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10.000 a.C.

Ecco un film che non dovete assolutamente perdervi, forse il più divertente dell’anno. Il consiglio sincero però è quello di vederlo con amici o conoscenti, perché avrete bisogno di qualcuno che testimoni che ciò che state vedendo è vero e non il frutto di allucinazioni.
Ho riso per due ore fino alle lacrime, ma purtroppo per gli autori, questo non vorrebbe essere un film comico. Dovrebbe raccontare le leggendarie gesta di un popolo di rasta giamaicani che vivono in una specie di Groenlandia fatta di fondi del desktop (forse il Kilimangiaro, ma se vi state ponendo queste domande non avete capito che genere di film vi aspetta) diecimila anni avanti Cristo. Ovviamente esistono mammuth e altre specie che secondo gli scienziati si sarebbero estinte qualche decina di migliaia di anni prima, ma questi sono dettagli. Il popolo fricchettone – la cui tecnologia non ha conosciuto n’è l’età del bronzo nè quella del ferro e arriva a qualche lancia di osso e qualche corda – è costretto a lasciare il suo paese per seguire dei predoni che li condurranno in Egitto.
Qui gli sceneggiatori osano l’impensabile perchè arrivano a mostrarci mammuth guidati da uomini che trascinano i massi ecessari a costruire le piramidi sotto l’occhio vigile di un re extraterrestre.
Aggiungete alla storia una voce fuori campo tronfia e alcuni momenti letteralmente indimenticabili come quando l’eroe uccide un mammuth perché la bestia inciampando si conficca da sola la lancia in petto (nessun dubbio che si siano estinti se erano così stupidi) e avrete il fim più demenziale, stralunato e delirante degli ultimi dieci anni. Non occorre essere degli storici o degli antropologi per rimanere allucinati dalla faccia tosta con cui gli autori stravolgono le nostre conoscenze (ma in fondo è una favola e va presa come tale, con la stessa accuratezza scientifica di Cappuccetto Rosso). Ma non occorre nemmeno aver studiato semiologia del cinema per rendersi conto che chiamare il grande capo, il guerriero a cui tutti fanno riferimento “Tic Tic” è veramente masochistico, così come avere un personaggio che si chiama Pago che va in giro ripetendo “Io Pago… Io Pago” dimostra che anche i curatori della versione italiana non hanno un master alla Sorbona. Oppure ce l’hanno e ci stanno prendendo per i fondelli. In ogni caso, aspetto il sequel in cui mi aspetto la comparsa di Zorro tra i Babilonesi e la lotta dei gladiatori nel Colosseo contro i dinosauri.

Into the wild

Mestiere da vendere e ottima fotografia per uno dei film più sopravvalutati della stagione.
Sean Penn illustra la storia vera di un giovane neolaureato che, complice una coppia di genitori con più di una colpa da farsi perdonare, parte in un lungo giro dell’America che da Atlanta lo porterà in Messico, poi a Los Angeles e infine in Alaska.
Paesaggi mozzafiato, voce narrante fuoricampo, facile lirismo per un film troppo lungo dove tutto si prevede con largo anticipo, anche la noia.
Il montaggio che alterna gli ultimi giorni con lunghi flashback del viaggio vorrebbe dare un po’ dio brio ad una struttura pachidermica troppo pesante per prendere mai il volo.

Dado Tedeschi

Sabato scorso ho assistito allo spettacolo dalo vivo di Dado Tedeschi a Ca’ de Mandorli, a Bologna. Visto che lo spettacolo era gratuito, il minimo che possa fare per sdebitarmi è una recensione. Comincio col dire che, per chi non l’avesse mai visto a Zelig Off, Dado ha il phisique du role per il cabaret: rotondo e pelato, ispira simpatia al primo sguardo.
Ed è bravo: ha il ritmo frenetico e martellante di chi ha imparato i tempi stringati della televisione, la capacità di improvvisare e interagire con il pubblico, una gamma di argomenti che spaziano dal quotidiano ai ricordi di bambino, dall’immancabile momento sul sesso all’autobiografia vera o falsa. Un’ora di risate e divertimento, insomma, con un bel finale che dimostra le capacità autorali di Dado e non solo quelle di uomo di palcoscenico. Una battuta da citare?
Ti accorgi di essere diventato vecchio quando ti cade una monetina da dieci centesimi per terra e lasciandola lì ti dici: ma sì…”.
Alzi la mano chi ha vissuto l’esperienza…

