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Bologna d’agosto

Panoramica

Bologna d’agosto è come un presepe senza statuette, irreale e affascinante. Ha la stessa percepibile carica di energia di uno stadio deserto o di una chiesa vuota, si avverte la scia dell’uomo e delle sue azioni, paradossalmente, proprio quando le sue manifestazioni si fanno più rade. Bisogna vederla, Bologna d’agosto, per comprenderla il resto dell’anno. Bologna d’agosto, che brutto modo di esprimersi, generico e qualunquista, televisivo quasi, da talk-show, come se Bologna fosse tutta uguale, in ogni strada, in ogni quartiere. Riduciamo gli spazi, concentriamoci, zoomiamo e mettiamo a fuoco qualche chilometro quadrato, un quartiere, un isolato. Quello in cui vivo io, per esempio, l’area tra Via Murri e Via degli Orti, forse uno degli spaccati migliori per capire la Bologna di oggi, la classe operaia che non è andata in paradiso, perché non c’ha mai creduto, ma si è comprata il gippone e la casa al mare, ha cominciato a temere la gente che viene da fuori e a sostituire i bambini con i cani. Questa classe operaia che ha smesso di contestare la borghesia perché né è diventata parte integrante, e la rivoluzione che si è fatta trasformazione.
Cos’hanno, di affascinante, queste strade in agosto, a parte il fatto che si arriva in ufficio nella metà del tempo, che si riscopre che in fondo fare la spesa nella bottega sotto casa, in ciabatte, senza carrello e card per i punti, è piacevole e quasi divertente (carissimo, come tutti i piaceri bolognesi, ma questa è un’altra storia)? Cosa c’è di così strabiliante nel riscoprire quanto sono belli i bambini – i pochi in giro – quando corrono senza zaini deformi e musi imbronciati (e, – magia! – senza cellulare) e quanto sono comodi i mezzi pubblici quando le preferenziali sono lasciate a loro soltanto? Niente, normale cronaca cittadina di una comunità in ferie. C’è un dettaglio, però. Il mio quartiere, d’agosto, non è disabitato. Affatto. Il bar in fondo alla strada (presto lo sostituiranno con un maxi-shore very fashionable: non riesco a chiamarlo negozio d’abbigliamento, anche se bello ciò che ci è estraneo non è giusto tradurlo) è pieno di gente, ce n’è ai giardini di fronte e a comprare il giornale all’edicola (senza supplemento, grazie). Qual è, allora, il miracolo? Semplice. Il mio quartiere è pieno di gente, ad agosto. Ma, a parte me, il più giovane ha settanta anni.

Campo lungo, dettaglio, breve carrellata

Ad agosto non ci sono studenti a Bologna (il che non è poco, se si considera che un abitante su sette è uno studente fuorisede). E allora parliamo di loro, della popolazione che si riappropria del mio quartiere quando chi produce è in coda per il lido o meglio in coda per il lido sull’isola oceanica (che fare vacanze senza andare all’estero non sembra neanche fare vacanze), parliamo di questi ultra settantenni che se ne stanno buoni, nascosti, tranquilli per undici mesi all’anno, ad agosto saltano fuori e puliscono la loro Fiat Uno quattro porte con il ventilatore attaccato all’accendisigari e il parasole sul volante, posteggiata lì l’ultima volta nel ’92 e da allora padrona assoluta del parcheggio. Si perché le puliscono ma non le usano quasi mai. E questo, scusate se sono un poco offensivo, è solo un bene, perché un settantenne in macchina sui viali a Bologna al giorno d’oggi è un agnello in un branco di lupi, genera crisi di rigetto, nella migliore delle ipotesi dopo un paio di chilometri di colpi di clacson e insulti decide, spaventato e disorientato, di ritornarsene a casa. Contromano. E allora parliamo di loro, del bar dove da quarant’anni gli avventori si domandano come sarebbero cresciuti i loro figli se avessero provato l’emozione di vincere uno scudetto (interisti non siate egoisti nel vostro dolore, c’è chi aspetta da molto più tempo di voi), dove qualcuno tenta di consolarsi col basket, lì vinciamo di tutto, ma un campionato di basket nazionale che, con qualche eccezione, comincia in Abruzzo e finisce in Veneto, siamo sinceri, non dà le stesse gioie, non può, ha una patina di provinciale che neanche un Eurolega riesce a cancellare via. Parliamo di questi vecchi partigiani che, quando Bologna per la prima volta nella storia vince il centro-destra, commentano malinconici e sorridenti: per forza, siamo diventati troppo ricchi.

Interno, primo piano, dissolvenza.

