Ho amato "Avantasia: the metal opera" senza guardarne i difetti (struttura narrativa esile, luoghi comuni fantasy) ma abbagliato dalle qualità (epic metal di livello elevatissimo, songwriting ispirato, arrangiamenti accurati): è così che si ama un disco, in fondo. Per questo, quando ho sentito parlare di un nuovo volume "Avantasia", i sono subito lanciato sull’acquisto, aspettandomi un nuovo capitolo della saga.
Disdetta e delusione.
Il nuovo cd di Tobias Sammeth può sempre contare su collaboratori di livello, tra cui anche gli’ eterni Alice Cooper e Rudolph Schenker, la confezione del cd è di primo livello e contiene anche un dvd con i video, i musicisti sono signori musicisti. Però… però siamo a livello dell’ultimo Bon Jovi o anche peggio, pop rock fatto bene con venature progressive ma tutto lì. E i metallari che in passato hanno crocifisso Metallica, Bon Jovi e compagnia bella per le loro svolte commerciali, dovranno davvero arrampicarsi sugli specchi per giustificare questo Avantasia: The Scarecrow
Tobias afferma di essere stanco delle tematiche fantasy (e sputiamo nel piatto in cui mangiamo…) ma se per lui crescere vuol dire sdilinguirsi nella sdolcinatissima "Carry me over" che riporta alla memoria Carrie degli Europe, o al pop da disco di Lost in space, allora era meglio morire da piccoli.
Bella la traccia di apertura Twisted Mind, resta il fatto che di memorabile per i posteri rimarrà un’altra ballatona, "What Kind of Love". Tanto vale Bryan Adams, allora, che almeno piace pure alle ragazze.
Insomma un buon album, ma Avantasia era un’altra cosa.
Archivi categoria: Recensioni
Il posto dell’anima
Se qualcuno dovesse ritare fuori la solita storia del cinema italiano in crisi, chiedetegli se ha visto "Il posto dell’anima". Un cinema in crisi non produce storie così: attori straordinari (d’altronde, sono i migliori che abbiamo in Italia: Silvio Orlando,Santandrea, Paola Cortellesi, Michele Placido), fotografia mai banale senza scadere nel virtuosismo, regia sobria ma intensa, sceneggiatura perfetta. Si ride e si piange, si riflette e ci si indigna. Uno di quei film che scuotono gli amanti di cinema perché riescono a riportare in fermento razionalità e passione. Qualche difetto forse c’è, inutile nasconderlo, un po’ di retorica, qualche accelerrazione sul pedale del dolore (o del dolorismo), ma c’è anche il gusto dell’inventiva, della citazione, del racconto, una colonna sonora moderna ed indovinata. Se poi aggiungete la bellezza mozzafiato degli appennini, la provincia italiana più caratteristica e addirittura due capatine a Bruxelles e in America, capite che questo prodotto di certo non scaccia la crisi da solo, da di sicuro non ne è espressione.
Guardatelo.
La febbre del sabato sera
La maggior parte dei musical nascono già per essere interpretati in teatro: Grease o Jesus Christ Superstar, per esempio.
Altri, invece, sono storie scritte apposta per sfruttare delle canzoni di successo, come l’attuale Mamma mia, che sta avendo successo in questi tempi a Broadway e che è costruito sulle canzoni degli Abba, o la Febbre del sabato sera, che ho visto ieri al Teatro Auditorium di Bologna.
La differenza principale è che nel primo caso è indispensabile capire quel che dicono, perché la storia si sviluppa nei testi delle canzoni, nel secondo no. Ebbene, benché i veri musical siano i primi, mentre dei secondi si può al massimo dire che sono buone trovate commerciali, questi ultimi hanno il grosso vantaggio di poter essere prodotti in vari paese: traduci le parti in prosa, e lasci le canzoni originali. Il pubblico capisce la storia e tu non sei costretto ad abominevoli e ridicole traduzioni come nel caso del pietoso Grease in italiano.
Tutta questa lunga premessa per dire che nella Febbre del sabato sera le canzoni dei Bee Gees, di James Brown e degli altri protagonisti di quegli anni sono lasciate nella loro versione originale e ben interpretate, traducendo solo i dialoghi.
Il risultato è buono dal punto di vista scenografico, ottimo per le coreografie; peccato però che gli attori cantino su basi e non accompagnati dal vivo, una caduta di gusto imperdonabile. Non manca il personaggio televisivo, Stefano Masciarelli, simpatico anche se occupa un po’ troppo la scena a discapito dei veri protagonisti Simone Di Pasquale e Hoara Borselli.
Insopportabili invece i riferimenti al programma Ballando sotto le stelle, di cui lo stesso Masciarelli e il protagonista sono stati interpreti; va bene una volta, ma se si esagera si perde l’immersione nella storia. Bellissima Hoara Berselli, anche se per fare un musical bisognerebbe saper cantare. In conclusione, se volete risentire un po’ di musica anni settanta, con belle danze, non perdetevelo, un paio d’ore di divertimento sono assicurate.
