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Burnout, di Massimo Fagnoni

Sembra una banalità da affermare, ma ci sono romanzi che solo gli autori che li hanno effettivamente realizzati avrebbero potuto scrivere. Cuore di tenebra non avrebbe provocato le stesse emozioni nel lettore se a scriverlo non fosse stato un autentico navigante come Joseph Conrad, che aveva avuto un’esperienza di anni prima nella marina francese e poi in quella britannica. E chi se non Ernest Hemingway avrebbe potuto raccontare in Fiesta i giorni decadenti e frenetici di un gruppo di americani residenti a Parigi e in vacanza a Pamplona, negli anni del primo dopoguerra?

Ebbene, Burnout è un romanzo che solo Massimo Fagnoni avrebbe potuto scrivere. E non banalmente per una questione biografica, ma perché certi sentimenti, certe situazioni, certe atmosfere, per quanto tu possa essere bravo, non riesci a ricrearle con onestà se non le hai vissute in prima persona, sulla tua pelle.

Facciamo però un passo indietro: si definisce sindrome da burnout (e dà il nome al romanzo edito da Minerva) una condizione di stress cronico e persistente, associata al contesto lavorativo. Tutte le professioni provocano un certo livello di stress, ma è di tutta evidenza che ce ne siano alcune che, per la loro stessa missione di farsi carico dei problemi degli altri, sono più soggette a provocare un sovraffaticamento di carattere emotivo. Medici, infermieri, insegnanti, educatori. Si tratta insomma di una forma di esaurimento nervoso causato da un lavoro che ti assorbe totalmente fino, letteralmente, a bruciarti.

Ebbene, intorno a questa condizione si sviluppa la vicenda raccontata da Fagnoni che, come ha spesso raccontato lui stesso in prima persona, ha per anni ricoperto il ruolo di educatore professionale presso il Comune di Bologna, fino a che non si è reso conto che quella strada poteva condurlo a un tunnel senza uscita, e ha dato coraggiosamente una svolta alla sua vita professionale ricominciando da capo come agente di polizia municipale.

Perché gli educatori sono spesso mandati allo sbaraglio a combattere una guerra per la quale non sono ben equipaggiati, senza gli strumenti adeguati, senza le esperienze e talvolta anche le competenze necessarie.

Anche nella storia in questione abbiamo un agente di polizia municipale, anche in questo caso è un ex educatore, poi evidentemente la biografia lascia spazio alla fantasia e parte una vicenda molto cupa, intricata e crudele. In cui emergono soprattutto i meccanismi umani, professionali, burocratici di un ambiente lavorativo complesso e difficile da comprendere per chi non l’ha conosciuto in prima persona. Il protagonista è il ruvido maresciallo Greco, qui alla sua quarta indagine per mano di Fagnoni, sullo sfondo una Bologna impassibile e forse anche disattenta.

Se però vi aspettate un giallo classico in cui muore un vecchio antipatico e l’investigatore alla fine mette all’angolo il nipote che l’ha ucciso per l’eredità, tra battutine e nonsense, allora lasciate perdere. Questa storia trasuda malessere, disagio, dolore. Autenticità, perché le malattie psichiche possono trasfigurarci, far emergere il nostro lato più incontrollabile  e bestiale. Perché in fondo, secondo alcuni, dietro la definizione di alcune malattie mentali si nasconde l’incapacità della nostra società di tollerare la malvagità umana anche da parte di chi si professa sano.

Trappola d’ardesia, di Roberta De Tomi

Trappola d’ardesia, quinto romanzo (credo ma non vorrei sbagliare) di Roberta De Tomi, è prima di tutto una intensa storia d’amore. Ma non fraintendetemi, se state pensando a quelle vicende in cui una occhialuta segretaria timida si innamora del muscoloso fattorino, che alla fine della storia si rivela essere un ricchissimo archeologo e la porta con sé in giro per il mondo, siete fuori strada. Anzi, forse sarebbe più corretto scrivere che il romanzo è una storia d’amori, amori passionali, amori fugaci, amori di una notte e via, ma anche amori difficili tra fratello e sorella e tra padre e figlia. L’amore come sentimento spesso dissimulato, apparentemente denigrato, disprezzato, eppure fondamentalmente ricercato. La bravura con cui l’autrice modenese delinea i rapporti umani sta proprio nel non detto, nei gesti appena accennati, nei silenzi, negli sguardi che frugano, sostengono, si perdono.