Le donne di una certa età, a Bologna, si fanno notare più dei loro coetanei. Le notate al mercato, quando con classe e buon gusto vi passano sfacciatamente avanti nella fila, una, due, tre, fino a che il salumiere ha un moto di buon cuore (o di stizza, perché siete immobili e increduli da mezz’ora) e dice loro “Scusi sa sciora ma credo che quel giovinotto fosse prima” “Sì? Davvero?Mah…! Non l’ho visto! Comunque faccio in fretta, volevo solo un po’ di prosciutto ma di quello buono, non troppo salatino.”
Le notate in autobus, quando si lamentano del clima, del mestiere di vivere, dell’ultima puntata di Incantesimo e dei giovani d’oggi che non offrono mai il posto. Voi glielo offrite. Allora vi squadrano, ci pensano un po’, poi decidono che il vostro posto non è un granché, rivolto di spalle alla marcia non va bene, quell’altro sulla ruota dà troppe vibrazioni, quello in fondo, quello andrebbe bene. Cinquanta persone si fanno da parte, l’aiutano a raggiungere il sedile prescelto, sperando non sia occupato da un’altra donna anziana. Quando la signora è comoda, ha sistemato le gambe e le sportine – qui i sacchetti si chiamano così – e tutti i viaggiatori tirano un sospiro di sollievo, si accorge, ahinoi, di dover scendere. Due fermate dopo essere salita, una dopo essersi seduta. Inevitabilmente, non farà in tempo a scendere alla fermatra prevista, arriverà alla porta troppo tardi, maledicendo il clima, il mestiere di vivere, l’ultima puntata di Incantesimo e gli autisti d’oggi che corrono troppo.
L’iperattività dei mariti in crisi d’astinenza da 90° Minuto non le coinvolge, anzi le irrita. I nipoti sono in vacanza. La tv annoia. Non resta che il gesto estremo, l’ultimo rito dell’agosto bolognese. Se siete appassionati di oggettistica d’altri tempi o modernariato, lasciate perdere fiere e negozi, date un’occhiata vicino ai cassonetti di Bologna. Troverete armadi con le figurine dei calciatori 1968-69 incollate nelle ante interne (in alternativa, figurine dell’Ape Maia dei primi anni ’80). Poltrone in pelle della dimensione media di un monolocale in centro. Comodini meravigliosi nella loro incomprensibile funzionalità; sempre che siano davvero comodini. Televisori austeri, massicci, orgogliosi delle due manopole, VHF e UHF (Ultra High Frequency: chissà se mia nonna si è mai chiesta cosa volesse dire). Perché il rito femminile, nella silenziosa periferia della Bologna d’agosto, è quello della sciamanica liberazione dagli oggetti che ci hanno accompagnati per decenni. E che forse avrebbero potuto accompagnare qualcun’altro, meno fortunato, per qualche altro anno almeno.

Carrellata all’indietro. Musica di sottofondo, titoli di coda.

Bologna d’agosto è una bella donna addormentata, un fiore che si prepara a germogliare, un sogno verosimile. Un gran brutto posto se si soffre il caldo, anche. Difficile redimersi, per i peccatori: trovatelo voi un sacerdote disposto a confessarvi. È già tanto trovare una messa la domenica, visto che la il turn-over fra parrocchie (anche loro, che tristezza, anche loro) fa sì che mi trovi puntuale davanti al portone d’ingresso della chiesa, chiusa, in cui non si celebra. Bologna d’agosto è una grande Chianciano, mancano le terme ma ci sono i degenti, a spasso, nei bar, nei giardini. Non ci sono studenti. E dire che raccontare la vita notturna degli universitari bolognesi sarebbe molto facile, si può pescare a piene mani nei luoghi comuni con i quali questa città attrae ogni anno migliaia di matricole vogliose, straordinario esempio di marketing che non ha bisogno di spot ma solo di leggende. Sarebbe bello uscire dal coro ed affermare che la vita di un fuorisede qui è dura, che un’insalata al bar costa 4 euro, che se un vigile ti scopre a passeggiare di sera con una lattina di birra in mano può multarti, che si vive in catapecchie tutto in nero e poche storie, che fortuna aver trovato questo posto in tripla sì mamma sto benone. Sarebbe bello ma provocherebbe reazioni irate, il modello della Bologna gaudente è sacro e poi traina l’economia, per cui. Non ci sono neanche iniziative culturali, di cui la città è di solito ricca, ad Agosto. Allora non resta che dare corda al nonno vicino di casa che cerca di attaccare bottone tutte le volte che vi vede per le scale. Non resta che godere del silenzio della strada assolata, non durerà a lungo, e se proprio si deve guidare la macchina, si guidi con calma,’ché qualcuno potrebbe aver rispolverato la bici in cantina dall’86, e incontrarlo per strada, confuso e contromano, potrebbe essere spiacevole. Sono loro, questi simpatici nonni Cocoon, i padroni della città d’agosto. E non perché una pozione li abbia rivitalizzati o il clima li aiuti, anzi. Semplicemente, non c’è la Bologna che produce che li ha relegati a soprammobili, perché lenti, impacciati, poco aggressivi. E per un mese, un mese almeno, possono tornare a vivere.
Magari senza rompere troppo le balle quel giovanotto che sembra sempre in ritardo quando lo incontriamo per le scale.

Finalmente

Finalmente riesco a guardare la tua stanza da un’altra luce. Durerà poco, lo so, entro stasera al massimo questo spettacolo alla rovescia che si dipana sotto di me sarà dominato da una collega, il mio tempo è venuto ormai. Certo che sei proprio disordinato, hai il letto perennemente sfatto e la scrivania sommersa di giornali. Per quanto tempo i miei occhi luminosi hanno dato brio al tuo caos, alle tua vita notturna, ai tuoi orari impossibili! Avevi la capacità di elettrizzarmi e farmi sentire viva, attiva, anche se mi hai lasciato inutilmente sola per tanto di quel tempo.

