10) Un pantalone con meno di sei tasche è buono solo in spiaggia o in piscina
9) Prima di indossare un boxer largo ricorda che la libertà è bella ma se è troppa ci sono delle controindicazioni
8) Le scarpe con il rialzo nascosto sono un inganno sulle dimensioni, e verrà il momento in cui non potrai barare sulle dimensioni
7) Il 75% del calore è disperso dalla testa. Sii eco-sostenibile, indossa un cappello
8) Chi dice che la canottiera non è sexy, è perché non ti ha mai visto in canottiera
5) Il pile è un tessuto artificiale adatto ad arredare la cuccia del gatto e poco altro
4) L’unica cravatta utile è quella conservata nel cassetto dell’ufficio
3) Nella tua vita c’è stata la stagione dello zaino e quella del marsupio. Alla tua età non portarti dietro niente che non abbia le rotelle
2) L’ultimo bottone della camicia lo abbottonano solo i serial killer
1) Se però ti si vede un ciuffetto di peluria bianca, abbottonati. Serial killer non è poi tanto male
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Il gioco russo
Il boia sollevò la scure sopra la testa.
La lama si staccò di netto dal manico e gli cadde alle spalle con un tonfo.
Il primo giocatore fu sollevato di peso da due guardie e lasciato cadere ancora tremante, su una sedia, ai bordi del piazzale. Una ragazza in abiti piuttosto succinti rabbrividì. Si sfregò le mani per scaldarsi, sul trespolo dal quale osservava la scena.
Il secondo giocatore avanzò barcollando e occupò il posto prestabilito. Il boia afferrò la seconda delle sei scure fornite. La sollevò. Di nuovo la lama si staccò: anche il secondo giocatore era salvo. Per il momento.
«Il destino sa sempre dove dirigersi. Mi piace molto questo passatempo» commentò Nikolaj II di Russia. Annuì con un lento gesto del capo affinché si proseguisse. I suoi cortigiani osservavano con un misto di disgusto e noia, gli occhi degli uomini più interessati alla giovane donna seminuda che al gioco in sé.
Di nuovo il turno del primo giocatore. Nemmeno il tempo di asciugarsi le lacrime. Di nuovo sul patibolo, di nuovo il collo esposto alla ventura. La scure non era quella giusta: con un grido selvaggio, l’uomo si rese conto di essere stato di nuovo risparmiato.
Qualcuno tra la folla rise, altri batterono le mani per scaldarsi e rincuorarsi nella mattinata gelida. Anche il quarto colpo andò a vuoto. Il boia sbuffò infastidito e si massaggiò la schiena. Afferrò la quinta scure senza troppa convinzione. Con un sospiro di sollievo vide la testa del primo giocatore rotolare sul pavimento. La ragazza scese dal trespolo e incoronò il vincitore, baciandolo e abbracciandolo tra le urla dei presenti.
Nikolaj si alzò in piedi e salutò i sudditi, dando loro appuntamento al giorno successivo.
«Questo gioco è quanto di più inopportuno tu potessi organizzare» intimò la moglie dello zar prendendolo per un braccio. «Proprio non riesco a capire la profezia dell’indovino che ti ha parlato di questa barbara selezione. E quella donna, poi, a che serve? Gli auspici vanno interrogati con maggiore attenzione.»
«Ancora più che per l’insalata con la maionese, sarà un gioco a ricordare la tua terra, recitava il vaticinio. Il gioco della soubrette russa. Non si va contro il proprio destino, mia cara.»
Il trio del supermercato
Di solito sono tre: il teorico, il polemico e il cialtrone. Il primo ha una lista in mano, il secondo scuote il capo sospirando, il terzo per poco non finisce nel bancone dei surgelati mentre gioca a Candy Crush con il cellulare.
Sono i fuori sede che fanno la spesa in un supermercato.
Uso aggettivi maschili perché la tendenza a trasformare anche una procedura d’acquisto in una scampagnata con relativa presa di coscienza collettiva è tipica del genere maschile, o per lo meno questa è l’impressione, magari errata.