Da un punto di vista prettamente narrativo alla storia non mancano tutti gli elementi del thriller: c’è una ragazza in stato confusionale ai bordi della strada, una anonima commessa di provincia che la accoglie in auto, e da lì una serie di avvenimenti e colpi di scena che coinvolgono il lettore fino a spingerlo a prendere le parti di questo o di quell’altro interprete. Sullo sfondo della bassa emiliana si delineano le figure talvolta approfondite, talvolta appena accennate di coniugi che tradiscono, drogati di lavoro, giornalisti indipendenti, genitori incapaci di essere padri, ispettori e giovani in cerca di emozioni.

Alla fine in questo affresco variopinto non ci sono buoni e cattivi, ma solo persone alla disperata ricerca del loro posto nel mondo. E una scrittrice che vorrebbe tanto essere cattiva ma non ci riesce e alla fine dimostra di credere all’amore – in tutte le sue forme: fraterno, sensuale, profondo – più dei suoi stessi personaggi. 

Piccola nota per i lettori maschi: descrivendo uno dei protagonisti che apre la porta a una ospite, De Tomi scrive:

“Nel presentarsi, ricorda di avere un pessimo aspetto. Barba di quattro giorni, pantaloncini a metà gamba,  una maglietta con una scritta sbiadita al centro, buchi sparsi qua e là. Della serie, come far scappare una  donna”.

Ricordatevene nelle vostre scelte d’abbigliamento, anche se pure su questo punto il romanzo riserva delle sorprese.

Trappola d’ardesia è edito da Delos Crime e si trova in formato digitale su tutti i principali negozi online.

I Cavalieri di Castelcorvo, la recensione: apri tutto, Biascica!

Sono un grande tifoso del cinema italiano. Non appassionato, non estimatore, ma tifoso: nel senso che davvero faccio il tifo per gli italiani e sono contento quando hanno successo. Il tifo non è figlio di competenza, conoscenza o valutazione razionale, ha più a che fare con la fede, ed è proprio questo il mio sentimento nei confronti delle produzioni italiane. Io spero sempre che abbiano successo, anche perché generano ricchezza culturale e non solo, danno lavoro, ricordano al mondo che esistiamo anche noi e non solo i produttori hollywoodiani.
E però.
Però il tifo porta spesso a delusioni (parlo io che da oltre trent’anni seguo il Taranto), il tifoso deluso, ahimè, sa essere crudele.

Questa premessa credo fosse necessaria per comprendere il mio stato d’animo di fronte a “I cavalieri di Castelcorvo“, prima serie Disney prodotta in Italia per la sua piattaforma. Non un documentario, non una commedia, non insomma quei prodotti in cui abbiamo un certo saper fare, ma addirittura una serie fantasy per bambini. Sono un tifoso, l’ho detto, e per cui anticipo subito: guardate questa serie. Abbiamo bisogno di riscoprire prodotti seriali italiani, bisogna che Disney si convinca che vale la pena farne. Se proprio non ce la fate, avviatela e poi andate in un’altra stanza a guardare Netflix.

Scherzi a parte, se avete bambini tra i 3 e i 10 anni, tra una puntata di Peppa Pig e la saga di Poco-Yo, potranno divertirsi. Lasciateli stare invece se sono un po’ più grandi, gli adolescenti sono spietati e la distruggerebbero. E ne avrebbero i motivi, come spiegherò nel corso di questa recensione, che ho deciso di dividere in parti, partendo da quelle più riuscite a quelle meno.

