse prima” “Sì? Davvero?Mah…! Non l’ho visto! Comunque faccio in fretta, volevo solo un po’ di prosciutto ma di quello buono, non troppo salatino.”
Le notate in autobus, quando si lamentano del clima, del mestiere di vivere, dell’ultima puntata di Incantesimo e dei giovani d’oggi che non offrono mai il posto. Voi glielo offrite. Allora vi squadrano, ci pensano un po’, poi decidono che il vostro posto non è un granché, rivolto di spalle alla marcia non va bene, quell’altro sulla ruota dà troppe vibrazioni, quello in fondo, quello andrebbe bene. Cinquanta persone si fanno da parte, l’aiutano a raggiungere il sedile prescelto, sperando non sia occupato da un’altra donna anziana. Quando la signora è comoda, ha sistemato le gambe e le sportine – qui i sacchetti si chiamano così – e tutti i viaggiatori tirano un sospiro di sollievo, si accorge, ahinoi, di dover scendere. Due fermate dopo essere salita, una dopo essersi seduta. Inevitabilmente, non farà in tempo a scendere alla fermatra prevista, arriverà alla porta troppo tardi, maledicendo il clima, il mestiere di vivere, l’ultima puntata di Incantesimo e gli autisti d’oggi che corrono troppo.
L’iperattività dei mariti in crisi d’astinenza da 90° Minuto non le coinvolge, anzi le irrita. I nipoti sono in vacanza. La tv annoia. Non resta che il gesto estremo, l’ultimo rito dell’agosto bolognese. Se siete appassionati di oggettistica d’altri tempi o modernariato, lasciate perdere fiere e negozi, date un’occhiata vicino ai cassonetti di Bologna. Troverete armadi con le figurine dei calciatori 1968-69 incollate nelle ante interne (in alternativa, figurine dell’Ape Maia dei primi anni ’80). Poltrone in pelle della dimensione media di un monolocale in centro. Comodini meravigliosi nella loro incomprensibile funzionalità; sempre che siano davvero comodini. Televisori austeri, massicci, orgogliosi delle due manopole, VHF e UHF (Ultra High Frequency: chissà se mia nonna si è mai chiesta cosa volesse dire). Perché il rito femminile, nella silenziosa periferia della Bologna d’agosto, è quello della sciamanica liberazione dagli oggetti che ci hanno accompagnati per decenni. E che forse avrebbero potuto accompagnare qualcun’altro, meno fortunato, per qualche altro anno almeno.

Carrellata all’indietro. Musica di sottofondo, titoli di coda.

Bologna d’agosto è una bella donna addormentata, un fiore che si prepara a germogliare, un sogno verosimile. Un gran brutto posto se si soffre il caldo, anche. Difficile redimersi, per i peccatori: trovatelo voi un sacerdote disposto a confessarvi. È già tanto trovare una messa la domenica, visto che la il turn-over fra parrocchie (anche loro, che tristezza, anche loro) fa sì che mi trovi puntuale davanti al portone d’ingresso della chiesa, chiusa, in cui non si celebra. Bologna d’agosto è una grande Chianciano, mancano le terme ma ci sono i degenti, a spasso, nei bar, nei giardini. Non ci sono studenti. E dire che raccontare la vita notturna degli universitari bolognesi sarebbe molto facile, si può pescare a piene mani nei luoghi comuni con i quali questa città attrae ogni anno migliaia di matricole vogliose, straordinario esempio di marketing che non ha bisogno di spot ma solo di leggende. Sarebbe bello uscire dal coro ed affermare che la vita di un fuorisede qui è dura, che un’insalata al bar costa 4 euro, che se un vigile ti scopre a passeggiare di sera con una lattina di birra in mano può multarti, che si vive in catapecchie tutto in nero e poche storie, che fortuna aver trovato questo posto in tripla sì mamma sto benone. Sarebbe bello ma provocherebbe reazioni irate, il modello della Bologna gaudente è sacro e poi traina l’economia, per cui. Non ci sono neanche iniziative culturali, di cui la città è di solito ricca, ad Agosto. Allora non resta che dare corda al nonno vicino di casa che cerca di attaccare bottone tutte le volte che vi vede per le scale. Non resta che godere del silenzio della strada assolata, non durerà a lungo, e se proprio si deve guidare la macchina, si guidi con calma,’ché qualcuno potrebbe aver rispolverato la bici in cantina dall’86, e incontrarlo per strada, confuso e contromano, potrebbe essere spiacevole. Sono loro, questi simpatici nonni Cocoon, i padroni della città d’agosto. E non perché una pozione li abbia rivitalizzati o il clima li aiuti, anzi. Semplicemente, non c’è la Bologna che produce che li ha relegati a soprammobili, perché lenti, impacciati, poco aggressivi. E per un mese, un mese almeno, possono tornare a vivere.
Magari senza rompere troppo le balle quel giovanotto che sembra sempre in ritardo quando lo incontriamo per le scale.