Il video è piuttosto raccapricciante, e se proprio volete potete vederlo qui.
Un atleta ungherese, nello sforzo per sollevare quasi 150 chili, di rompe un gomito e si lussa una spalla. Agghiacciante, l’episodio fa porre delle domande sulla pericolosità di certi sport e sull’ossessione dell’uomo di spingersi sempre oltre, hano quando ovviamente non si può. Ma non è questo che mi ha colpito del video, quanto la sequenza successiva: un gruppo di ragazzine dotate di cartellone che coprono la scena alle telecamere. Il dolore, il fallimento, la sofferenza non fanno parte di questi giochi. Qui tutto va bene.
E se per una volta siamo pure d’accordo nel non voler esibire le urla del povero atleta, sorge spontanea la domanda: cos’altro nascondono, quei cartelloni, in Cina?
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Forza Taranto, nonostante tutto
Alcuni anni fa era di moda tra gli interisti mostrarsi tifosi superiori, un po’ snob forse, per la loro capacità di rimanere attaccati ad una squadra nonostante la scarsità di vittorie. Ora che vincono anche loro, l’unico tifoso che può a ragione fregiarsi del titolo di "Tifoso nonostante" è quello del Taranto.
Tifoso nonostante da quindici anni non si riesca ad andare in serie B. Tifoso nonostante da due ci si arrivi ad un passo: semifinali play-off l’anno scorso, finale quest’anno, e da favoriti anche. Tifoso nonostante certi altri tifosi, quei simpaticoni che ci hanno fatto perdere tre punti, e forse il campionato, durante la partita con la Massese persa a tavolino per gli scontri sugli spalti. Tifosi nonostante l’amore per questa squadra sia come quello per una bella donna antipatica e presuntuosa: dà solo sofferenze, frustrazioni e invita a domandarsi "ma perché continuo"?
Continuiamo a tifare Taranto, nonostante tutto.
Campioni del mondo in lagna
Ma può una squadra che si è fatta umiliare dagli olandesi ed è riuscita a portare a casa a fatica un pareggio con i romeni lamentarsi perché il regolamento la sfavorisce? No, non può. E poi, diciamo la verità, se anche questa squadra passa il turno ne prende tre o quattro anche ai quarti di finale. Tanto vale toglierci subito il dente e cercare per la nazionale un allenatore con un po’ più di curriculum e che sorride un po’ di più…
Il doping ? uno sport olimpico?
Sono anni che puntualmente si scopre che la metà dei partecipanti al tour o al giro d’Italia è dopata. L’altra metà non è stata sottoposta a test. E ogni anno a parlare di fine del ciclismo, di etica calpestata, di valori che non ci sono più.
Ora, a parte il fatto che già Coppi parlava della "bomba", ma la domanda che mi pongo è: esperti di ciclismo, vi sembra normale che un essere umano faccio 250 chilometri in salita sotto la neve o con quaranta gradi in sella ad una bicicletta? No dico per voi è normale fare in pochi giorni il giro di una nazione a pedali e avere il tempo di sorridere la sera ai talk-show? Ma ci siete mai stati in bici?
Allora, mettiamoci d’accordo.
O accettiamo di essere esseri umani e di avere dei limiti, e allora vediamo di organizzare queste manifestazioni in maniera un po’ meno sadica, dando il tempo di riposare tra una tappa e l’altra, riducendo i chilometri da percorrere, scegliendo magari ogni tanto un po’ di pianura.
Oppure smettiamola di fare gli ipocriti, le gare le vince chi si dopa meglio senza morirne, gli sponsor diventano le case farmaceutiche e semmai vediamo di porre dei limiti per evitare ciclisti con tre occhi e la pelle verde. Insomma.
Sono auto o cartelloni mobili?
Non so perché ma il connubio nostalgia-sport mi affascina e mi coinvolge sempre. Ho già raccontato di come mi manchino, nel calcio, i numeri dall’uno all’undici, dove il tre era il terzino sinistro e il dieci il trequartista con i piedi buoni.
Domenica, guardando il gran premio di formula uno, sono stato colto da un altro tipo di nostalgia. Ma ve la ricordate la Lotus nera, con le finiture che richiamavano lo sponsor John Player Special? Era così elegante che l’avresti tenuta in salotto, avendo un salotto sufficientemente capiente. E la Brabham, che sembrava uno squalo balena? E le Arrows tutte bianche, che facevano tenerezza, sembravano lì per errore, timide, e infatti dopo pochi giri tornavano ai box.
Le auto di formula uno attuali sono tutte uguali, tutte dello stesso colore: patchwork. Sembra di vedere dei volantini pubblicitari ambulanti. Il rosso Ferrari, con un po’ di fatica, regge; ma per le altre è un disastro. Neanche si capisce quando qualcuno sta sorpassando un avversario o un compagno di squadra.
Ma cari sponsor, dico io: se non potete permettervi di avere una scuderia tutta vostra (come la Red Bull, o una volta Benetton), se non potete determinare i colori della squadra (come la mitica McLaren che sembrava un pacchetto di Marboro) allora rinunciate, il vostro box giallo sulla finacata inferiore destra dietro i bocchettoni non lo vedrà mai nessuno e sarà solo una macchia di fastidio per il telespettatore.
Se proprio volete, cercate di acquistare uno spazio sulla chiappa destra del pilota, che tanto siamo abituati a vederli vestiti come clown carnevaleschi: ma le macchine lasciatele stare.
Ben Hur ha conquistato la Scozia
C’è qualcosa di affascinante in una selva di uomini alti due metri che pesano un quintale che si spingono, si calpestano, si placcano e in definitiva se le danno di santa ragione senza mai lamentarsi o perdere la compostezza.
Mi riferisco al rugby, non al parlamento.
Sabato pochi che hanno guardato La 7 hanno potuto assistere ad un momento epico per questo sport italiano "minore" (nel senso che conta un minor numero di appassionati e praticanti rispetto ad altre discipline), la prima vittoria in trasferta della nazionale azzura nel torneo sei nazioni, che coinvolge le migliori squadre di Europa.
Certo la Scozia è lontana dai funanbolici francesi e dalla corazzata inglese, ma vincere in uno stadio gremito che fino all’ultimo ha incitato i suoi è stata un’impresa storica. In particolare – e il confronto con certi omuncoli col ferrettino tra i capelli e le sopracciglia depilate è d’obbligo) mi ha quasi commosso lo sforzo sovrumano di Ben Hur – alias Alessandro Troncon – il capitano azzurro muscolare, massiccio, che ha realizzato l’ultima meta non con una corsa a tradimento tra le maglie della squadra avversaria, non con una serie di passaggi in diagonale, ma molto semplicemente e coraggiosamente spingendo in mischia la massa scozzese, che ha richiesto l’intervento della moviola in campo (come mai nel rugby si può usare e in altri sport no, amici della Lega Calcio?) per capire in quel laocoontico groviglio di braccia e gambe dove fosse il capitano e se avesse superato la linea.
Non mi piace il luogo comune per cui il rugby è uno sport da uomini vere e il calcio professionistico una passerella per cecche profumate e pieni di soldi: però in occasioni come queste capisci da dove nascono i luoghi comuni.
Ave Ben Hur!