Il teorico sa quello che serve, ha preparato la lista, si guarda intorno, valuta le scelte. Impiegherebbe la metà del tempo se non avesse accanto il polemico che gli contesta ogni scelta. Preferisco gli spaghetti delle linguine. Sul dentifricio meglio non risparmiare. Il sugo ce lo facciamo noi basta che prendi la passata. Il polemico ha la vocazione naturale alla contraddizione, ha un futuro da sindacalista o da politico d’opposizione. Il tecnico però lo sopporta perché sente che quella voce odiosa lo sprona a fare meglio, lo aiuta a dimostrare che passi pure la carta igienica di importazione azerbaigiana che ti scartavetra nell’intimo così magari ne usiamo meno, ma il te freddo in polvere no, il te freddo in polvere è un triste presagio di sventura.
Basta ricordarsi di non ripetere l’errore, perché va bene risparmiare, ma l’ultima volta con la carta igienica ti hanno visto uscire dal bagno con gli occhi lucidi e ti hanno chiesto: cos’hai, ti han fatto male le pesche sciroppate? No, hai risposto, mi fan male le chiappe grattugiate.
E il cialtrone? Il cialtrone ai miei tempi ciondolava guardandosi in giro, cercando magari di incrociare una bella ragazza, leggeva gli ingredienti dei fiocchi d’avena con accurato interesse, infilava nel carrello con noncuranza oggetti di discutibile utilità quali giocattoli per felini e shampoo per automobili, in assenza ovviamente di auto e gatti.
Aveva la funzione di pacificare gli scontri tra teorico e polemico che improvvisamente interrompevano le discussioni per allearsi nell’apostrofarlo con un corale “lascialo sullo scaffale, imbecille!”.
Oggi il cialtrone trova consolazione nello smartphone dove le ragazze ci sono eccome, anche se sono virtuali, anziché gli ingredienti legge le quotazioni delle scommesse sportive sul suo schermo e se proprio deve infila nel carrello qualche lampadina alogena, che a casa degli universitari non ci sono lampadari, figurati dimmer.
Se li riconosco è perché sono stato anch’io uno di loro, da universitario fuorisede. Quasi sempre teorico, a volta polemico quando trovavo uno più teorico di me. Più spesso facevo la spesa da solo: una certa narrativa molto marginale mi aveva convinto che il supermercato fosse il luogo per fare incontri che dessero inizio a torbide relazioni lascive con donne superlative.
Una volta incontrai Gaetano Curreri con il carrello al Conad. Magari sperava in una donna superlativa anche lui.
Non c’è più la prova costume
Di sicuro per noi il problema non è grave come per quegli agricoltori che dopo aver visto fiorire i primi alberi se li vedono congelare sotto la neve. Non è neanche una beffa come per gli operatori delle stazioni sciistiche che dopo una stagione di prati verdi, vedono le loro piste imbiancarsi ora che a sciare non ci pensa più nessuno. Per quanto gli operatori sciistici è da un po’ che dovrebbero studiarsi piani alternativi.
Però quando ripenso alle formiche che ho visto nei giorni scorsi cominciare ad accaparrarsi le briciole e che adesso si staranno domandando chi è che ha puntato male la sveglia, non posso non considerare quanta nostalgia ho delle quattro stagioni. Di quegli anni in cui lavavi e stiravi i maglioni, li salutavi, ci spruzzavi l’antitarme e non li rivedevi più per mesi. Anni in cui mettevi gli scarponi nella scatola e li riponevi nell’armadio o nella scarpiera nella posizione più scomoda, tanto a chi vuoi che servano.
Anni in cui c’era il periodo in cui aveva senso fare la prova costume. Chi la fa più la prova costume? A parte il fatto che puoi trovarti coinvolto in una imbarazzante uscita imprevista alle terme magari a marzo, periodo di massima espansione assoluta del panciotto, che con la scusa che fa freddo hai imbottito prima di fritti misti e poi della cioccolata di Pasqua. Il guaio è che per fare la prova costume devi averla, un’idea di massima, su quando lo indosserai. Ho visto amici che abitano al sud pubblicare nelle settimane scorse i loro indimenticabili piedi ammollo che adesso sono tornati a farsi avvolgere da sciarpe rassicuranti.