La ragazza del lago

Storditi da squadre di polizia, distretti e capitani che supereroeggiano sugli schermi televisivi rispettando i tempi delle pubblicità e senza richiedere mai uno sforzo interpretativo eccessivo alla telespettatrice che stira mentre segue la fiction, potremmo aver dimenticato che c’è un altro modo di raccontare storie gialle.
Il modo del cinema, quello vero, quello che sta agli sceneggiati televisivi come le lasagne stanno all’hamburger: e questo mondo vive tutto ne "La ragazza del lago", giustamente ricoperto di David (da non pronuciare "Devid" come alcune vallettone televisive che hanno preparato il loro curriculum più sulla costa smeralda che in una università) di Donatello.
Un film dove, tanto per cominciare, il paesaggio non è stucchevole cartolina pieno di stereotipi. Non ci sono preti simpatici e nemmeno agenti di polizia un po’ stupidi ma volenterosi. Non ci sono neppure madri di famiglia energiche e popolari. Ci sono lunghi silenzi, riflessi spettrali sul lago, sentimenti non espressi, ricordi che non vogliono andare via. Ci sono quei sensi di colpa che la cultura televisiva si ostina pervicacemente a ostacolare, vedi alla voce "chissenefrega" di tanti psicologi d’accatto e da salotto.C’è il dolore della malattia e dell’incapacità di ricoprire un ruolo che gli altri si aspettano da noi. C’è la disperata consapevolezza che non c’è scritto da nessuna parte che domani è un nuovo giorno e andrà meglio. Bravi gli attori, su tutti Toni Servillo ma anche Valeria Golino, che nei ruoli importanti ma da non protagonista dà il meglio di sè.
Andate a vederlo, ma senza patatine e popcorn da sgranocchiare, che non è il caso…

Caramel

Abituati come siamo a immaginare le commedie ambientate a Roma, Londra o New York, potrebbe risultare a qualcuno sorprendente l’idea di vederne una girata a Beirut.
Una Beirut che per una volta non è macerie, morte e miseria, ma sfondo a suo modo romantico delle vicende che girano intorno ad un salone di bellezza. C’è la bella mora che vive un amore impossibile con un uomo sposato (scommettiamo che si ravvederà e scoprirà il vero amore?), c’è l’anziana donna che sacrifica tutta la sua vita alla cura di una madre inferma. E c’è la clinica che ridona la verginità a chi l’ha persa sulla strada del matrimonio.
Ma ci sono anche tematiche, come dire, più occidentali, come la ricerca del facile successo televisivo (tra i momenti più divertenti del film ci sono i protagonisti di una donna che non vuole accettare lo scorrere del tempo) o la negazione forzata della propria omosessualità. Il tutto intriso, va detto, di sapiente cinematografia francese che alterna con un montaggio accurato le varie storie e riesce a tenere viva l’attenzione con una fotografia colorata e una sapiente gestione della sceneggiatura, con la battuta simpatica al momento giusto.

Divertente e consigliabile. Onde evitare equivoci: il caramello del titolo non è la solita leccornia post Chocolat per conquistare gli uomini con la gola, ma un impasto che le donne orientali usano al posto della ceretta.

Il cane giallo della Mongolia

Ci sono film che meritano di essere visti per alzare finalmente lo sguardo dall’ombelico romanesco dei vari filmetti con l’amore nel titolo, dei soliti block-buster in cui ditruggono New York, dei film da ridere in cui ti senti escluso perché non fanno ridere per niente. Il film in questione (se interessati, si trova in dvd) sta a metà strada tra il documentario e la finzione, e ci mostra la vita di una famiglia di allevatori in Mongolia.
Una famiglia moderna, con i mestoli di plastica, il generatore di corrente e i quaderni da colorare, è alle prese con attività millenarie quali proteggere le pecore dai lupi, preparare il formaggio, portarle al pascolo. Nonostante i tempi siano dilatati e manchi quell’ossessiva ricerca del colpo di scena a cui ci hanno abituati i film occidentali, il film regala alcuni momenti di intensa commozione, grazie anche agli scenari maestosi e cupi della campagna mongola. Ma ci rendiamo conto che dall’altra parte del mondo ci sono bambini che a sei anni montano su a cavallo e conducono un gregge al pascolo, mentre i nostri sono capaci solo di accendere e spegnere la PlayStation? Riusciamo a considerare l’idea che esista – oggi, nel ventunesimo secolo – una vita priva di televisione, frigorifero e telefono?
Dal film si intuisce che anche in Mongolia questo modo di vivere sta lentamente scomparendo, e non è una buona notizia.
PS Il cane giallo della Mongolia fa riferimento ad una divertente leggenda buddista che ovviamente non vi svelerò qui.