Appena un bimbo nasce, nascono e crescono con lui tutti i paragoni possibili tra il suo aspetto fisico e il suo parentato fino alla terza generazione.
Ma in fondo al giovane papà piace sentirsi dire che il pargolo ha il suo taglio degli occhi, o quell’espressione imbronciata, o il modo di gesticolare. Sono eredità leggere, queste. A meno che uno non abbia un residuato bellico al posto del naso o due orecchie che fanno provincia, tutto sommato si può lasciare alla prole qualcosa di sé senza farsi troppi scrupoli. Il problema sorge invece quando, crescendo, i paragoni nei confronti dei figli coinvolgono aspetti del carattere.
A quel punto il giovane papà entra in crisi, fa esame di coscienza e si domanda se non possa essere lui ad aver trasmesso quell’aria contestatrice ed anti-autoritaria. E terrorizzato si domanda se la bimba acquisirà pessime caratteristiche e orribili modi di fare quali il dire sempre quello che pensa, lo schierarsi apertamente contro i più forti, seguire ostinatamente quello che ritiene giusto più che quello che ritiene opportuno.
Capite che per il giovane papà è un fardello troppo pesante da portare: e se prende da me?, si ripete con le mani tra i capelli e l’ansia che il figlio possa pensare di sè ciò che in gioventù si è pensato dei propri genitori.
Per fortuna i geni si mescolano per bene, e il giovane papà si rassicura pensando che un po’ di televisione commerciale e qualche reality basteranno a smussare certi spigoli caratteriali e a fare della prole una docile e produttiva unità.
Intanto pensa di nascondere i cd di Gang, CCCP e Modena City Ramblers e di sostituirli con l’opera omnia di Amedeo Minghi.