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Babel

Lento come una vecchia tartaruga che si sgranchisce le gambe, pesante come una pizza con uovo tonno e melanzane fritte, insopportabile come il conoscente che ti parla di gruppi afro-jazz-funky sconosciuti e di guarda sbarrando gli occhi quando affermi di non avere idea di chi diavolo stia parlando.
MI riferisco ad un un film, lento, pesante e insopportabile: Babel. Un film che è piaciuto tanto ai critici, e che infatti ha vinto a Cannes. Ma i critici di mestiere guardano film. Finito questo ne vedono un altro. Loro non hanno l’angosciante consapevolezza di aver sprecato due ore e mezza della nostra breve volatile vita aspettando una cacchio di ambulanza che non arriva mai in uno sperduto villaggio del Marocco.
Per carità, capisco che ai critici sia piaciuto. Già sento le loro vocì: osserva il lento movimento della macchina che accompagna il distaccamento dell’uomo e ne evidenzia lo stato confusionale. Apprezza il cromatismo così freddo e blu in alcuni momenti e così intensamento rosso e avvolgente in altri. Apprezza la fotografia che ritaglia i personaggi come se fossero sagome su uno sfondo che non gli appartiene. Cogli i riferimenti colti e incrociati che sottolineano i parallelismi tra storie di identità lontane e pure così intrinsecamente legate. E via discorrendo. BALLE.
Mi piace il cinema d’autore, un film può anche essere lento, senza però stritolare, maciullare e compirmere fino allo spasimo i testicoli dello spettatore. Ti sto dedicando due ore e mezza di vita, regista d’autore dei miei stivali, meritateli, invece di indulgere su un panorama desertificato come lo stato d’animo di un io distante che piace tanto ai critici ma a me mi fa cadere le braccia a terra.
E non solo quelle.

Mi fido di te

Già da Zelig si capiva come la comicità di Ale e Franz fosse una comicità fatta di scrittura, di gusto della citazione, di parola. Poche linguacce, poche caricatura, quasi nessuno – e questo è insolito per il cabaret televisivo – nessun tormentone.
Una comicità più adatta al cinema, come conferma “Mi fido di te”, secondo film della coppia, divertente e intelligente.
La storia è quella di un’amicizia tra un piccolo sfruttatore che vive di espedienti e un manager di una multinazionale appena licenziato che uniscono le forze per darsi alle truffe in grande stile. Sullo sfondo una Milano grigia di call center, precariato, lavori umilianti (quella dell’omino dell’acqua è una delle perle del film) e multinazionali di sciacalli che delocalizzano.
Ottimi anche gli attori non protagonisti, tra cui il vigilantes buono Marco Marzotta.
Unica pecca la regia di Venier che ostenta i suoi cliché (canzone di successo di sottofondo e sequenze senz’audio a sottolineare i momenti più intensi, ricorso alla voce fuori campo, macchina da presa diligente ma anonima) ma si conferma uno dei migliori autori quando si tratta di portare i comici televisivi al cinema: i migliori film di Aldo Giovanni e Giacomo portano la sua firma. Andate a vederlo: fidatevi

Le rose del deserto

Nel deserto arido dei Natali a New York, degli spezzoni televisivi riciclati e delle pernacchie iberiche, un maestro del cinema si erige maestoso regalandoci la sua rosa.
Mi riferisco all’ultima commedia di Mario Monicelli, Le rose del deserto, un piccolo gioiello d’altri tempi, un esempio da portare ai ragazzi nelle scuole dopo aver fatto vedere loro un cinepanettone, per fargli vedere la differenza tra il cinema e il pattume. Monicelli ci riporta alla campagna d’Africa dei primi anni quaranta, ad un gruppo di soldati che apprestano gli ospedali di campo nel deserto libico: tra loro la figura malinconica e affettuosa di Haber e quella straordinariamente comica di Placido in versione pugliese doc (ma di quella comicità che lascia un buon sapore in bocca come un buon bicchiere di vino, non quei frizzi e lazzi volgari come una bevanda gassata che ti lascia solo la voglia di ruttare).
Monicelli mescola i toni di dramma e commedia con una grazia e una naturalezza che purtroppo i giovani autori sembrano aver perduto, e si diverte a ridicolizzare la retorica fascista che qui si fa cinema e non sketch come in altri recenti e meno fortunati episodi. Bella anche la fotografia che non può ricorrere ad imperiose scene aeree di stampo hollywoodiano e tantomeno a campi lunghi maestosi (e costosi), ma tocca comunque il cuore di chi sa vedere.
Tutti in piedi ad applaudire il maestro. Signore e signori, questo è cinema. Tutto il resto è noia…

Little Miss Sunshine

Un nonno erotomane che sniffa cocaina, uno zio intellettuale illustre studioso di Proust cacciato dall’Università perché gay e tentato suicida, un quindicenne che odia il mondo e ha smesso di parlare, una piccola che sogna di diventare Piccola Miss California (La Little Miss Sunshine del titolo), un padre convinto di aver scritto le regole infallibili per il successo e una mamma che tiene disperatamente insieme questa famiglia sgangherata. Sono quesi i protagonisti, solo apparentemente stereotipati, di un viaggio su un vecchio pulmino Wolfswagen che li porterà alle finali nazionali di Miss California, alla scoperta di se stessi e dei veri valori. Una storia non particolarmente originale tenuta insieme da una sceneggiatura strepitosa e una regina sapiente a mescolare i toni della commedia (un paio di scene sono di una comicità strepitosa) con quelli del dramma e della malinconia. Un film straordinariamente americano nella sua capacità di criticare velenosamente un sistema (la filosofia del successo a tutti i costi, la burocrazia insensibile, il mito dell’apparire, la discriminazione degli omosessuali) pur rimanendoci ancorato dentro, con il sano ottimismo dell’America liberal che rompe le regole (scassando il parcheggio dell’Hotel) ma non troppo (il tono ossequioso con il quale il padre si rivolge al vigile che li ferma).
Se amate i Simpsons non potete perderlo.

21 grammi

Disperato, cupo, angosciante: 21 grammi è un malinconico inno allo sconforto, al male di vivere, all’avvilimento.
Non ci sono buoni e cattivi, non c’è Dio, non c’è senso: nella storia di Gonzalez Inarritu ci sono solo piccoli egoisti esseri umani che cercano di arrabattarsi tra le difficoltà ma ogni volta che provano a rialzarsi finiscono schiacciati dalla disgrazia. Un filmettino leggero, insomma, roba che in confronto Amedeo Nazzari era Asterix, ma un film comunque notevole, nella sua ostentata negazione di ogni speranza.
Straordinari soprattutto gli attori, Sean Penn che trasuda scoramento e Benicio del Toro condannato alla dannazione sempre e comunque. Peccato solo per la costruzione temporale non sequenziale esasperata e poco funzionale (vediamo pezzetti di trama in disordine, e poi dobbiamo ricostruire i fatti) soprattutto perché a tre quarti di film sappiamo già quale sarà il finale… e sinceramente non vediamo l’ora che arrivi, per poter espellere il dvd, nasconderlo in libreria e ritornare a vivere con Asterix, Shreck o qualunque altro film senza Sean Penn