E poi non ti lamentare se ho le mie incandescenze, vorrei vedere te appeso al mio posto. Comunque basta, tutti questi discorsi, queste chiacchiere, ormai è finita. Ho perso la mia lucentezza ormai. Pensavo di essere semplicemente una svitata, ora so che non è così. Mi hai stretta, sfruttata, alimentata, dimenticata. Alla fine mi hai fulminata con il tuo comportamento insensibile.
Spero solo che la prossima lampadina abbia maggior fortuna.

Manifesto il mio amore

Maledizione com’è tardi, ieri sera ho davvero esagerato ma quel vinello scivolava giù così bene, non mi saziava mai, e poi quel retrogusto frizzante! Sempre la stessa storia, le invito a cena, cerco di far loro bere perché si lascino andare, e poi in effetti quello che ottengo è un “Lasciami andare, adesso. È tardi devo tornare a casa mia”. Contro ogni legge della fisica e della biologia quel vinello sembra essersi depositato tutto sulla mia nuca, ogni volta che provo a muovere la testa le bollicine si agitano e mi esplodono tra gli occhi. Proprio oggi che il capo divisione ha deciso di accompagnarmi all’appuntamento con il più grosso cliente che mi sia capitato negli ultimi mesi, proprio oggi.
Bionda, sensuale, longilinea e provocante, Milly mi sorride come ogni mattina in fondo al viale sotto casa mia, prima che svolti a sinistra e mi incolonni nella lunga fila prima del semaforo. È bella, Milly, con quel suo sguardo felino, aggressiva, audace, tutte le volte che la osservo vorrei portarmela via con me, per sempre, strapparla da quell’angolo in cui se ne sta gioviale e sorridente. Ingrano la prima, la coda sembra muoversi, con uno scatto sulla destra supero un paio di utilitarie sonnolente, supero il semaforo, riacquisto la posizione e balzo di nuovo sulla sinistra per svoltare, in effetti non avrei la precedenza ma prima che quello di fronte se ne possa accorgere sarò già cento metri in là.
Me lo sono lavorato per mesi questo cliente, con visite, demo, telefonate, l’ho persino invitato a cena in ristorante con la scusa di fargli assaggiare la nostra cucina locale. L’assaggio gli è piaciuto eccome, mi ha svuotato la carta di credito aziendale e mi ha fatto litigare con l’ufficio amministrativo. Poi, sul più bello, quando la firma è ormai ad un passo, ecco che quello sbruffone del capo divisione decide che mi accompagnerà dal cliente, lui che non si muove dalla sua scrivania se non per molestare le segretarie con il suo umorismo pecoreccio.
Samantha è più sexy che mai quando la incontro sul lungo rettilineo in discesa, se ne sta addirittura con le gambe aperte incurante della scuola elementare di fronte, l’adoro proprio perché è così sfacciata, così maleducata. Mi sforzo di memorizzarne i lineamenti mediterranei, le forme procaci, devo sforzarmi per ruotare il collo e gustarmi fino all’ultimo il suo sorriso. Ma che fai, idiota, frenare in questo modo è da assassini, per fortuna ho il riflesso giusto, scalo in terza, pedale sul di freno, colpo di volante (benedetto sia l’inventore del servosterzo) ed ecco che mi affianco sulla destra al furgoncino contro il quale stavo per stamparmi e lo supero in agilità.
Ormai non manca molto, riuscirò quasi ad essere puntuale. Ciao carina che sei, non ti avevo notata ieri, devi essere una nuova arrivata, bellino quel pizzo, davvero intrigante, mi piacerebbe tanto essere al suo posto…Che diavolo, quando vorresti fermarti un attimo il semaforo è verde…Pazienza, dolcezza, ci vediamo dopo, tanto non credo che ti scollerai di lì tanto in fretta. Prima seconda terza quarta, progressione fenomenale per una station-wagon, non c’è che dire. Il portatile sobbalza sul sedile posteriore e quasi si capovolge, devo stare più attento, se si rompe addio contratto, addio cliente, addio lavoro.
Ormai sono in dirittura d’arrivo, un paio di curve, un incrocio dove non c’è mai nessuno tranne Jenny, la mia preferita, e sono in ufficio. Sto volando, cavolo se volo, ormai non sento neanche più il mal di testa, ecco Jenny, tesoro come stai, scusami ma ho fretta, certo però che uno sguardo a quel tuo meraviglioso completo intimo in seta nero proprio non te lo posso negare, sei meravigliosa, meravigliosa, così bella, così grande, grande, grande, così da vicino non ti ho mai vista, così eccitante, così vicina a me, sto volando verso di te, perdo il controllo, finisco contro la pubblicità di uno yogurt…

Sipario.

– Mi scuso per il terribile ritardo, non so che dirle. Sono sicuro che saprà perdonarmi quando le proporrò la nostra nuova gamma di servizi ad elevato valore aggiunto che coprono a 360° il mercato…Il mio collega? Oh, ha avuto un contrattempo, non si è potuto presentare in ufficio, a dire il vero non so ancora dove si sia cacciato. Questi giovani! Averla, la loro energia. In ogni caso ho qui una copia del contratto, se vogliamo consultarla insieme…

