COntinua tra insulti, risse, spintoni e sputi il pietoso giro d’Italia della fiaccola olimpica che arriverà, malandata ma integra, si spera, a Torino. L’evento mi sembra uno dei più involontariamente comici degli ultimi anni. Intanto si parte a Roma passando praticamente ovunque (Taranto, Agrigento, Nuoro e Bolzano, tanto per citarne alcune) con un giro degno di un tour operator folle. Si fanno campagne murali, come se la gente sentisse dentro di sè ardere la sacra passione sportiva e non vedesse l’ora si scendere in strada a salutare, con le lacrime agli occhi, la fiaccola. Solo che le campagne sono quasi sempre presentate da testimonial che sfoggiano abbigliamento sportivo griffato e cellulari di ultima generazione, tradendo quindi la vera essenza dell’evento, che altro non sembra essere che un spot pubblicitario itinerante.
Come tutti gli spot, i più l’hanno snobbato, altri invece si sono proprio incavolati. Ed ecco quindi che la fiaccola, anziché invogliare tutti a stappare bevande americane e comprare cellulari coreani in un clima di consumismo entusiasta, genera effetti perversi, con contestazioni un po’ ovunque (e non solo dei noglobal, come liquidato sbrigativamente da certa stampa).
Ma ne valeva davvero la pena? Che le olimpiadi siano ormai solo un fatto di business lo sappiamo tutti, lo sanno anche a Torino dove la federazione generale dei verdi ha denunciato lo sradicamento di oltre 4 mila alberi, con la costruzione di nove bacini di accumulo di acqua e 300 chilometri di tubazioni per l?innevazione artificiale, per una portata di 2800 metri cubi di acqua all?ora e il consumo di 18 mila chilowatt di energia. Senza contare che manternere gli impianti utilissimi (mai più senza!) di bob e salto dal trampolino ci vorrebbereo 400 mila euro l’anno (facile prevedere che saranno abbandonati dopo breve). La domanda allora è: business per noi o per i produttori americani di bevande e coreani di cellulari?
L’importante, come sempre, non è vincere, è pagare.