Maledetto cambiamento climatico, quando dobbiamo metterci a dieta? Quando devono tornare in palestra le signore di mezza età con le cosciotte piene di buoni propositi mandati all’aria? Quando devono prepararsi a tingersi i capelli o a ritoccarsi le sopracciglia i maschioni che ormai all’idea di smaltire la pancia hanno rinunciato?
Bisogna vivere alla giornata, dicono. Carpe diem. Polo a mezze maniche in un cassetto, maglione di lana nell’altro. Infradito o stivale a seconda di come gira il tempo. Vestirsi a cipolla come scelta di vita. E in fondo, magari, il costume.
Hai visto mai che ci scappa un giro alle terme.
Il tabù del pantalone corto
Non è vero che non ci sono più le mezze stagioni. Ci sono eccome, solo che si sviluppano tutte nella stessa giornata. Prendete per esempio marzo a Bologna, città che negli anni ha sviluppato una forte tendenza alla moda prêt-à-porter da un lato e alle crisi isteriche dall’altro, perché, per ragioni meteorologiche, il cambio degli armadi va fatto cinque o sei volte l’anno.
La mattina, specie con l’ora legale che allunga i pomeriggi a discapito delle prime ore del giorno, è inverno. Non troppo rigido, per carità, ma il cappotto ci vuole. Man mano che ci si avvicina al mezzogiorno, ecco che è primavera, svegliatevi bambini. Si sta benone con una camicia, al massimo una felpa. Per arrivare così alle tre del pomeriggio in cui chi ha il condizionatore in auto lo accende, e rimanere a mezze maniche è quasi d’obbligo. Almeno fino al tardo pomeriggio quando si presenta l’autunno, senza foglie secche ma con quel vento fastidioso che si insinua tra il collo e le orecchie e ti regala una carezza dall’oltre tomba.
La soluzione è solo una: vestiti a cipolla, dicono. Che funziona per la parte superiore, certo con l’inconveniente che dopo pranzo ci vorrebbe un carrello della spesa per portarsi dietro tutto ciò che ti sei tolto di dosso, ma sotto come si fa? Non è che puoi metterti i pantaloncini della palestra sotto i jeans e voilà, sti sta più freschi. Anche perché la nostra società ha discusso per anni di quanto potesse rimanere nuda la gamba femminile, e c’erano vescovi che trovavano scandalosa la vista delle caviglie, ma nessuno ha rimosso il tabù delle gambe maschili.
Sempre rigorosamente coperte, anche a fine luglio, anche a quaranta gradi.
Uniamoci e facciamo sentire la nostra voce: libertà di pantaloncino in ufficio. Se necessario siamo disposti a depilarci. Io per stare più fresco indosserei pure una minigonna, se necessario. Con gli slip aderenti sotto, sia chiaro, che la libertà è bella ma troppa diventa anarchia.
Ho sognato di essere Batman
Il fatto che i nostri sogni raccontino una parte di noi che non conosciamo, o che forse fingiamo di non conoscere, non è certo una novità. Ci sono fior di professionisti in prestigiosi studi del centro che, grazie a questa scoperta, si fanno pagare duecento euro all’ora per ascoltare i sogni altrui, accomodati su una poltrona in pelle, per poi tirare fuori un trauma infantile che sarebbe all’origine dei problemi del paziente, quasi sempre per colpa dei genitori.
Ora, di recente ho fatto un sogno che credo meriti di essere raccontato. Non a quei tizi delle poltrone in pelle di cui sopra, no grazie, al limite con me potrebbero tirare fuori la storiella dell’ansia prodotta dall’istinto di voler controllare tutto, che mal si concilierebbe con l’imprevedibilità della vita.