Ambientazione: 10. W l’Italia!
Niente da fare, su questo fronte non ci batte nessuno. Torre Alfina, il paese dove è stata girata la serie, è un posto bellissimo, e si vede, come anche Formello e i dintorni. Probabilmente è l’unico punto sul quale la serie vince sulla concorrenza straniera, sono un po’ mesto a dirlo, ma la buona notizia è che in Italia di posti così ce ne sono tanti che aspettano solo di essere valorizzati

Effetti speciali 8. Si fa quel che si può
Mia figlia ha più volte ripetuto che la sigla è la cosa più bella della serie (e so quello che state pensando, chissà da chi avrà preso). Anche le animazioni del gioco da tavolo sono carine. Per il resto, gli effetti sono usati con morigeratezza, ma insomma, non è un male. Se non hai Carlo Rambaldi, non improvvisare.

Soggetto: 7. Minestrone digeribile, ma a senso unico
La storia dei cavalieri di Castelcorvo richiede una forte sospensione della credulità negli spettatori più smaliziati, ma abbiamo già detto che non sono loro il pubblico di riferimento. Quattro bambini si trovano alle prese con un gioco enigmatico, una porta misteriosa e due anziane misteriose. Man mano che gli episodi si snodano acquisiranno sempre maggiori informazioni fino alla risoluzione dell’enigma. Una favoletta semplice, ma tutto sommato funziona. Gli autori attingono a piene mani dai classici del genere, da Narnia (la porta) a Jumanjii (il gioco da tavolo) dai Goonies (le dinamiche tra il gruppo di bambini), fino al più recente Strangers Thing (l’Altrove, le bici, i bulli). E potrei andare avanti. Il problema però è che se c’è una trama principale, non c’è traccia di sottotrame. Non sappiamo nulla dei genitori dei bambini, che fanno pochissime comparsate ininfluenti. La zia è poco più che un cartonato, sappiamo che vorrebbe innovare il bed & breakfast, ma il suo personaggio non ha alcuna psicologia. Qui la storia del pubblico non fa presa, se c’è qualcosa che ci hanno insegnato Disney, Pixar, Dreamworks e compagnia bella è che un programma per bambini non necessariamente è un programma “solo” per bambini. Persino in Peppa Pig i personaggi comprimari hanno maggiore spessore, e questo, come vedremo, ha effetto anche sul resto delle scelte produttive.

Casting: 4. Chi vuol fare l’attore alzi la mano. Tu, tu e tu.
Siccome i protagonisti sono tutti minorenni, non mi sembra il caso riportare i commenti che a volte ho gridato contro lo schermo a corollario della loro interpretazione. Diciamo che le ragazzine se la cavano, e anche Matteo, che interpreta il personaggio tante volte visto sullo schermo dello “sfigato” schernito e solitario che però ha un cuore grande, nella maggior parte delle scene esce a testa alta. Per gli altri, consiglio tanta, tanta, tanta scuola di recitazione. Oppure fare altro, studiare, andare in bici, giocare a calcio. Al limite andare al cinema, non farlo, che non è il caso di ripetersi. Il livello è davvero da recita parrocchiale, anche se ne ho viste di interpretate con più pathos. Hanno le stesse espressioni di emoticon: sorridente, triste, sorpreso. Basito. Ma la colpa non può essere dei bambini, ma di chi li ha scelti, e soprattutto di chi li ha diretti. Il vero dramma del casting però non è legato agli attori principali, e nemmeno ai comprimari (pochi e senza particolare spessore, come anticipato). Il guaio, e qui anticipo quella che potrebbe essere una chiave di lettura di tutta la serie, il budget limitato, è che mancano le comparse! Castelcorvo è un paese letteralmente deserto che neanche Bologna a Ferragosto. Sembra un cupo presagio del lock-down da cui sono esclusi solo una decina di interpreti. Pur essendo la storia ambientata in estate (due dei bambini sono “cittadini” in vacanza, ma il tema delle diverse culture è accennato sommariamente, purtroppo), non c’è mai nessuno per strada. Io lo capisco che non hai soldi per gli effetti speciali, ma cavolo, possibile che in 15 episodi le comparse saranno 3 in tutto? Passi il bosco e l’Altrove, ma una piazzetta non può essere perennemente deserta. Spero che su questo i produttori riflettano. Possiamo accettare che una porta conduca in un’altra dimensione, ma che in un paese estivo non ci siano né auto né pedoni, né negozi, né lavori pubblici né umarell che guardano i lavori pubblici no, a meno che non sia un film distopico post-nucleare.

