Dettaglio della copertina

La vegetariana, di Han Kang

Quando ci si accinge a recensire un romanzo di cui si è molto parlato, perché l’autrice ha di recente vinto il premio Nobel per la letteratura, si corrono diversi rischi.

Il primo è quello dell’omologazione: intrupparsi nel coro dei benedicenti per dimostrare di avere una cultura raffinata che coglie bene le valutazioni dei professori di Oslo. Il secondo, di segno opposto, è lo snobismo: elevarsi a saccente intellettuale che supera le mode del momento criticando aspramente ciò che la maggior parte delle persone apprezza.

Il terzo rischio è quello dell’incomprensione: non capire il romanzo, non capirne il successo, non coglierne le qualità. Leggerlo a fatica, con un crescente senso di smarrimento.

Siccome è il mio caso, parto col dire che la mia non è una recensione, che presupporrebbe quanto meno di aver interpretato il senso che l’autore ha attribuito all’opera; è la cronaca di una faticosa opera di lettura.

La storia, per chi non lo sapesse già, è quella di una nevrosi, dei suoi effetti sulla persona malata e su chi gli sta vicino: marito, genitori, cognato, sorella.

Le fasi che mi hanno accompagnato in questa impresa sono state caratterizzate, nell’ordine, da curiosità, incredulità, ribrezzo, noia, gioia. Il tutto condito da un sentimento di disturbante incapacità di immergersi in una vicenda in cui tutto appare sofisticatamente finto.

La curiosità ovviamente è quella di leggere un romanzo così lontano dai mie canoni di lettura abituali (leggo preferibilmente letteratura poliziesca ma non disdegno autori contemporanei quasi sempre statunitensi e i classici del Novecento). L’incredulità ha cominciato a fare capolino man mano che affrontavo la lettura: trascinare un aratro su un campo di sassi sarebbe stato più agevole. Per carità, scrittura cristallina, mai un aggettivo fuori posto o un costrutto di difficile comprensione, ma un senso di disagio immanente che si faceva via via più opprimente. Sul ribrezzo sorvolo, ormai ho capito che se oggi non inserisci qualche passaggio oggettivamente ripugnante nei tuoi romanzi non sei nessuno (mi riferisco a dettagli fisici, anatomici, biologici che possono urtare la sensibilità del lettore generando repulsione).

E poi noia, noia, noia. Lo so, lo conosco anch’io il decalogo di Pennac, ma non ce l’ho fatta a mettere da parte questo romanzo. Nonostante una trama lenta, immobile direi, nonostante l’impressione di trovarmi di fronte a un rantolo afono di dolore che ha l’unico obiettivo di trasferire per osmosi l’angoscia al lettore, ho voluto proseguire. A volte basta una frase straordinaria a giustificare la lettura di un intero romanzo. Non l’ho trovata, ma forse gli sbadigli hanno contribuito a farmi distrarre.

La gioia, ovviamente, è stata quella di essere uscito da questo tunnel di disperazione compiaciuta, di aver chiuso per sempre una lettura che può darsi abbia intenti terapeutici, come una sorte di omeopatia del disagio (“Sai che ti dico? Ora che ho letto di Yeong-hye, mi rendo conto che la mia vita non fa poi così schifo”).

Poi mi aspetto che questa mia esperienza negativa metta in evidenza i limiti della mia sensibilità, l’incapacità di calarmi nel dramma. Ma è proprio questo, il punto: il dramma lo viviamo già quotidianamente, le malattie mentali sono una piaga dei nostri tempi in cui riusciamo a curare tutto fuorché l’anima. Leggerne una cronaca dettagliata non mi procura alcun piacere, e per me la lettura deve essere sempre un piacere. Anche quando si legge un libro di guerra o un resoconto di Auschwitz, si prova in fondo un piacere che non è quello del sadico, ma quello di chi ama sapere, essere informato. Purtroppo, di questo piacere non c’è stata traccia, ma è un limite della mia esperienza, non del romanzo. A voi maggioranza cui è piaciuto chiedo comprensione: ci ho provato, non ce l’ho fatta, siate misericordiosi.

[ALLERTA SPOILER]

Alla fine, che ve lo dico a fare, è sempre colpa dei padri

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