No, il mio sogno ho intenzione di raccontarlo a voi, che se vi va mi ascolterete gratis senza darmi responsi saccenti, se non vi va potete tornare a frugare su Amazon o Zalando, oppure sulla Gazzetta dello Sport o Youporn, a seconda dei vostri gusti (ho fatto un distinzione sessista? Sì, l’ho fatta. Denunciatemi alla Murgia se vi va).
Ebbene, qualche notte fa ho sognato di essere Batman. Complimenti all’autostima, starete pensando. In effetti mi rendo conto che come personaggio da impersonificare sia impegnativo, ma riflettiamoci un attimo: l’uomo pipistrello ha gadget fichissimi ed è un uomo super forzuto, però, alla fin fine, è un uomo. Non il figlio di qualche divinità nordica dotato di un martello mille usi che al Brico Center se lo sognano, e nemmeno un extraterrestre che vola e brucia tutto con la vista laser. Autostima sì, insomma, ma con moderazione.
Dunque, tornando al mio sogno, in veste di supereroe non dovevo confrontarmi con Joker e nemmeno sventare i piani criminali di Pinguino. Non c’erano. Ahimè non c’era nemmeno Cat Woman, che invece una ventina d’anni fa avrebbe monopolizzato le mie illusioni oniriche. Nel mio sogno affrontavo criminali, ma, come dire, si trattava della parte inutile della storia, come i dialoghi nei film di Rocky o le panoramiche turistiche finanziate dalle film commission nelle fiction Rai. I problemi erano altri.
In primis, parcheggiare la Bat Mobile. Sì, lo so, questo più che un sogno è un incubo, ma vivo a Bologna, la città dove i possessori di auto nella considerazione degli amministratori sono criminali da punire senza pietà, meno forse degli spacciatori ma di sicuro più dei vandali. Dove la parcheggi la Bat Mobile, che tra piste ciclabili, posti auto per disabili e riservati ai commercianti, ormai si trova parcheggio solo tra le 9 e le 10 del mattino? E se ci fosse bisogno di Batman in un’altra ora? Ce lo vedete Batman che aspetta il 13, per scoprire poi che in centro non ci arrivi più nemmeno con gli autobus, perché nella città più progressista d’Italia il centro deve essere lasciato libero ai tavolini?
Questa parte del sogno veniva risolta perché non usavo l’auto, punto, il mio inconscio lo risolveva così. Però si poneva una seconda questione. Una volta concluso l’intervento, dovevo tornare ad essere Bruce Wayne, perché mi attendevano a una riunione, o a una mostra, vai tu a sapere. Allora, dove lo riponi il travestimento di Batman? Di Clark Kent sappiamo che andava in giro sempre con il costumino di Superman sotto i vestiti, e gli evidenti problemi di traspirazione mettevano continuamente in crisi il suo rapporto con Lois Lane. Per non parlare della questione del mantello. Dove lo tieni nascosto quel mantello, birbante? Lo tiri fuori con un colpo di magia dal buco del… cilindro? Ma dove lo tiene il cilindro il signor Kent?
Insomma, dove lo ripone il suo armamentario Batman quando torna in abiti civili? Consideriamo che si tratta di un outfit piuttosto impegnativo da dismettere. Ti porti dietro un trolley? E se le orecchie a punta di sciupano? Uno zaino tipo camminatore? Può funzionare, però che ci fa un miliardario come Wayne con uno zaino sulle spalle? Non è credibile. Non sapere dove riporre la propria roba è un incubo, ammettiamolo.
Anche in questo caso il mio inconscio risolveva con l’ennesimo buco di sceneggiatura: mi ritrovavo infatti a riporre il costume nero nel cassetto, facendo attenzione a non esagerare che poi si sfondano, come fanno abitualmente persone a me care riponendoci più di quanto non possano contenere, sfidando la legge della impenetrabilità dei corpi.
Dopo di che qualcuno (un parente, ma non ricordo chi) apriva il cassetto e apriti cielo, che ci fa un costume di Batman qui?
È per Carnevale, rispondevo io prima di svegliarmi e tirare un sospiro di sollievo.
Con una consolazione: non sono un supereroe, o forse lo sono sempre stato senza rendermene conto.