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Io certi proprio non li capisco

Io non capisco quelli che gridano “andate a zappare” e pubblicano sghignazzando il fotomontaggio di Balotelli in campagna, e non quello del leghista Marchisio che ci ha fatto perdere la partita ma è biondo con gli occhi azzurri.
Io non capisco quelli che digrignano i denti urlando “Ma perché non corrono quei brocchi, non è poi così caldo!” e nel farlo un miscuglio di patatine fritte, birra e maionese gli rotola dalla bocca e va a macchiare il divano.
Io non capisco quelli che dicono che non c’era un italiano tra le quattro semifinaliste di Champions League, e non si accorgono che anche tra le quattro semifinaliste di Coppa Italia i connazionali si contavano sulle dita di una mano.
Io non capisco quelli che dichiarano “Meno male che hanno perso, adesso finalmente torneremo a parlare di cose importanti. Ma davvero Melanie Griffith ha lasciato Banderas?”
Io non capisco quelli che affermano “Ma leggetevi un libro invece di guardare i mondiali, bifolchi”. I mondiali ci sono una volta ogni quattro anni, e negli intervalli il tempo per leggere, per chi vuole, c’è.mondiali
Io non capisco quelli che pontificano su “ancora spendi soldi per il calcio, con la crisi che c’è?” e poi spendono 150 € per assistere ad un concerto di un di cui intravedono in lontananza le luci del palco (PS Io non ho Sky né Mediaset Premium, e gli unici soldi che spendo per il calcio sono quelli per pagare il campo di calcetto).
Io non capisco quelli che blaterano “i calciatori guadagnano troppo”, e poi lo sportivo che l’anno scorso ha guadagnato di più è un golfista, seguito da un tennista e due giocatori di basket. Gli sportivi di vertice, guadagnano troppo.È sempre un problema di distribuzione. Ma almeno loro guadagnano perché sono bravi e non perché sono nipoti dell’azionista di maggioranza.
Io non capisco quelli che bacchettano “si spendono troppi soldi per il calcio”, e dimenticano che costruire il nuovo Maracanà è costato meno che girare “Pirati dei Caraibi: Ai confini del mondo”. Eh, ma vuoi mettere Johnny Depp..

Io non capisco, ma evidentemente il problema è il mio che non mi applico abbastanza.

Una nazione senza ricambi

Immagine tratta da www.repubblica.it

Giovinco, Nocerino, Ogbonna, Borini. Chi sono costoro? Sono ragazzi che Prandelli si è portato con sé per fargli visitare la Polonia e l’Ucraina, visto che i primi due hanno giocato agli Europei una manciata di minuti, gli altri due non sono mai scesi in campo. E gli stessi Giaccherini e Maggio sono quasi scomparsi dopo la prima partita. Nemmeno i portieri di riserva hanno mai giocato, ovvio, ma per loro il discorso è diverso perché il portiere non corre come gli altri gicatori e farlo riposare non è sempre necessario.
Ebbene, la scelta del commissario tecnico di puntare, dalla seconda partita in poi, sempre sugli stessi 12-13 giocatori mi offre lo spunto per una riflessione che va oltre il calcio. Perché Prandelli è riuscito a conquistare un secondo posto giocando bene e di questo gli va reso atto, ma quando una squadra passa da una partita eccezionale come quella contro la Germania al peggior risultato di tutti i tempi (perché spiace dirlo ma mai nessuno aveva perso 4-0 una finale), un motivo c’è.
L’ha detto De Rossi: erano cotti. Stanchi. E in Italia di lavoratori cotti e stanchi ce ne sono tanti, migliaia, ma il nostro è un sistema che rifiuta il cambio, il turn-over, l’aggiornamento. Sei bravo? Resta lì finché non schiatti, o, più probabilmente, fino a che non ti sarai inaridito fino a far fallire la tua impresa, o aver messo in crisi l’ente presso cui operi. C’è una atavica incapacità di dare spazio a chi è più fresco, ha più energie. E il bello è che questo modo di fare viene quasi sempre approvato. Abbiamo una classe politica che non ha più idee ed energie, ma è lì e non si smuove, come il fantasma di De Rossi che passeggiava mentre gli spagnoli lo deridevano. Abbiamo un sistema bancario che ha gli stessi dirigenti che girano da una poltrona all’altra senza mai aprire la possibilità a qualche faccia nuovo, a qualche Nocerino scalpitante in panchina. Abbiamo imprese private dove ai padri si succedono i figli e poi i nipoti, e magari qualche Giovinco di talento prima o poi deciderà di andarsene a cercare fortuna all’estero.
Siamo una nazione senza ricambi, e senza cambi ci meritiamo le umiliazioni di ieri sera, e altre ben più gravi.