Sceneggiatura: 4
I testi purtroppo sono così così. Non ci sono battute di spirito che si ricordino, e dire che il pubblico di bambini ha dimostrato da tempo di avere senso dell’umorismo e di apprezzarlo. Nulla anche sul fronte delle frasi di impatto, quelle americanate insomma alla “se io posso cambiare, e voi potete cambiare, allora tutto il mondo può cambiare”. Non solo, gli spiegoni abbondano, quasi che la serie voglia tranquillizzare il nonno con l’Alzehimer che la segue con il nipote. Per non parlare delle frasi pseudo-performative, in cui i ragazzi anticipano quello che faranno “dobbiamo andare nell’altrove e trovare il modo di liberare il fratello di Betta!”, caso mai che qualcuno non lo avesse già capito.

Fotografia: 3. Apri tutto, Biascica!
Questo purtroppo è il tasto più dolente. In Castelcorvo tutto succede in piena luce. Gli interni stile Ikea sono illuminati tipo mobilificio, fari ovunque. Le scene all’esterno sono tutte girate alle dieci del mattino di giorni sereni o giù di lì. Mai un tramonto, mai un’ombra che dia profondità a un viso, e dire che sei in un centro medievale! Non dico una scena con la pioggia, che pure in un fantasy ci starebbe, costa troppo, ma cavolo, devi proprio smarmellare sempre tutto? E l’inquadratura? Qui non è questione di soldi. Usare un grandangolo ogni tanto non costa nulla. Dare profondità di campo, nemmeno. In alcuni momenti le scene sembrano girate con quegli smartphone che mettono sempre tutto perfettamente a fuoco. Mai un controcampo, mai una soggettiva. Quando si vuole denigrare una fotografia piatta si dice che è televisiva. Ma magari! Qui siamo ai livelli degli spot degli stabilimenti balneari sui siti degli hotel per famiglia. In confronto anche lo spot del Mulino Bianco sempre girato da Storaro. Forza ragazzi, forza! Io faccio il tifo per voi ma voi una volta muovetela sta cinepresa.

Regia: 5. Metti il pilota automatico e andiamo a farci un panino, va.
Il collegamento in questo caso al passaggio precedente è evidente. Ora, io non credo che il regista di questo programma volesse davvero realizzare un prodotto così piatto: temo sia stata semmai una scelta produttiva. Perciò ai produttori dico: osate di più! Senza scadere nello sperimentale spinto, una carrellata, una panoramica ogni tanto ci può stare. I bambini sono abituati a prodotti sofisticati. Purtroppo di tutto ciò non c’è traccia. Ogni episodio ci tocca l’inquadratura del paese dal drone tipo Sereno Variabile, e va bene, ma perché poi questo drone non lo usate più? Perché non far seguire i ragazzi dall’alto durante una scena di inseguimento? Perché non osare una soggettiva in volo del corvo, uno dei protagonisti più espressivi della serie? Non occorre imitare Quarantino, basta puntare a Joe Dante.

E insomma, eccoci alla fine. Cari produttori dei Cavalieri di castelcorvo, riprovateci. Con un po’ più di coraggio magari. I nostri bambini hanno compreso benissimo le intricatissime vicende del Marvel Universe, comprendono anche una serie in cui non si spiega tutto ogni quattro minuti. E fate fare al regista il suo lavoro, ci sono impianti di videosorveglianza che dimostrano più fantasia.

L’isola delle rose di Netfilx: anche meno, grazie

Anche meno.
Questa è, in estrema sintesi, l’impressione che ho avuto guardando “L’incredibile storia dell’isola delle Rose” di Sidney Sibilia. Perché il regista sa come muovere la macchina da presa, ha un particolare gusto per la messa in scena corale, si trova particolarmente a suo agio nella satira politica, ma non è che se la produzione ti mette a disposizione dolly, drone, carrelli e chi più ne ha più ne metta devi per forza usarli tutti. E poi va bene giocare con la messa fuoco e il piano sequenza ma se non sei Hitchock non esagerare.

