Mattina grigia, lunga giornata di lavoro che si dipana in prospettiva, noia, stanchezza. L’autoradio trasemtte le informazioni sul traffico, ogni tanto fa bene ascoltarle e e consolarsi pensando di non essere sulla tangenziale di Mestre o a Corso Malta a Napoli, tutto a un tratto un campanellino riattiva una connessione neurale e mi sveglia. La voce alla radio, atona e piatta, ha consigliato di evitare un incidente sulla tangenziale di Milano “bypassando la zona” tramite un percorso alternativo. Bypassando? Vuol dire passare cantandìo bye bye? Intervenire sul cuore di una zona con un apparecchietto che ne sostiene l’apparato cardiaco?
Ma fatemi il piacere, voi e i vostri consigli sul traffico. Io gli incidenti li evito, li aggiro, li schivo, al massimo, se sono in vena poetica, li eludo.
Ma non li bypasso.
Bye Bye, passo.
E chiudo.
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La tigre e la neve
Benigni ricalca i terreni fertili della malinconica comicità (o della comica malinconia) già sperimentati con la Vita è bella, e lo fa senza rischiare molto. In alcune scene (memorabile quella del campo di mine antiuomo) c’è il suo talento di mimo straordinario che ricorda i migliori momenti di Johnny Stecchino; in altre (il viaggio in moto e in cammello) c’è quel suo straniamento, quel rapporto con le cose fanciullesco, angelico e diabolico al tempo stesso che rece celebre il Piccolo Diavolo; il altre ancora (la lezione universitaria) si riscopre il Benigni delle ultime fatiche dantesche, quello che coniuga la poesia con la barzelletta. Purtroppo manca completamente la cattiveria del primo Benigni di Berliguer ti voglio bene e il surrealismo di Tu mi Turbi, che avrebbero fatto comodo frenando quel buonismo che ogni tanto emerge fastidioso. E dunque? E dunque siamo di fronte ad un ottimo film, diligentemente costruito, prodotto con cura, con buoni personaggi di sfondo (il collega, le figlie, il medico iracheno) ma siamo lontani dal capolavoro, purtroppo. Intanto la regia è latitante, ma questa non è una novità, purtroppo, per Benigni. Il personaggio di Jean Reno è abbozzato, sospeso, tratteggiato un po’ grossolanamente; ma quello che risulta veramente devastante, insopportabile, pesante, noioso, fuori luogo, insostenibile, inammissibile, irritante, sgradevole e indisponente è il ruolo di Nicoletta Braschi. Mi dispiace dirlo ma le uniche scene in cui recita bene è quando il suo personaggio è in coma; d’altronde anche quando è sveglia l’espressione è identica. Fino a quando dovremo sopportare la presenza della Braschi nei film di Nenigni? Non se ne può proprio fare a meno? ? atona, inespressiva, piatta, spenta, smorta, inefficace, scialba. Non credo la colpa sia solo sua: l’ho vista recitare in altri film senza il marito dove raggiungeva almeno la sufficienza. Ma qui è completamente fuori ruolo, è diretta male, sa di finto, artificioso. Credo non sia un caso che il momento migliore della Vita è bella sia la seconda parte, quando lei scompare. Anche qui, il film funziona nella seconda parte, quando lei sta stesa immobile sul lettino. Quando si riprende, purtroppo è lo spettatore che soffre.
Forse dovremmo organizzare una petizione: 100, 200 mila firme per convincere Benigni a farsi dirigere da un professionista (anche un giovane aiuto regista di buone speranze, anche un mestierante televisivo, ma un regista vero) e per espellere per sempre dai suoi film la Braschi. Basta. Siamo contenti che tuo marito ti voglia bene, passa insieme a lui tutto il tempo che vuoi, sostienilo e accompagnalo, produci pure il film. Ma quando si tratta di recitare, per piacere, lascia spazio ad una che lo sappia fare…