Non sono uno di quei papà che aspetta con ansia le prime frasi dotate di senso compiuto, il primo giro in bicicletta dell’erede, il primo disegno comprensibile.
Quelli sono momenti importanti che verranno in seguito, e saranno bene accolti. Per il momento, mi sentirò realizzato quando riuscirò a spiegare a mia figlia che con quello che costa il nido, sarà bene che ci dorma il meno possibile (alla faccia delle educatrici che vorrebbero riporre i pargoli nel lettino e silenziarli) e che soprattutto ci caghi almeno un paio di volte.
In attesa del vasino (non vedo l’ora), che le tate si guadagnino la pagnotta.
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Guardiamo i cartoni?
Come giovane papà ho il dovere di fari una cultura di cartoni animati, o per lo meno di rinfrescare la mia. Purtroppo non ci sono più in giro Grande Mazinga, Goldrake e Jeeg Robot d’acciaio, con i quali avrei fatto un figurone con mia figlia.
Ma nemmeno Candy Candy, Anna dai capelli Rossi e l’Ape Maia, se si esclude qualche replica sui canali locali. Oggi ci sono Winnie the Pooh, per i più piccolini: la straordinaria idea di trasformare dei giocattoli in personaggi televisivi, per vendere poi giocattoli. E le Winx, cui spero arriverò più tardi, perché non sono ancora pronto a sorridere di fronte a delle eroine vestite (vestite?) come hai miei tempi si vestivano le vallette di Colpo Grosso.
Poi ci sono i film d’animazione.
E se una volta ti potevi fidare del solito filmone natalizio targato Disney, tranquillizzante, reazionario quanto basta, con qualche messaggino satanico qui e lì ma fondamentalmente inoffensivo, adesso di film d’animazione ne escono ogni mese.
Oltre a quelli della Disney ci sono quelli della Dreamworks (adoro Shrek ma non sempre i suoi epigoni sono all’altezza), poi ci sono quelli della Pixar che sono sempre Disney ma più scanzonati, e ancora quelli dell’Era glaciale che sono moderni ma con un’animazione più tradizionale, e poi i film d’autore italiani come quelli di D’Alò, e poi quelli sperimentali tedeschi, e quelli poetici francesi, e…
Che ansia. Confidiamo nella mamma.
L’ansia prospettica
Tutti i genitori prima o poi scoprono di coltivare un po’ d’ansia nei confronti dei figli, di ciò che può succedere loro, del futuro.
Si va dagli apocalittici, che sconsolati ripetono che i loro bambini non vedranno l’alba del trentesimo anno perché il mondo finirà prima per via dei riscaldamento climatica, agli iperigienisti, che lavano e disinfettano tutto ciò che è a tiro del pargolo e lo rivestono di mascherina e guanti se proprio si rende necessario un contatto con l’esterno. Io non appartengo a nessuna di queste categorie, certo il succhiotto lo sciacquo se cade per terra, ma non sono troppo ansioso sul presente, e neanche sul futuro prossimo. Quello che mi mette in crisi è il futuro più lontano.
Che ci sarà, non sono mica apocalittico.
Però, sarà colpa della letteratura e del cinema di cui mi nutro o forse della mia formazione, le domande che mi pongo io sono: ma non è che partendo dal capellino firmato di Winnie da Pooh non arriviamo dritto dritto alle Winx e quindi al “papà voglio le scarpe di Prada”?
Non è che tutti questi pannolini imbottiti le faranno venire un sederone grosso così (a me piacciono le fat bottom girls ma non è detto che piacciano a lei)? Non è che a furia di sentire i discorsi del papà, per imitazione ed esagerazione, mi salta fuori un’anarchica inserruzionalista? Oppure, peggio ancora, per differenza, una clerico fascista? Mentre facevo zapping l’altro giorno, non avrà mica visto per caso Emilio Fede? No, eh? Perchè a questa età sono delle spugne.
Pochi minuti di TG4 adesso possono voler dire fra vent’anni: “Mi consenti, papà, cribbio! Anche se tu remi contro, io scendo in campo e vado a fare il provino per veline”
A quel punto la fine del mondo anticipata sarebbe una soluzione preferibile.
La sindrome del budget
Ci sono tanti modi più o meno sofisticati per capire quello che sta succedendo in America e che presto raggiungerà il resto del mondo.
Banche che falliscono, famiglie per strada dopo aver perso la casa…
Si tratta dei sintomi di una patologia moderna del sistema dei servizi: la sindrome del budget. Il budget è un obiettivo che le imprese si danno e che nella maggior parte dei casi è annuali. Entro la fine dell’anno dobbiamo aver raddoppiato il fatturato. Entro due anni la nostra redditività deve essere cresciuta del 20%. E così via. In confronto i piani quinquennali di staliniana memoria erano bazzeccole da principianti. Che male c’è se un’azienda dei servizi si dà degli obiettivi? Nessuno. A parte il fatto che
- questi obiettivi sono quasi sempre sovradimensionati, perché nessuno vuol crescere meno dei concorrenti, e questo genera una reazione a catena
- questi obiettivi generano un effetto domino che parte dalla direzione aziendale e coinvolge il management, poi le sedi sul territorio, poi le succursali, poi i reparti operativi.
