Only murders in the building: 9
Una delle principali ragioni per cui abbonarsi, anche momentaneamente, a Disney Plus. Ci sono serie che funzionano non per una ragione precisa, ma per una fortunata combinazione di elementi che le rendono uniche. Steve Martin e Martin Short sono una coppia formidabile e dipingono due anziani artisti (un attore e un regista teatrale) coinvolti loro mal grado in una serie di delitti su cui indagano: solo, però, i delitti che avvengono nel palazzo in cui risiedono a New York. Ma si tratterebbe solo di una commedia con una coppia di anziani nostalgici se non ci fosse un terzo elemento, la Mabel interpretata da Selena Gomez, con la quale decidono di realizzare un podcast.
Il racconto giallo umoristico è un classico della televisione, ma se in questi anni sta vivendo un successo così trasversale tra il pubblico il merito è anche di serie come questa. Una serie che ha le battute sagaci della situation comedy senza i limiti di quel format, con una regia accurata e ricca di inventiva. Straordinari.
Paradise: 6,5
La serie ha inizio con l’omicidio del presidente degli Stati Uniti, e il capo della sua sicurezza personale che si muove sulla scena del crimine per capire come abbia potuto accadere. Sulla storia posso dire poco di più, perché è caratterizzata da un susseguirsi di colpi di scena che portano il racconto a superare i confini tradizionali del genere crime. Chi detesta i flashback lasci perdere: sono la colonna portante di questa vicenda, in cui procediamo nello svolgimento dell’azione e al tempo stesso ripercorriamo gli ultimi giorni del presidente.
Curatissime la fotografia e il montaggio, la confezione è di quelle che si distinguono per qualità. Personalmente ho amato in particolare il ricorso alla musica rock anni Ottanta in chiave nostalgica (“Here I go again on my own...), i personaggi sono ben delineati: si tratta, per capirci, di una di quelle serie in cui non ci sono buoni e cattivi.
Perché allora un voto poco più che sufficiente? Perché la sceneggiatura crolla sul finale estremamente forzato: coerente nel suo complesso, ma spiattellato lì, violando la legge principale di un racconto giallo, e cioè che il lettore, o spettatore, a quel finale ci sarebbe potuto arrivare da solo. Peccato.
A murder at the end of the world: 7
Se c’era un limite alle serie televisive di una volta, quelle che noi chiamavamo telefilm, è che erano ambientate quasi sempre nelle città grandi città americane: New York, Los Angeles, San Francisco.
L’esplosione della televisione via streaming ha portato soldi da investire anche in contesti molto originali, come nel caso di questa serie, ambientata in Islanda. La fotografia di una terra così suggestiva da sola vale il tempo da dedicare a questa storia.
Le atmosfere da “Dieci piccoli indiani”, in cui un gruppo di ospiti è testimone di una serie di omicidi e inevitabilmente si fa trascinare dall’ansia e dalla paranoia, sono amplificate dall’isolamento provocato dalle bufere di neve intorno ai protagonisti. Nessuna nuova grande idea, per carità, ma tanto mestiere. E poi il finale è notevole, apre le porte alla riflessione sulla contemporaneità e su come la tecnologia ci sta cambiando. Mettetelo in lista.