Libera e felice

La mattinata era grigia e umida, e questo sembrava irritare i clienti. Pochi si fermavano a comprare il giornale, forse per evitare di bagnarsi. E quei pochi erano frettolosi, sgarbati, si avvicinavano al chiosco con i loro ombrelli bagnati e mi rovinavano le copertine delle riviste. C’era più traffico del solito e l’avvicinarsi del fine settimana non sembrava allietare particolarmente i viandanti. Né me.
Quando lavori in un’edicola sei spesso il primo incontro che la gente fa. E questo non te lo perdonano, come se fosse colpa tua l’essere l’anello di congiunzione tra il caffè caldo del primo mattino e la pila di documenti da compilare in ufficio. Temevo mi aspettasse la solita mattinata di routine da cancellare in fretta. Invece non dimenticherò facilmente quella mattinata, nossignore. Non la dimenticherò perché per un momento, quel giorno, un attimo solo, un minuscolo istante nei miei diciannove anni di vita, mi sono sentita bellissima. È stato quando lui si è rivolto a me, mi ha rivolto quelle parole. D’amore. Si è avvicinato all’edicola dei miei genitori, evidentemente in imbarazzo, con lo sguardo rivolto verso il basso e le mani in tasca. Alto, con i capelli castani, corti e disordinati, una felpa sbiadita sul collo. Parlottava con un amico. Sulle prime non mi sono resa conto della sua presenza, ho imparato a non osservare i clienti e a rivolgermi loro solo quando mi chiamano o fanno qualche mossa insolita. E poi quella mattina stavo contando i soldi in cassa da portare al più presto a cambiare in banca visto che non l’avevo fatto la sera precedente. Avevo avuto l’ennesima discussione con mia madre, che mi vorrebbe sistemare con quel suo cugino vecchio e bavoso, e mi era passato di mente. Un giorno o l’altro mollerò tutto e la smetterò di contare i soldi. Loro. Poi voglio vedere senza di me come la tengono in piedi questa baracca zeppa di videocassette, libri, giocattoli. E giornali, certo. Voglio proprio vedere.
Quando mi sono accorta che aggirava indeciso lo sguardo da una rivista all’altra, ho pensato che probabilmente era il solito acquirente di porno che si sentiva in imbarazzo a chiedere “Transex2000 Raccolta” ad una ragazza. E sono tornata ai miei maledetti centesimi di euro.
Sono brutta. Ho un bel po’ di chili di troppo, un faccione tondo, un naso a patata, il doppio mento, gli occhi piccoli nascosti dietro lenti spesse e i capelli crespi. Sono proprio brutta, insomma. Non ho attenuanti: sarei brutta anche se dimagrissi, se cambiassi pettinatura, se mettessi le lenti a contatto. Forse sarei meno brutta, questo me lo posso concedere, ma brutta comunque.
E d’altro canto, sono sempre stata così, ho imparato a convivere con questa condizione, non mi lamento neanche tanto.
Eppure quel giorno qualcosa è successo. Non voleva delle riviste porno. Si è finalmente deciso a rivolgermi la parola. Aveva una voce dolce e melodiosa, sembrava quasi un attore di teatro. Ho sentito un brivido lungo la schiena. Smettila stupida.
– Scusami…Non vorrei disturbarti…Ma…Non è che potresti darmi una mano?
– Che c’è?
– Ecco, vorrei comprare un libro per regalarlo ad una ragazza bellissima…Ma non conosco i suoi gusti.

Il brivido era scomparso piuttosto in fretta, riportando la mia schiena alla solita placida calma piatta. L’unica piattezza del mio corpo.
– Uhm…Quelli non vanno bene per un regalo. Troppo economici, e poi il prezzo stampato sulla copertina è più grosso del titolo. No, non vanno bene. Guarda piuttosto quelli nell’espositore lì dietro.
– Non mi preoccupo di coprire il prezzo, visto che….Quali dici? Questi qui?
– No, non quelli, che fai, vuoi regalarle una guida di videogames? Aspetta, vengo io, ti faccio vedere. Ecco, questi qui.

Che idiota. Bello, sì. Bella voce, sì. Fisico atletico, si. Ma allora perché vuoi fare l’intellettuale, portala fuori a cena invece di farmi perdere tempo, che diamine.
Gli ho mostrato una collana di volumi di poesie rilegati, una delle cose migliori che abbiamo mai venduto in edicola. Mio padre non vorrebbe riacquistarli, ha già discusso con il distributore, poi l’ho convinto a tenerli. Non posso vendere calendari e video osé dalla mattina alla sera. Ho bisogno di vendere della poesia, ogni tanto. Anche se ne vendo poca.
Lui si è guardato intorno, paonazzo in volto, imbarazzato dalla mia vicinanza.
– Ma…Veramente non saprei quale scegliere…
– Insomma, che regalo vuoi fare? È un compleanno? È per la tua ragazza?
– No, no, non è la mia ragazza, cosa dici…
Non è per la sua ragazza. Non dico che ho avuto un fremito, a quel punto, questo no, ma qualcosa devo averlo captato se tutto a un tratto ho avuto voglia di nascondermi le mani in tasca come facevo da bambina. Forse per il modo con cui mi guardava, sembrava volesse rapirmi, sembrava volesse portarmi via dall’edicola, per sempre.

– Non so neanche come si chiama. So solo che c’è qualcosa, nel suo sguardo, nel suo sorriso….Insomma, credo di essere innamorato di lei, e vorrei farglielo capire con questo regalo.
– Bello! Ottima idea. Nessuna ragazza può rimanere insensibile ad un gesto così carino. Adesso se permetti…
– Aspetta! Questo… questo può andar bene?
– No, no, cosa fai, quelle sono poesie epiche, battaglie, morti, eroi. No, non va bene. Ecco, prendi questo. Neruda. La farai impazzire. Lingua originale con testo a fronte.