No, anche il derby no

Io non lo so cos’è che spinge noi tifosi di calcio a continuare a soffrire, gioire, cantare, esultare e deprimerci per 22 giovanotti in mutandoni che rincorrono un pallone. Soprattutto dopo che ci siamo resi che spesso quei giovanotti buttano al vento milioni di euro, sono pessimi esempi dal punto di vista umano ma soprattutto sportivo, non hanno nessun attaccamento ai colori che indossano ma solo quello ad un contratto e alle remunerazioni collegate.

Ma tant’è, sono professionisti, se uno vuole la passione va a seguire i campionati di dilettanti dove odontotecnici e ragionieri se le suonano di santa ragione la domenica pomeriggio solo per il gusto di rincorrerre un pallone. Però un professionista è lautamente pagato per vincere, o almeno provarci. Non può chiedere 250 mila euro per fare gol nella propria porta, è qualcosa di intollerabile, impensabile, al di là di ogni soglia di ribrezzo. In un derby, poi! Secondo le ingagini della magistratura alcuni giocatori del Bari si sarebbero venduti per far vincere il Lecce. Si tratta di una profanazione indicibile, impensabile, come imbrattare con lo spray il Cenacolo di Leonardo o far squillare il cellulare alla prima della Scala e parlare ad alta voce con il cugino che chiede un consiglio sull’automobile usata da acquistare.

Non si fa, punto, non è immaginabile. E se pure come tifoso del Taranto potete immaginare quanta simpatia provi per il Bari (in Puglia tutti odiano il Bari tranne i baresi: quelli di città, perché spesso lo odiano pure quelli della provincia), in questo momento mi sento vicino agli amici baresi che sanno che la loro squadra si è venduta un derby.
Ci vorrà un bel po’ per smacchiare il Cenacolo da una traccia del genere, sempre che poi ne valga la pena: sospetto che ci siano altre centinaia di giocatori con lo spray in mano pronti a vendersi al miglior offerente.
Quasi quasi me ne vado a vedere ragionieri e odontotecnici nei campetti di periferia. Anzi, vado a giocare con loro, e al limite ci scommettiamo la pizza e la birra a fine partita.

Scommettiamo che…

La prima volta successe che avevo dieci anni, e da alcune immagini emerse che il Taranto, il mio Taranto, si era venduto una partita contro il Padova: tanto erano già retrocessi, tanto valeva arrotondare per le vacanze estive. Otto anni dopo (1993) ricordo di un’inchiesta per un’incredibile vittoria esterna del Taranto che si salvò all’ultima giornata dopo un’altra inattesa vittoria in casa contro il Pescara.
E c’ero in tribuna di fronte a quell’inutile 0-0 contro il Catania che ci impedì, nel giugno 2002, di ritornare in serie B, e anche di questa partita si parlò a lungo perché l’impressione che non tutti i giocatori del Taranto giocassero per vincere fu forte.
Ritorna il calcioscommesse, e noi ci finiamo come al solito dentro, per comprare o vendere partite poco cambia. Ovviamente sono ancora indagini per cui vale la pena aspettare prima di trarre le conclusioni, e magari osservare cosa fa la squadra in campo domani nella semifinale contro l’Atletico Roma.

Certo però che in certi momenti mi sento un personaggio di un feuilleton ottocentesco che si innamora di una donna di facili costumi, e per quanto si sforzi di convertirla, di farla sentire amata, di portarla sulla buona via, si ritrova continuamente tradito.