Il giochino della battuta arguta seguita da dolly, campo lungo e musica pop dell’epoca funziona bene, ma se lo ripeti di continuo fai come il prestigiatore che a furia di ripetere il numero fa scoprire il trucco.

Ora, immagino che la storia la sappiate già, è quella che dà origine a un soggetto strepitoso e una sceneggiatura brillante che in più di un occasione strappa la risata: un imprenditore bolognese Giorgio Rosa negli anni sessanta realizzò una piattaforma al largo di Rimini, che finì per autoproclamarsi una micronazione, dandosi un governo e una moneta. La costruzione durò una decina d’anni e seguì tutti gli iter burocratici del caso (non è che puoi far galleggiare dei piloni d’acciaio alti centinaia di metri e portarli al largo con una barchetta senza che nessuno se ne accorga, come succede nel film).

La sceneggiatura, va detto, si prende parecchie libertà. Giorgio non  costruì la piattaforma per amore, perché non era un giovane neolaureato quando la progettò, ma un 43 enne, già insieme alla donna della sua vita. E se non fu un fascista, come all’epoca si catalogava chiunque non fosse di sinistra, certo non fu neanche un anarchico come in alcuni momenti viene tratteggiato nel film (da giovane aderì alla RSI e in vita dichiarò di aver votato due volte, per Berlusconi e per Guazzaloca)

Era un ingegnere borghese e per capirlo bisogna guardare al contesto romagnolo degli anni sessanta, quello della voglia di fare, dell’edilizia rampante, del grattacielo e di Fiabilandia, la Disneyland italiana. Dove c’è libertà c’è ricchezza, diceva furbescamente Rosa, pensando più a San Marino che a una comune hippie. La sua piattaforma, raccontata nella pellicola come crocevia di ultimi ed emarginati, era fondamentalmente un enorme abuso edilizio dove lui voleva far soldi con il turismo e senza burocrazia (ovvero senza tasse). 

Tuttavia, in un film che è fondamentalmente un inno al non rispetto delle regole (che mette i brividi nel contesto attuale di rifiuto dello stato inteso come collettività, in nome di individualismo esasperato), era difficile immaginare che gli sceneggiatori rispettassero le regole della storiografia. E in fondo non me la sento neanche di gridare allo scandalo,  visto che i maneggiamenti sono funzionali alla storia che raccontano e visto che ci sono inserti (come la lezione universitaria diritto positivo e diritto naturale) che in qualche modo cercano di bilanciare la situazione.

In conclusione, un film piacevole, con attori secondari formidabili (Luca Zingaretti, Fabrizio Bentivoglio, François Cluzet), un paio di scene molto divertenti (su tutte quella sulla lettura dei giornali e quindi della società contemporanea da parte del Vaticano) un regista bravo che ci tiene troppo a farlo notare. Tante belle scene madri non fanno un bel film, che di scena madre ne sopporta, appunto, una. Bene, ma speravo meglio.

PS Ma perché gli attori romani devono fare i genovesi, i pugliesi, i siciliani, adesso anche i bolognesi? Davvero è così difficile trovare attori non romani che non scadano nella macchietta quando cercano di dare un accento regionale?

 

Il nano rapito, di Lorena Lusetti

Il “Nano rapito” è la quinta avventura di Stella Spada, un’investigatrice privata il cui nome è tutto un programma. Se infatti è in parte una Stella, cioè una persona buona, altruista, persino luminosa, in parte però rimane spada, cioè vendicatrice, violenta e priva di scrupoli. Un connubio insolito per un personaggio femminile cinico, che sembra trascinarsi in una vita che non le appartiene ma all’interno della quale si affanna alla ricerca di una precisa collocazione.

Per chi non avesse letto gli altri romanzi della serie, occorre dire almeno che Stella arriva a questa professione quasi per caso, dopo aver perso il più tranquillo impiego di segretaria che l’aveva occupata in precedenza. E seppur priva di una formazione specifica, la protagonista di queste vicende dimostra di avere una tecnica infallibile e soprattutto una tenacia e un coraggio che la distinguono da certi cliché della narrativa poliziesca, in cui le donne sono dipinte troppo spesso come vittime indifese.