Mi ha osservata stupita, sembrava quasi cercasse di guardarmi attraverso, per un attimo, che scema, ho persino avuto la nitida impressione che volesse abbracciarmi, di trascinarmi con sé.

– Neruda non era italiano, ma c’è la traduzione delle sue poesie…Insomma è un bel regalo, ecco tutto.
– Dici sul serio?
– Certo!
– Credi che le piacerà? A te piacerebbe ricevere un regalo così?
– Io ne sarei felicissima.
Lo accarezzava tra le mani come il più prezioso dei tesori, continuando a tenere lo sguardo sulla copertina, e sbirciando con la coda dell’occhio quasi temesse che qualcuno potesse vederci.
– Allora prendilo. È per te.

Sbengh. Altro che brivido, altro che formicolio. Una frustata, un crampo, un feroce campo elettrico mi ha attraversata a quel punto, scuotendomi con forza e rendendomi instabile sui piedi. Ed è stata un’instabilità meravigliosa da avvertire, perché mi ha dato prova della mia fisicità, del fatto che ero ben sveglia, viva, vegeta e stordita. E instabile, come chi è trafitto da un raggio impetuoso d’amore.
– Ma…Cosa dici…Non mi conosci neanche…
– Sono giorni che ti osservo, mi avvicino, ti spio. Tu non mi hai notata, forse, ma io giro intorno a questo posto da un bel po’.

L’ho guardato, sembrava, appariva, anzi era assolutamente sincero, ho cominciato a rendermi conto che il suo viso in fondo qualche modo mi era familiare, davvero mi aveva spiata, davvero aveva osservato i miei movimenti, allora mia amava sul serio!
– Ovviamente te lo pago, ci mancherebbe altro! È un regalo che voglio farti! E voglio comprare anche della carta da regalo!
– Mi dispiace, quella non la vendiamo. Se vuoi puoi prenderla alla tabaccheria…Qui di fronte.

Ho alzato il braccio, che mai mi era apparso così pesante (e dire che un cannibale ci camperebbe una settimana). Ed è stata un’ottima idea, perché il movimento si è concluso direttamente sulla colonna con le cartoline esposte, che mi ha sorretto prima che potessi cadere.
Un regalo. Per me. Di un ragazzo innamorato. Certo ancora non mi conosce bene, ma mi conoscerà. Amore a prima vista! A dire il vero io non ho sentito suonare le campane, perché semmai una campana mi è caduta in testa. Mai un complimento, mai un fiore, un pensiero gentile in quasi vent’anni. Mai, ovviamente, un bacio, una carezza, una storia d’amore. Niente. Ed adesso, in questa mattinata autunnale nuvolosa e sgorbutica, ecco che la vita mi regala in pochi minuti quello che mi ha negato in tanti anni. Travolta da una valanga, ecco come mi sentivo. Ma una valanga che mi aveva trascinato con sé per abbandonarmi su un prato fiorito, su un tappeto di petali di rosa, su una nuvola morbida. Bisogna viverle certe esperienze per capire cosa si prova, per sentire quelle farfalle impazzite che di girano nella pancia, e dire che nella mia c’è spazio per tutte. Amore, amore, amore! E voleva anche incartarmi il regalo, che dolce tesoro! Ho sofferto la solitudine per anni, la cattiveria e il sarcasmo dei compagni di scuola, l’atroce consapevolezza del disinteresse assoluto degli altri. Per anni mi sono sentita brutta, grassa, deforme, mi sono vergognata di andare al mare per non mettermi in costume, mi sono isolata anche dalle amiche che non facevano che cercare di cambiarmi, di propormi diete, come se servissero a qualcosa. Ma adesso basta: era arrivata, per me, la definitiva ora dell’amore. Avrei volato libera e felice con tutti i miei chili perché lui mi avrebbe fatto volare portandomi con sè. Libera e felice
Non stavo volando, quando sentii la voce di mio padre. Ero ancora fermamente ancorata alla colonna che esponeva le cartoline. Fu come se uno squarcio aprisse violentemente il mondo che mi circondava per riportarmi con violenza nella quotidianità della mia edicola. La voce di mio padre fu cruda e aspra.
– Ma che fai, cretina, cosa guardi? Dove c’hai la testa? Non vedi che ci hanno svuotato la cassa?

Saluti dal nonno

Cara nipotina,
sono proprio contento del messaggino che mi hai mandato sul cellulare per ringraziarmi del motorino che ti ho regalato per il compleanno.
Peccato che io sia un povero vecchio che non ha familiarità con questi arnesi moderni, per cui non sono riuscito a leggerlo, ma sono sicuro che deve essere molto bello.
Le mie vacanze proseguono bene, grazie a tuo zio che ogni giorno mi accompagna alle 9 del mattino e viene a riprendermi alle 20. Sto bello fresco anche se camminare tanto non fa bene alla mia circolazione. Ogni tanto mi siedo di nascosto su certe grosse poltrone, anche se non si potrebbe, ma non dirlo a papà…Il tuo nonno è proprio un birbone! Ho conosciuto tante signore simpatiche anche se sono sempre molto indaffarate e non hanno quasi mai il tempo di chiacchierare con me. Non sono riuscito a vedere il film che mi avevi consigliato, perché qui ci sono tanti televisori, è vero, ma non ci sono i telecomandi, e bisogna vedere quello che passa il convento. Per non parlare dell’audio:
purtroppo tuo nonno non sente più bene come una volta, e non comprendo mai quello che dicono. Ogni tanto delle signorine simpatiche mi offrono gentilmente il caffé, ma da qualche tempo non si vedono più in giro, in compenso ci sono dei giovanotti eleganti che vogliono sempre  darmi dei soldi, dicono che sono senza interessi, ma anch’io sono senza interessi, da quando la cara  nonna è volata in cielo, per cui non saprei che farmene dei loro soldi. Vado a trovarla tutti i lunedì mattina, sai, quando ho un po’ di tempo libero.

