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L’ombra della stella, di Lorena Lusetti

La copertina del libro
La copertina del libro

La colpa di principale di Lorena Lusetti, l’autrice de “L’ombra della stella”, è di chiamarsi Lorena Lusetti e ambientare i suoi romanzi in Emilia. Se si chiamasse, per dire, Melissa Writerspoon o Caroline Megarath (due nomi che mi sono inventato al momento e spero non esistano davvero) probabilmente avrebbe maggior successo.
Si perché se esistesse un “The star shadow” di qualche autore americano ambientato a Spanish Harlem sarebbe sicuramente un best seller. Ma magari lo sarà comunque, perché questo romanzo noir si muove rispettando i canoni del genere ma stupisce il lettore non tanto con i colpi di scena che pure ci sono quanto con le pennellate di vita quotidiana e familiare che meno di frequente sono abituati a conoscere i lettori delle storie di Marlowe. Con la protagonista, provetta investigatrice privata, che si deve destreggiare da sfruttatori di prostitute, figli che non mangiano la pizza scongelata e tranquille carriere aziendali improvvisamente troncate.
Il contesto sociale disgregato e cupo occupa spazi importanti nella storia raccontando una Bologna grigia e degradata, terribilmente vera. E non è che la provincia se la passi meglio. Nella scena a mio modo di vedere di maggiore impatto del romanzo per pathos e caratterizzazione drammatica alla protagonista che chiede disperatamente aiuto e un telefono in una periferia anonima e nebbiosa rispondono gettando delle monetine dalla finestra.
A questo, siamo arrivati? Forse anche peggio.
Ma non saprete altro da me, se volete scoprirne di più dovrete leggere “L’Ombra della Stella” di Lorenza Lusetti, edito da Damster. Fortemente sconsigliato agli onesti padri di famiglia magari un po’ ansiosi.

Chardin, il pittore del silenzio

Siete stufi di scarabocchi, intricati puzzle geometrici, macchie irregolari di pittura?
Non ne potete più di fingervi ammirati di fronte a tele squarciate, opere di cui non si distingue l’alto dal basso o fatte di avanzi di spazzatura, perché se non ammirate vuol dire che non capite la sofisticata arte concettuale che va oltre il figurativo?

Immagine tratta da Wikimedia

Allora questa mostra fa per voi: “Chardin, il pittore del silenzio”. Al Palazzo dei Diamanti di Ferrara dal 17 ottobre fino al 30 gennaio, orario continuato 9-19 tutti i giorni- Vedrete quadri che emozionano, raccontano storie, ritagliano momenti di un’intimità dimenticata, aprono la porta a ricordi o sensazioni dimenticate. Quadri belli, insomma.
D’altronde Siméon Chardin diceva che non si dipinge con i colori, si dipinge con il sentimento. Ebbe il coraggio di rifiutare i dipinti maggiormente in voga nella Francia dei suoi tempi, quelli a tema storico o mitologico, scegliendo il genere “minore” delle nature morte. Che in realtà sono vivissime e sembrano lì a portata di mano, con quella magia della pittura ad olio così realista da sembrare vera ma carica di un punto di vista e di un’atmosfera che la piattezza della fotografia, per esempio, raramente può raggiungere. Ma oltre alle nature morte in mostra è possibile ammirare scene di interni, la quotidianità di persone comuni o rampolli borghesi colti nella vita di tutti i giorni. Opere talmente attuali e moderne perché la perferzione dell’equilibrio tra rappresentazione della realtà e forma genera il bello, e il bello non ha tempo.
Prima o poi vi toccherà accompagnare qualcuno ad osservare chiodi nel muro e linee sghembe: rifatevi gli occhi con Chardin con il quale riuscirete a sopportare i momenti più difficili di certa “arte” contemporanea.

