Raramente capita di assistere a una tale divergenza tra una forma espressiva poeticamente così coinvolgente e un contenuto così drammaticamente duro, a tratti indigesto.
I racconti di Mo Yan raccolti nel volume “L’uomo che allevava i gatti” hanno una musicalità straordinaria, tanto che vien voglia di leggerli ad alta voce (complimenti anche al traduttore). Mai una parola fuori posto, un aggettivo inutile, il testo ha una grazia sorprendente e a tratti commovente. Le storie che racconta, di converso, sono atroci.
Siamo nella Cina della politica del figlio unico, tra contadini ben lontani da un’immagine edulcorata che ci viene a volta proposta di “uomini e donne umili ma di buon cuore”. Sono spietati, crudeli, egoisti. Non c’è traccia di senso materno nelle donne, non c’è affetto negli uomini, solo disperata lotta per la sopravvivenza.
A pagarne le conseguenze sono quasi sempre i bambini, i più deboli e indifesi; per non parlare delle bambine, abbandonate per strada dopo la nascita perché se puoi avere un solo figlio, almeno che sia maschio. Non c’è speranza di redenzione in questa umanità, è un libro letteralmente deprimente (ma non lo considero un aggettivo negativo: ti mette di fronte a una cruda realtà che deprimerebbe chiunque).
In particolare il secondo racconto, Il fiume inaridito, è straziante e indimenticabile, nelle sue vivide immagini di morte e disperazione. Un capolavoro assoluto, una lettura consigliata con qualche controindicazione sull’umore.