Mi raccomando, con il motorino, metti sempre il casco, rispetta i segnali stradali e non correre!E vieni a trovarmi, ogni tanto, lo sai che mi fa tanto piacere.Mi trovi nel reparto casalinghi, la mattina, oppure nel reparto elettrodomestici al pomeriggio. Ma se fai due passi nel supermercato prima o poi ci incontriamo.A proposito, di’ a tuo padre, visto che non lo vedo mai, di non preoccuparsi più dei miei risparmi. Visto che lui e suo fratello sono stati così attenti ai consigli del ministro della sanità, mandandomi al supermercato per non soffrire il caldo, ho deciso di seguire quelli del ministro delle attività produttive, e di spendere per rilanciare l’economia.
Fra una settimana parto per una crociera intorno al mondo, tornerò fra qualche mese, credo.
Ma questo non dirlo, a papà: è una sorpresa…

Il volo di un unicorno

Il cuore di Cicciobello smise di battere in un afoso pomeriggio di giugno alle 19,42. Lo chiamavano Cicciobello perché era ciccio, non  perché era bello. E chiamarlo Cicciobrutto era sembrato un modo di infierire gratuito ed eccessivo persino a loro. Era grasso, impacciato nei movimenti, lento. Un rinoceronte. Giocava solo perché la palla era la sua. A dire il vero era quello il motivo per cui loro non lo chiamavano Cicciobrutto.

Giocava in porta, e come la maggior parte dei portieri aveva scelto quel ruolo perché l’alternativa era fare l’arbitro, e a Cicciobello piaceva giocare,
non guardare gli altri. Gli altri erano i suoi compagni di squadra, che all’inizio erano stati un tantino scettici nei confronti delle sue capacità, e lo si intuiva perché piuttosto che passargli la palla indietro la cacciavano con foga in calcio d’angolo. In quegli anni il portiere poteva ancora bloccare con le mani la palla su passaggio del difensore, ma il primo passaggio Cicciobello lo raccolse dopo cinque partite. Si scoprì in seguito che si era trattato di un errore.

Col tempo però quel ragazzone conquistò forse non la stima ma almeno la tolleranza dei suoi compagni di squadra. Merito forse di quella divisa da portiere del Napoli che si era fatto regalare per il compleanno e che gli attribuiva un’indiscutibile fascino sacerdotale, se paragonata alle misere magliette bianche di cotone con il numero scritto con l’Uniposca e le strisce sulle braccia fatte con il nastro adesivo nero dei suoi compagni di squadra. Avrebbe voluto la divisa della nazionale, Cicciobello, ma la madre non aveva trovato la taglia adatta e il celeste del Napoli le era sembrato un’approssimazione accettabile.

Cicciobello non aveva buoni riflessi e la sicurezza nei suo mezzi era tale da rendere anche un rinvio con i piedi un’operazione da ponderare attentamente. Oltre tutto quella divisa sintetica lo faceva sudare come in una sauna per cui già dopo pochi minuti grondava sudore ed il suo colorito paonazzo denunciava una preoccupante carenza d’ossigeno. Ma aveva coraggio. Cacchio, se aveva coraggio, quel ragazzone massiccio come un rinoceronte. Lui non parava, lui si esponeva. Allargava le braccia, si piegava leggermente sulle ginocchia, gonfiava il petto e attendeva che l’attaccante adempisse alla sua missione.

Un attaccante furbo non avrebbe avuto difficoltà a piazzare la palla con un piatto di giustezza tra le gambe di Cicciobello. Al limite un dribbling appena accennato e poi un tocco d’esterno lo
avrebbero facilmente aggirato. Ma la furbizia era dote piuttosto scarsa negli attaccanti che concludevano immancabilmente l’azione con una puntazza, cioè una fucilata da distanza ravvicinata
realizzata colpendo il pallone con la punta della scarpa. Le possibilità di centrare Cicciobello, con quelle premesse, erano piuttosto elevate, visto che con la sua mole copriva tranquillamente un 40% della porta. E infatti lo centravano eccome. Qualche volta sul braccio o sulle gambe, dando all’azione una parvenza di respinta del portiere. Il più delle volte sulla faccia o lo stomaco, tant’è che Cicciobello, che per completare il suo portfolio agonistico era anche miope, giocava con una montatura di occhialini da piscina su cui aveva attaccato le lenti con lo scotch, perché la madre al terzo paio di occhiali stampati in fronte e frantumati aveva minacciato di iscriverlo ai corsi di danza classica.