L’autrice Lorena Lusetti scrive in prima persona, per cui il mondo che vediamo è il mondo filtrato dagli occhi di Stella, una donna che come tanti bolognesi ama a tal punto la sua città da soffrire l’allontanamento, anche per pochi giorni. In questi caso il presunto omicidio su cui Stella è chiamata a investigare è a Badi, sul lago di Suviana, incantevole angolo dell’Appennino bolognese. Quando gli incidenti che colpiscono la famiglia Doria con annegamenti nel lago cominciano a ripetersi, il dubbio che dietro ci sia la mano umana si fa consistente.

“Il nano rapito” è una commedia nera riuscita soprattutto nella descrizione della famiglia di parenti serpenti, uno dei capisaldi della letteratura e del cinema italiano che l’autrice rinnova con invenzioni e richiami che per un attimo ci danno l’impressione di non essere a un’ora da Bologna ma magari sulle rive del lago di Lochness, o a Cabot Cove. Intorno alla protagonista si muovono un serie di personaggi che con tempi quasi teatrali entrano, affiancano la protagonista  e poi lasciano la scena.

Altra peculiarità molto moderna dell’autrice è quella di intrecciare la vicenda principale con storie secondarie, subplot che agevolano il ritmo narrativo. Il nano rapito del titolo è infatti il protagonista di una di queste indagini “minori”, cioè il nano Orfeo che qualcuno ha fatto sparire dall’aiuola della Arena Orfeonica.

Come spesso nella serie di Stella Spada (che magari, dopo aver letto questo romanzo, qualcuno potrebbe aver voglia di approfondire) ci sono poi personaggi minori interessanti, alcuni stabili, come l’ex-marito e l figlio di Stella, altri di cui non sappiamo se vale la pena affezionarci, come il nuovo assistente Giacomo. Chissà se sopravviverà a lungo accanto a una donna così pericolosa? Lo scopriremo nelle prossime avventure dell’investigatrice,

Ad ogni costo, di Cristina Orlandi

Le storie che racconta in questo romanzo sono brutte, molto brutte. Ma vanno narrate, anzi farlo è quasi un dovere per chi si sente in grado di portare questa responsabilità, perché sono storie vere o comunque verosimili.

Cristina Orlandi infatti ci racconta di donne vittime di violenza, e lo fa sulla base di quello che le hanno confidato alcune donne che sono riuscite a liberarsi dalla violenza assassina dei loro compagni prima che fosse troppo tardi. Grazie anche al meritevole e prezioso lavoro della Casa delle donne per non subire violenza onlus, associazione che in quasi trent’anni a Bologna ha accolto e sostenuto oltre 12 mila donne e i loro figli.

Donne come Serena, proveniente già da un ambiente familiare difficile, fuggita di casa in cerca di un futuro migliore per finire invece tra le braccia di un principe azzurro che si rivelerà il più spietato degli orchi. L’autrice non giudica, non punta il dito, non indulge in particolari raccapriccianti, ma la sua prosa pacata riesce comunque a scuotere e impressionare il lettore.

Perché storie come quella di Elisa, convinta dal suo “ragazzo” a prostituirsi e poi minacciata, sono storie che potrebbero capitare anche a persone a noi vicine. Che capitano, anzi, e frequentemente, come la cronaca quotidiana ci mostra. E l’aspetto più toccante è che queste donne finiscono spesso per sentirsi in colpa, quasi che la violenza che subiscono sia giustificata, sia la conseguenza di un loro cattivo comportamento.

L’immagine più bella però che questo romanzo ci lascia è quello di Serena che affronta l’inverno bolognese con un paio di scarpe estive di tela, perché le sono rimaste solo quelle: il compagno violento l’ha privata di tutto. Ma non della libertà e dell’amore di suo figlio.

Ad ogni costo, di Cristina Orlandi, Edizioni del loggione. Pag. 146, 12 euro.

PS Il titolo in realtà è A ogni costo, senza di eufonica. Quella l’ho aggiunta io (ghigno)