Se invece avete amato l’originale e cercate riflessi di Brooklin o momenti di John Travolta, lasciate perdere: qui siamo a Trastevere, e oltre il ponte non c’è Manhatthan…
I Simpsons
Non è un caso allora che Matt Groening c’abbia messo vent’anni prima di decidere a portare la sua famiglia gialla al cinema: i rischio era da una parte di fare tre episodi di fila su grande schermo senza aggiungere niente, dall’altra quella di tradire completamente lo schema originale (si pensi ai pessimi risultati, in questo senso, dei film di Scooby-Doo e Garfield).
Il film riesce nell’impresa: grazie ad un ritmo di gag impressionante, ad una straordinaria coralità dei personaggi (tutti i "comprimari", da Nonno Simpson ai Flanders, hanno il loro momento di gloria) ed alla solita maniacale cura dei testi ("io voglio solo che il giorno non mi faccia troppo male prima di tornare sotto le coperte con te, Marge), il film dei Simpsons è probabilmente il miglior film d’animazione degli ultimi tempi (almeno dal primo Shrek non ricordo niente di così divertente). Con qualche concessione all’animazione computerizzata (quei tipici effetti della camera in volo che i registi di film veri possono solo sognare) e al gioco di situazione (ricordate di essere al cinema: niente rutti e puzzette), il film scorre via senza un momento di noia.
Un consiglio: aspettate tutti i titoli di coda prima di andare via.
Una notte al museo
Ecco uno di quei film che solleticano la parte infantile che è in noi e le regalano un paio d’ore di sano divertimento.
La storia è semplice: nel museo di storia naturale di New York (bellissimo, se avete l’occasione visitatelo, è un milione di volte più appassionante dei tristi cadaveri di animali impagliati europei) gli “ospiti” prendono vita di notte, e creano non pochi problemi al nuovo custode notturno, l’imbranato Ben Stiller.
Il resto sono gag a profusione (indimenticabile la “scemo scemo, dammi gomma gomma”: stupida ed esilarante come la vera comicità), effetti speciali accurati, ritmo ben gestito con pause e accellerazioni, attori che si divertono e si vede (oltre a Ben Stiller c’è un Robin Wiliams più in parte che mai, Owen Wilson, Mickey Rooney e tanti altri).
Il bello di questi film – ma quando impareremo a farli anche noi italiani? – è che riescono a essere divertenti senza essere volgari, a coinvolgere i bambini e gli adulti, a giocare con la storia e la cultura mantenendo comunque quel rispetto per i libri e i musei tipicamente anglosassone.
Ma soprattutto, adoro questi film per le reazioni snob che generano, perché mi divertono i commenti di chi li considerano bambinate noiose cercando di darsi un tono, di chi ne parla male per far capire che lui sì che ne capisce di cinema.
Ma il cinema, oltre che un arte, è anche un’industria: e sono film come questo che andrebbero studiati nelle scuole di cinema italiani, se vogliamo avere un futuro, altro che la Corazzata Potemkin (con tutto il rispetto per Ejzen?tejn, era solo per fare un esempio…)
Butchering the Beatles
Premetto che non sono un fan dei Beatles.
O meglio, li considero un gruppo straordinario che ha fatto la storia della musica leggera, se mi capita continuo ad ascoltarli con piacere, ma non sono un adoratore del quartetto di quelli che ricomprano venti volte lo stesso disco ogni volta che ne esce una versione con una nuova copertina e qualche fruscio in meno. E al tempo stesso, mi piacciono le cover: non quelle noiose che riproducono pari pari il brano originale (penso alle versioni in italiano dei successi esteri anni 60) di cui non si capisce il motivo di esistere, nè le cover che stravolgono, distruggono e reinterpretano per il gusto di farlo (penso alle versioni discoteca di certi brani rock o a Marylin Manson che massacra “The KKK Took My Baby Away” dei Ramones.
Mi piace chi si sforza di cogliere una delle mille sfaccettature che un brano può proporre e la esaspera, fino a darne un’interpretazione originale ma non discordante. La migliore cover di tutti i tempi, in questo senso, è “E ti vengo a cercare” di Battiato riproposta dai CSI, che ne sublimarono la spiritualità con tono intensi e lirici. Più bella dell’originale stessa, con i cori di Ginevra De Marco che mi mettono i brividi ogni volta.
Dunque, uno che non ama i Beatles ma apprezza le cover, cosa penserà di Butchering the Beatles? Che sono l’album più divertente degli ultimi mesi, che lo ascolterò fino a non poterne più, che persino una canzoncina senza infamia e senza lode come Lucy in the Sky with Diamonds, rivisitata dai Queensryche, diventa un pezzo potente vibrante di passione ed energia. Per non parlare di Lenny (Motorhead) che trasforma “Back in USSR” in una sferzata di entusiasmo e divertimento.
Ai fan dei Beatles non piacerà, neanche ai fan dell’Heavy Metal: i fan sono come delle chiese, o delle sette, non tollerano l’ecumenismo. Io invece penso che lo scambio culturale arricchisca sempre, e lo consiglio a tutti (tra i musicisti coinvolti nel progetto ci sono anche Billy Idol, Yngwie Malmsteen, Alice Cooper e membri di Motley Crue, Poison, Kiss, Whitesnake, Toto, AC/DC, Anthrax… e mi fermo qui prima che la nostalgia mi travolga).