La città di cemento, di Roberto Valentini

L’immaginario italiano non è mai stato troppo affettuoso nei confronti dei giornalisti, e di consequenza nemmeno le sue declinazioni artistiche quali letteratura o cinema.
Raccomandati, infidi, presuntuosi, corrotti, i giornalisti italiani difficilmente sono rappresentati con intorno a sé quell’aura di eroi civili che invece caratterizza, per esempio, i reporter d’assalto statunitensi. Giusto o sbagliato che sia questo modo di trattare la categoria, Carlo Castelli, l’eroe protagonista dw "La città di cemento", sicuramente ci rende più simpatici gli operatori della carta stampata.
 Dotato del fiuto del detective tipico dei protagonisti della letteratura mistery, ha anche l’idealismo di chi ha rinunciato alla carriera perché non disposto a compromessi e il coraggio di chi è pronto a mettersi in gioco pur di inseguire i percorsi della verità. Certo non è proprio un precario pagato a battute il nostro Castelli, ha una moto sportiva e beve vini di qualità, ma ciò nonostante il lettore non tarderà ad affezionarsi a lui soprattutto perché intorno a lui ci sono altri personaggi che contribuiscono, per contrasto, a delinearne il carattere: il collega con il quale scopre il potere di Internet e dei blog, il direttore del giornale ormai abituato a pensare più ai pubblicitari che ai lettori, i familiari che rimangono sullo sfondo ma la cui presenza è viva nelle scelte del protagonista.
Come per tutti i romanzi gialli non è il caso di raccontare la storia nei dettagli, diciamo solo che siamo a Sassuolo e che lo sfondo è quello degli investimenti immobiliari e delle abitazioni con finiture signorili che stanno invadendo l’Italia con effetti non sempre piacevoli. Mondo che l’autore descrive con la precisione e l’acutezza di chi sa di cosa sta parlando.
Nota di chisura: mangiare salsiccia e culatello costerà un po’più di fatica dopo aver letto questo romanzo…

Cado dalle nubi

Uno dei principali errori che molti comici commettono quando provano la strada del cinema è che anziché "tradurre" le gag in un linguaggio diverso, come quello cinematografico, le "travasano", cioè le spostano sperando che il successo sia lo stesso. Se le battute sono talmente tante e talmente buone da poter reggere un’ora e mezza, il trucco può funzionare: si pensi a "Tre uomini e una gamba" di Aldo, Giovanni e Giacomo. Altrimenti la noia finisce per prevalere anche per gli attori migliori (eravamo in quattro in sala a vedere "Uomo di acqua dolce di Antonio Albanese, e ancora ce ne pentiamo).
"Cado dalla nubi" è un film riuscito perché certo, Checcho canta un paio di volte e il suo personaggio è coerente a quello televisivo: ma l’operazione di traduzione, che è un adattamento, c’è eccome. Intanto sono smussati gli angoli, eliminati i riferimenti sessuali un po’ troppo espliciti che possono funzionare su YouTube ma al cinema allontanano le famiglie.
Poi intorno a Checco ci sono tanti personaggi che in alcuni casi gli reggono la scena (come l’indimenticabile zio muratore), in altri quasi gliela rubano, come nel caso di Dino Abbrescia, che pur non rinunciando ad alcuni tratti macchiettistici traccia un personaggio omossessuale credibile e simpatico. Oppure come Marescotti, che finalmente riesce a prendere in giro la casta pura dei leghisti, o ancora un insolito Raul Cremona. Il tutto dà respiro e libera da quel senso di noia tipico dei film in cui il protagonista è sempre in scena. Certo alcune scene sono già viste (chi ricorda Mister Crocodile Dundee che in bagno confonde la cocaina con l’eucalipto, mentre per Checco è gesso? Per non parlare dell’ampolla del Po…) ma il film fa ridere soprattutto quando è "politicamente scorretto" con moderazione (la canzone nel club gay oppure la scena in parrocchia con i ragazzini provenienti da famiglie difficili). Anche la regia aiuta: senza strafare, Nunziante rende Polignano a Mare e Milano due contesti che "partecipano" alla storia. Un po’ da cartolina forse, ma si sa che le film commission pagano se fanno bella figura, per cui pazienza se Milano sembra un villaggio maremmano e la Puglia è sempre (e solo) sole, mare ed orecchiette.
Da vedere.