Il risultato è che il bancario, o il dipendente di una finanziaria, o il responsabile di una telecom deve necessariamente raggiungere un certo numero di contratti entro la fine dell’anno. Se non lo fa niente premio di produzione, nella migliore delle ipotesi; posto perduto nella peggiore. Ed ecco che il nostro uomo comincia per forze di cose a sottovalutare i rischi, a concedere il mutuo ad una persona non troppo affidabile, e a costruire su quel mutuo una piramide di servizi accessori quali assicurazioni, investimenti derivati, aperture di conto…
L’ansia ossessiva del budget può accecare il più equilibrato degli operatori, può fare aprire contratti ADSL a vecchiette novantenni che a malapena usano il telefono, può caricare di inutili servizi accessori il conto corrente di un operaio che lo usa solo per ritirare lo stipendio, può concedere un mutuo superiore al valore della casa.
Fate bene attenzione, anche il settore industriale ha i suoi budget. Ma nessuno può chiedere ad un operaio di costruire dieci autovetture all’ora, da solo, senza passare per pazzo. Ai bancari questo è stato chiesto.
L’hanno fatto, e bene, per parecchi anni, raggiungendo i budget sempre più "sfidanti" (nel gergo si dice spesso così, con una pessima traduzione dell’inglese challenging). Inventando nuovi prodotti e perfezionandone di vecchi. Con una creatività che ha gonfiato i risultati su una pila di carta sempre più lontana dall’economia reale.
E i risultati li vediamo….
Rivoglio il mio giornalino gratuito!
Sono un discreto lettore di free-press. Mi riferisco a quei giornalini gratuiti pieni zeppi di pubblicità che vengono distribuiti in giro. Qualitativamente sono piuttosto scarsi (copiano e incollano pari pari molte agenzie e articoli di praticanti/stagisti/aspiranti), però a caval donato non si guarda in bocca. A dire il vero, non è solo il fatto che siano gratuiti a piacermi (in fondo un quotidiano costa meno di un caffé), anche perché erano gratuiti anche quei giornalini pieni di annunci che andavano di moda qualche anno fa e li prendevo solo per pulire i vetri.
La free-press mi piace perché risponde ad un’esigenza, quella di leggiucchiare qualcosa di fretta in autobus, o in pausa pranzo, o addirittura nel parcheggio. Non ti mette l’ansia delle novecento pagine di un quotidiano, tra le quali devi immergerti per trovare quello che ti interessa, sommerso come sei di editoriali, promoredazionali e chiacchiere da uffici stampa; e poi non ti lascia neanche lo scrupolo di coscienza di averne letto solo il 3%. C’è un risvolto della medaglia spiacevole, però. La free-press è imprevedibile: non nei contenuti, ma nella distribuzione. Rilanciando il ruolo strategico del vecchio strillone, sostituito da immigrati con i polmoni più grigi del sacchetto di un aspirapolvere, il giornale gratuito si recupera la mattina agli incroci. E allora può capitare di perdere la copia perché il verde scatta prima che arrivi il tuo turno: oppure perché il distributore è distratto. Oppure, e questa è la mi situazione, perché un giornale prende il posto si un altro. Questo è il mio caso: il semaforo di Via San Donato (otto strade che si intersecano e una porta medievale in mezzo, sembra un dungeon fant-horror più che un incrocio), da sempre presidiato da City, il mio giornalino preferito, da qualche tempo è stato conquistato da Metro. Il cambio non mi soddisfa, Metro praticamente non ha notizie locali, dedica spazi a viaggi e costume e sa molto di accrocchio (almeno City e Leggo una linea editoriale molto vaga ce l’hanno).
Rivoglio City.
Come? Dovrò cambiare strada, evidentemente.
Chissà che il traffico non si possa misurare anche da questo.
Waiting for Report
Dopo solo cinque domeniche, l’unico programma televisivo capace di tenermi seduto di fronte al televisore per più di venti minuti senza neanche un po’ di zapping, senza mai distrarmi, senza mai un’occhiata al cellulare, si è concluso.
Sto parlando di Blu notte, la splendida trasmissione di Lucarelli sulla splendida Rai Tre, l’unica emittente rivolta al cervello degli spettatori, ora che anche la Gialappa’s si è persa nella spazzatura guardona dei reality. Gioiscono gli ipocondriaci e gli acciaccati d’Italia perché torna Elisir, che non è male ma insomma, mette un po’ d’ansia scoprire tutti quei sintomi di malattie gravi così simili ai nostri fastidi.
Domenica sera leggerò, o giocherò con i videogames, o magari scriverò. O guarderò la tivù facendo zapping, inviando sms, sfogliando riviste.
Aspettando il ritorno di Report, che prima o poi torna…