Perché si crede? Per avere una consolazione nei momenti più difficili, per dare un senso a ciò che non comprendiamo, per trovare un conforto di fronte alla morte. La domanda con cui ho aperto questo post è LA domanda per eccellenza, essere o non essere. Pascal diceva che in fondo credere è una scommessa che può solo essere vinta. Se Dio c’è, bene, abbiamo vinto. Se con la nostra morte scomparirà anche la nostra coscienza, allora abbiamo perso, ma non lo sapremo mai.
Io non sono né un teologo né un filosofo, e negli ultimi cinque millenni ce ne sono stati di veramente validi a dibattere sul tema. Non mi riferisco a chi ha nascosto dietro alla religiosità solo uno straordinario simulacro per esercitare il proprio potere, ma a menti dotati di una brillantezza tale da intimorirmi anche solo al nominarle. Però se devo rispondere a qualcuno spiegando perché credo, gli rispondo perché preferisco la lectio difficilior. In filologia, con questo termine si identifica la versione “più difficile” appunto da un punto di vista morfologico, lessicale, semantico. Se dello stesso testo esistono più letture, o lectio, quella difficilior ha più probabilità di essere vera, perché nell’atto di copiare, nel dubbio, l’amanuense avrebbe scelto quella più facile. Se ha scelto quella più difficile, è perché era certo.
Che noi siamo semplicemente esseri animali più evoluti di altri, la conclusione di un processo durato milioni di anni che ha avuto origine casualmente è sicuramente la lectio facilior, la lettura più facile. Nasciamo, cresciamo, muoriamo. Avanti un altro. La scelta atea è quella che meglio si adatta alla nostra razionalità che si basa su esperienze e prove: noi vediamo i nostri cari morire, nessuno ha mai visto una persona risuscitata (con l’eccezione di pochi contemporanei di Gesù Cristo, ma una prova documentale indiretta basata sulla tradizione difficilmente trova un posto di rilievo nella logica stringente). Secondo il metodo scientifico basato sull’esperimento, Dio non esiste, perché la sua esperienza non è dimostrabile. E anche le affascinanti costruzioni logiche di pensatori che hanno cercato di spiegarne l’esistenza tramite il ragionamento hanno tutte qualche elemento di debolezza. Eppure, dopo circa 5, forse 6 milioni di anni di presenza dell’uomo sul nostro pianeta, questa lectio non è ancora scomparsa. In alcuni momenti recede, in altri cresce, ma c’è, è ancora presente. Si potrà dire, come ho detto all’inizio, che sopravvive perché ci fa comodo. Perché noi siamo talmente intelligenti e presuntuosi da esserci creati una proiezione di noi stessi e averne fatto un Dio. Anzi, diversi dei, a giudicare dalla varietà di religioni presenti al mondo. Io credo che se milioni di uomini in tutte le culture e le società del mondo hanno immaginato una entità soprannaturale è perché c’è da qualche parte dentro di noi una traccia che ci porta a tale immagine. Un istinto, se vogliamo. Un istinto che deve portarci a sentirci più vicini agli altri, e non a dividerci e magari massacrarci, come purtroppo succede spesso. Anche se in questo caso devo dire agli amici atei che attribuiscono alla fede la colpa dei conflitti che l’uomo è bravissimo a trovare scuse stupide per azzannare il fratello: la fede è una, ma c’è anche la patria, la bandiera, la famiglia. Se credessimo davvero non potremmo mai prendere in mano un’arma, perché nessuno è così imbecille da giocarsi un’eternità di pace e serenità nell’altro mondo per pochi scampoli di successo in questa.
Rimango comunque rispettoso di chi non crede, ci mancherebbe. L’importante è che ricordino che a scegliere la lezione facile sono stati loro, non io che credo in quella più improbabile, incredibile, insostenibile. In una parola, difficile.