Il cuore di Cicciobello si fermò in seguito ad un calcio di rigore alle 19,42. All’inizio la considerazione nei suoi confronti era tale che tutte le volte che la sua squadra subiva un
calcio di rigore si decideva una sostituzione al volo, per cui Beppe, l’opinion leader nonché idolo delle compagne di classe, lo rimpiazzava in porta, per poi cedergli nuovamente la posizione dopo il rigore. Si trattava evidentemente di una crudeltà inaudita, perché era come costringere una persona a farsi carico di tutto il lavoro ordinario per poi rimpiazzarla e metterla da parte nei momenti di maggiore visibilità.
Be’ insomma, considerando che si trattava di ragazzini meridionali, non era poi così crudele: meglio che si abituassero sin da giovani.
A furia di fucilate respinte con il muso, Cicciobello si era conquistato il diritto di restare in porta pure in caso di rigore, anche perché Beppe era sì un discreto centravanti ma in porta si scansava sempre per paura di rovinarsi il ciuffo. E quel diritto aveva aumentato esponenzialmente il numero di sbonnate, cioè di tiri violentissimi a cui era sottoposto il volenteroso ragazzone.

In particolare le quotazioni di Cicciobello salivano esponenzialmente in caso di partita sulla spiaggia. In questo caso infatti erano numerose le variabili che si volgevano a favore dei portieri in generale, e a favore suo in particolare. Intanto, non c’erano porte. La vis polemica che caratterizzava le partite di calcio di quel gruppo di quindicenni trovava allora terreno fertile, perché ci potevano volere anche delle ore e qualche rissa prima di stabilire se la palla si era infilata sotto l’angolino virtuale alla destra di Cicciobello oppure, in una simulazione fisica degna di un laboratorio del Cern, era rimbalzata sul palo interno modificando la traiettoria ed uscendo poi dalla linea di fondo. Tutto quello che c’era era un
pallone finito venti metri oltre ed una pantofola Champ conficcata nella sabbia che comunque dalla sua
posizione a testa in giù non sarebbe stata un testimone attendibile.
Se a decidere erano le risse,
Cicciobello, che per altro era buono come il pane, aveva una o due argomentazioni da far valere. Poi bisognava considerare che la sbonnata a piedi nudi aveva delle controindicazioni non da poco, come aveva imparato a sue spese Beppe che aveva smarrito più di un’unghia nel tentativo di riprodurre in riva allo Jonio le sue proverbiali puntazze. Ultimo argomento decisivo a favore di Cicciobello, il fatto che la soffice sabbia dorata di Castellaneta Marina era un letto di piume su cui lasciarsi andare dolcemente rispetto all’asfalto infame delle partire giocate giù alle palazzine dell’Italsider o ai sassolini infingardi che gli si conficcavano nelle costole quando si giocava nel campetto vicino alla ferrovia. Insomma, sulla spiaggia Cicciobello sapeva il fatto suo – anche se obiettivamente il boxer arancione con i girasoli gialli gli donava meno della divisa del Napoli – e le sue performance in riva al mare gli avevano permesso di conquistarsi un posto da titolare anche per la stagione invernale.
Il rigore che alle 19,42 fermò il cuore a Cicciobello era stato causato da Antonio Luccarelli, lo Scirea della squadra del palazzo, così chiamata perché si trattava di amici che abitavano nello stesso complesso di appartamenti. Avevano provato anche altri nomi, tra cui Palace’s Boys (che dava un tocco di internazionalità) e Spandau Ballet (che non dava una mazza ma avrebbe dovuto attirare le ragazze), ma alla fine era rimasta la squadra del palazzo. Antonio era un ragazzo piuttosto veloce, agile, che avrebbe potuto anche conquistarsi un certo successo in quelle partite pomeridiane se il suo gioco non fosse stato appesantito dal peggiore dei fardelli: la coscienza. Mentre gli altri infatti rincorrevano il pallone in mischie rugbistiche e si proponevano sempre e comunque come attaccanti, Antonio aveva coscienza, e rimaneva dietro a coprire, perché sapeva che in caso di contropiede il modulo 1-0-9 era comunque più affidabile dello 0-0-10. Perciò Antonio rimaneva nelle retrovie, lontano dall’azione, a ingoiare polvere e respingere pallonate, con l’aggravante che quando riusciva a conquistare il pallone veniva subissato dalle urla dei nove centravanti che chiedevano di essere messi nelle condizioni di segnare. L’unico dotato di un minimo di competenza tattica era Leo, l’intellettuale del gruppo, che in effetti copriva sempre a dovere il suo ruolo di centrocampista (avanzato, per carità), ma era talmente imbranato che non opponeva più resistenza della bandierina del calcio d’angolo.

La partita era una partita importante, la più classica delle sfide che agitavano la gioventù di Statte, provincia grigia di Taranto, alla fine degli anni ottanta, tra un attentato dinamitardo ed un avvertimento mafioso: ad affrontare la squadra del palazzo, figlia della piccola borghesia del centro, era la squadra della zona residenziale, figlia aristocratica di chi viveva nel verde in collina. Certo mancava il proletariato della squadra delle palazzine dell’Italsider, ma dai tempi della rivoluzione francese gli ultimi avevano delegato ad altri la propria rappresentanza. La squadra del palazzo, umiliata e sconfitta decine di volte da quella della zona, i cui componenti giocavano a tennis, facevano nuoto, avevano buoni voti e si scambiavano complimenti in inglese, incredibilmente era riuscita a portarsi in vantaggio alle 18,21 con un gol in mischia del solito Beppe, che era riuscito a infilare la sua punta miracolosa in una selva di gambe. Il che era inaudito per una squadra i cui componenti giocavano a ciclotappo sui marciapiedi, andavano a nuotare a Lido Gandoli senza pagare il biglietto dell’autobus e si scambiavano epiteti irripetibili in una lingua apparsa a Statte qualche secolo prima dell’italiano.

