Nel deserto arido dei Natali a New York, degli spezzoni televisivi riciclati e delle pernacchie iberiche, un maestro del cinema si erige maestoso regalandoci la sua rosa.
Mi riferisco all’ultima commedia di Mario Monicelli, Le rose del deserto, un piccolo gioiello d’altri tempi, un esempio da portare ai ragazzi nelle scuole dopo aver fatto vedere loro un cinepanettone, per fargli vedere la differenza tra il cinema e il pattume. Monicelli ci riporta alla campagna d’Africa dei primi anni quaranta, ad un gruppo di soldati che apprestano gli ospedali di campo nel deserto libico: tra loro la figura malinconica e affettuosa di Haber e quella straordinariamente comica di Placido in versione pugliese doc (ma di quella comicità che lascia un buon sapore in bocca come un buon bicchiere di vino, non quei frizzi e lazzi volgari come una bevanda gassata che ti lascia solo la voglia di ruttare).
Monicelli mescola i toni di dramma e commedia con una grazia e una naturalezza che purtroppo i giovani autori sembrano aver perduto, e si diverte a ridicolizzare la retorica fascista che qui si fa cinema e non sketch come in altri recenti e meno fortunati episodi. Bella anche la fotografia che non può ricorrere ad imperiose scene aeree di stampo hollywoodiano e tantomeno a campi lunghi maestosi (e costosi), ma tocca comunque il cuore di chi sa vedere.
Tutti in piedi ad applaudire il maestro. Signore e signori, questo è cinema. Tutto il resto è noia…