Gli appassionati di calcio oggi seguono le partite di campionato praticamente dal venerdì al lunedì, persino all’ora di pranzo, con le giornate libere occupate da manifestazioni internazionali. Cari ragazzi miei che vi appassionate a questo sport come a me capitò più di trent’anni fa, non è sempre stato così. Quello che voi assaggiate è un vino talmente annacquato da risultare insipido, e mi domando come facciate a non esserne stufi (io per esempio lo sono).
C’era una volta la schedina: un gioco che con poche lire permetteva di sfidare la fortuna cercando di indovinare i risultati: la schedina fra le dita può cambiare la tua vita, cantava il mitico Toto Cutugno.
La schedina c’è ancora, almeno credo, ma è tutto il corredo intorno ad essere svanito. Intanto perché le partite si giocavano tutte in contemporanea, dalle 14,30 (orario spostato in avanti l’estate). Quindi in quei novanta minuti potevi sapere se avevi vinto o no, senza dover aspettare tre giorni. Poi perché la schedina era un rito collettivo, quello che manca alla società attuale parcellizzata tra mini schermi personali e contenuti ipertrofici h24, come dicono quelli che ne sanno. Andavamo allo stadio tutti insieme, dal mio indimenticabile “Erasmo Jacovone” di Taranto a San Siro, dall’Olimpico al Renzo Barbera. Poi tutti insieme rientravamo in auto sperando di fare in tempo per novantesimo minuto, per poi ritrovarci di fronte alla domenica sportiva, che faceva sì rivedere i goal, ma da angolazioni sghembe dietro la porta e con primi piani sul terzino che facevano tanto televisione di qualità.
E io ancora me lo ricordo quel maledetto undici, un numero maledetto come il cinque e mezzo per i liceali o il ventinove per gli universitari, un sogno svanito in pochi attimi: il mio tredici che resisteva sino a pochi minuti allo scadere, poi due gol che ti facevano crollare dal mito del successo alla mediocrità di uno dei tanti che non ce la fa. Erano di solito le partite minori a rovinarti la festa, un pareggio casalingo della Triestina o peggio ancora una vittoria inattesa del Campobasso in C2 (e no, all’epoca la C2 non era una utilitaria francese). Non ricordo quanti undici ho collezionato, non tantissimi direi, ma abbastanza da farmi ancora ricordare la delusione.
Delusioni o gioie che derivavano dal nostro scandire il tempo tutti insieme, il dibattito la domenica sera dietro la parrocchia o ancora il lunedì mattina sull’autobus che ci portava a scuola. Perché noi non avevamo il supporto della tecnologia, ma eravamo parecchio social, eccome se lo eravamo.