Quel gol bisogna difenderlo, però. I nove centravanti, consapevoli per una volta delle necessità della patria, avevano arretrato il loro raggio d’azione applicando la cosiddetta marcatura a donna: bisognava stare appiccati all’avversario come se fosse stato la più sinuosa delle donne, non dargli spazio, fargli sentire il fiato sul collo, ghermirlo senza ricorrere al fallo con l’unico intento di allontanare da Cicciobello quel maledetto pallone. Non era facile, anche perché le partite non avevano un tempo prestabilito, si giocava finché c’era luce, finché c’era fiato, finché le gambe reggevano.
Ma la squadra del palazzo ce l’aveva fatta, mostrando una compattezza e una coordinazione insolite, con quell’amalgama che nelle altre partite contro la squadra della zona residenziale aveva lasciato spazio a individualismi, incomprensioni e inevitabili sonore sconfitte. Ormai era quasi buio e per quanto fossero ben allenate anche le gambe slanciate dei ragazzi della zona cominciavano a perdere colpi. Beppe sentiva di aver compiuto a pieno il suo compito e disdegnava di tornare indietro a coprire, ogni volta che veniva sfiorato gridava e si lanciava per terra per prendere tempo, ma questa non era una novità: la novità fu che Stefano, lo spilungone che si faceva valere solo di testa e per l’uso sapiente dei gomiti, alle 19,39 decise di lanciarsi in un dribbling a testa bassa contro la difesa avversaria. Un raptus di follia come te ne capitano dopo aver corso tutto il pomeriggio in un campetto ricavato accanto alla
ferrovia, stando attento a non calciare la palla troppo a sinistra altrimenti finisce sui binari. Gli avversari non aspettavano di meglio: lo fermarono morbidamente con una padronanza che si era vista solo ai giocatori virtuali del Commodore 64, in due tocchi saltarono la metà campo e si lanciarono in due contro uno verso la porta dei ragazzi del palazzo.

Due contro uno, ma uno era Antonio Luccarelli, lo Scirea del palazzo, uno tosto, uno che non tornava mai a casa senza un corredo di tagli e sbucciature, uno che portava in campo l’autorità delle cicatrici sulle ginocchia. Antonio capì subito chi avrebbe tentato il tiro, gli si lanciò contro, scivolò in un tackle perfetto, sembrava un rasoio, che con una gamba ti ferma il pallone e con l’altra te lo porta via, il movimento fu eccezionale, ma quello non era San Siro, quelle non erano guance lisce, e così il polpaccio colpì una pietra e finì per intercettare anche le gambe dell’attaccante che alle 19,40 cadde gridando oh my god e rotolò come se l’avessero operato a freddo di appendicite. Seguì un silenzio di tomba, ma Cicciobello capì che era venuto il suo turno. Antonio infatti si rialzò con calma, tese una mano verso il ragazzo che era caduto, gli disse qualcosa di taumaturgico per cui questi smise improvvisamente di piangere e lamentarsi, poi alzò il braccio e indicò un punto di fronte a Cicciobello: è rigore. Nessuno osò opporsi. Se l’aveva detto Antonio, era rigore. Il miracolato aveva recuperato le forze, andò a sistemare il pallone con cura di fronte a Cicciobello. Prese una lunga rincorsa, e Cicciobello sentì il sangue che gli pulsava nelle tempie, l’odore dell’erba che si faceva più intenso, si asciugò il sudore dalla fronte e non si preoccupò del fatto che gli occhialini erano sporchi. Non era importante guardare la palla, adesso, l’importante era esserci, rischiare, decidere quale sarebbe stata la traiettoria del pallone e lanciarsi in quella direzione. Cicciobello era un rinoceronte, ma sapeva bene che il rinoceronte è un animale feroce, che dietro l’aspetto sornione nasconde una forza di volontà e dei muscoli possenti, un bestione grezzo che dentro sé vela l’eleganza di un unicorno. E volò, Cicciobello, si lanciò nell’aria, e capì che il pallone non avrebbe superato la linea di porta perché c’era lui, su quella linea, e l’avrebbe impedito ad ogni costo. La sbonnata colpì con violenza quel rinoceronte che si sentiva un unicorno, e gli fermò il cuore. Fu un attimo, impercettibile. Alle 19,42 e pochi secondi un angelo distratto si accorse che il suo custodito stava per ritornare a casa prima del previsto. Non poteva finire così, vabbe’ il libero arbitrio ma quella partita meritava un finale diverso. Qualcosa accadde perché alle 19,43 Cicciobello riaprì gli occhi, il petto ansimante, e vide tutti i suoi amici intorno a sé. Il suo sguardo incrociò subito quello di Antonio, che dopo essersi avventato sul pallone dopo la respinta di Cicciobello e averlo scaraventato via, aveva capito che qualcosa non andava.
Ma dopo qualche istante di smarrimento, il cuore di Cicciobello aveva ricominciato a macinare più forte che mai.
Le ombre lunghe della sera si adagiavano sull’orizzonte rossastro dell’Italsider. Il rinoceronte, almeno per quella calda sera di giugno, era stato il più leggiadro degli unicorni