Ho un cappotto da diversi anni. Non mi decido a buttarlo via, ma non perché sia taccagno. Il fatto è che quel cappotto lo indosserò due o tre volte l’anno, al massimo. Non che sia brutto, o troppo impegnativo, o che non mi piaccia: è che è un cappotto inadeguato. Cioè va benissimo, è perfetto con il suo bavero appena accennato, il suo tessuto in lana non troppo spesso, la sua linea che arriva a mezza coscia, è perfetto ma per due o tre giorni l’anno. Per tutti gli altri giorni, è inadatto. Troppo caldo a inizio autunno, in quelle giornate di inizio ottobre che ancora portano i riflessi ambrati dell’estate, troppo freddo a fine mese, quando ormai si sente il presagio dell’inverno che verrà.
Si tratta di un cappotto di mezza stagione, e siccome la mezza stagione non c’è più, il suo destino è quello di emergere dall’armadio per un paio di giorni l’anno. Riporlo a posto mi ha fatto riflettere su quanti di noi, in fondo, si sentono un cappotto inadeguato. Me compreso, ovviamente. Troppo leggeri per affrontare il gelo di una quotidianità in cui solo i più feroci si fanno largo, troppo pesanti per mandare tutto all’aria e vivere come cicale prendendo quel che viene così com’è.
Però, quei due o tre giorni l’anno, quei due o tre giorni in cui torna la nostra stagione, in cui siamo noi quelli perfetti, in cui siamo finalmente al posto giusto, quei giorni godiamoceli fino al fondo spremendo al massimo la vita e quello che ci offre. Tornare nell’armadio sarà più facile, dopo che ci avranno notati tutti, noi cappotti inadeguati, ma così indiscutibilmente affascinanti per tre giorni l’anno.