E come me le migliaia di tifosi “amanti del Taranto”. Speriamo che non ci faccia cornuti un’altra volta, ad essere mazziati siamo ormai abituati

Se non guardi vincono

(c) www.stabiachannel.it

E’ il sabato santo, c’è aria di bontà nell’aria, la primavera si affaccia invitante. Il giovane papà decide di rinunciare all’incontro televisivo JuveStabia -Taranto per portare fuori la figlia.
D’altronde quest’anno ha già assistito a partite di commovente bruttezza, autentici de prufundis per il gioco del calcio quali Andria-Taranto, Barletta-Taranto, Gela-Taranto Foligno-Taranto, partite talmente noiose da far apparire eccitante una televendita di bigiotteria. Incotri di calcio che sarebbe meglio seguire per radio, così almeno ti risparmi rl’inquadratura della gente che sbadiglia sulle tribune guardando l’orologio. Per cui in fondo il papà rinuncia a cuor leggero, a Castellammare, contro una squadra forte e in forma, il Taranto metterà in mostra il solito gioco inconcludente in grado di annoiare però anche l’avversario che stordito si accascia nel solito 0-0.
E invece? Invece il Taranto vince 3-0. In trasferta. Faccio notare che finora il Taranto aveva vinto in trasferta una sola volta, e con un solo gol di scarto (segnato a Lucca nei primi minuti prima della solita discesa nel ritmo catacombale). E invece di gol ne fa tre. Non che al giovane papà dispiaccia, per carità, l’importante è vincere. Ma dopo sette 0-0, proprio il giorno che esco dovevate svegliarvi?

Lippi e l’illusione new age

Una delle parabole evangeliche più incisive da un punto di vista letterario è quella dei talenti: c’è chi ne ha tanti e li sa fa fruttare, chi ne ha di meno, chi ne ha pochi e non valorizza nemmeno quelli.
Ma i talenti da cui partire ci vogliono. Sono essenziali. Noi viviamo in un tempo in cui una certa filosofia pressapochista e superficiale mischiando culture orientali e marketing americano ci ha convinti del fatto che le motivazioni e la volontà possono sopperire al talento. E se n’è convinto anche Lippi, che ieri ha continuato a ripetere che se la nazionale stavolta è andata malissimo è perché non è riuscito a motivarli. Falso. L’allenatore non è un guro carismatico che con la sua forza trasforma un mediocre giocatore in un campione. Certo che le motivazioni sono importanti, certo che ci vuole la volontà e la stima in se stessi. Ma si tratta di "moltiplicatori": se il valore iniziale, il talento, è zero, o uno, non moltiplicheranno un bel niente.
Questo Lippi sembra continuare a negarlo: se nel 2006 ha vinto è perché ha scelto giocatori di talento, e su quella base ha formato il gruppo. Stavolta invece si è portato dietro soldatini obbedienti, ossessionato da questa favola del gruppo, lasciando a casa i giocatori talentuosi ma che potevano oscurare la sua figura di leader della missione. E i risultati si sono visti.
Il problema però non è tanto la nazionale. Abbiamo perso, pazienza. Il vero dramma è la diffusione di questo pensiero sconcio e appiccicoso, questo "se ci credi niente è impossibile" che da un lato ci fa galleggiare tra le illusioni, dall’altro mette in ombra chi il talento ce l’ha, ma è messo all’angolo per non imbarazzare chi detiene il potere. Succede ovunque, nelle aziende, nelle università, in politica.
Chissà se questa batosta aiuterà a riprenderci. A farci capire che  talento non si diventa scrittori perché tanto c’è l’editor pieno di idee, non si diventa cantanti perché tanto c’è papà che paga i corsi, non si fa carriera perché si leccano i piedi al capoufficio. Andate a prendere il talento che avete seppellito, se ce l’avete. Se non ce l’avete cambiate obiettivo, o rischiate di finire ultimi del girone umiliati e irrisi da tutto il mondo.