L’ottava vibrazione, di Carlo Lucarelli

La guerra è brutta e in Africa si suda.
L’ottava vibrazione di Lucarelli è un romanzo storico che colpisce per la cura dei dettagli e l’evidente lavoro di documentazione che l’autore ha compiuto per portare alla luce un affresco corale su un periodo difficile per la storia italiana e colpevolmente trascurato, quello delle campagne d’Africa. Una serie di vicende si intrecciano e contibuiscono a rendere bene il contesto: c’è il contadino meridionale e sempliciotto, l’anarchico che non avrebbe voluto partire, c’è l’aristocrazia annoiata che aspetta di vedere cosa accadrà di questo impero coloniale, ci sono affari sentimentali e anche l’immancabile trama a sfondo giallo, forse una delle più consistenti del romanzo.
Ci sono un paio di scene madri che farebbero la fortuna di una trasposizione cinematografica (la gita in barca, l’insolito uso botanico dell’elmetto, la battaglia finale).
Eppure… eppure qualcosa nell’amalgama non funziona.
Prima di tutto perché Lucarelli osa parecchio sul piano stilistico passando continuamente dalla narrazione al passato al presente: espediente che può rendere immediata la storia e avvolgere il lettore nei fatti, ma che se eccessivo porta ad un senso di straniamento, all’interruzione di quella sospensione dell’incredulità che è necessaria per entrare in una storia senza avere l’impressione, appunto, di stare leggendo. Poi perché l’obiettivo di evitare ogni retorica è apprezzabile, ma rende talmente orribile e osceno il comportamento di buona parte dell’umanità descritta che in alcuni tratti si fa fatica a procedere nella lettura, tanto è il senso di disgusto. Infine, alcuni passaggi – per esempio le pedanti descrizioni glottologiche del diverso modo di parlare l’italiano dei militari, oppure i continui riferimenti al caldo dell’Etiopia – finiscono per rendere lo svolgimento un tantino farraginoso.
E alla fine si resta con l’impressione di aver capito che la guerra è brutta e che in Africa si suda: un po’ poco per un grande scrittore come Lucarelli dal quale era lecito aspettarsi un po’ di più.

Il club di Jane Austen

Ecco un film che con ogni probabilità piacerà al pubblico femminile: un gruppo composto da cinque donne e un uomo forma un circolo letterario per discutere dei romanzi della Austen.
Alcune sono amiche da tempo, altri si sono aggiunti, ognuno porta con sè il suo bagaglio di problemi: la giovane lesbica che si lancia in amori sfortunati, la pluri-sposata, la madre di famiglia che si scopre tradita dopo anni di matrimonio. Cosa c’è di femminile in tutto ciò?
C’è una cura esasperata dei dialoghi, a volte a dire il vero un po’ teatrali, l’attenzione e il rispetto per i sentimenti dei personaggi – a dire il vero all’inizio un po’ troppo stereotipati – e soprattutto l’assoluta assenza di azione. Uno non può aspettarsi una sparatoria o un inseguimento in un film come questo: ma almeno una bella scena d’esterni, una panoramica cittadina, un campo lungo al tramonto.
Niente di tutto questo, siamo di fronte ad un audio-libro al quale sono state aggiunte le immagini. Un’ultima nota struggente: ma ve lo immaginate in Italia un gruppo di amici (o amiche) che si incontra per discutere di letteratura? Un gruppo in cui ognuno si fa carico di leggere un libro e di discuterne con gli altri una volta al mese?
Altro che commedia sentimentale, sarebbe fantascienza…