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E mo’…bici!

Ebbene l’ho fatto. Sono tornato in bici, a quasi vent’anni da quel furto che segnò negativamente la mia esperienza di ciclista sotto le due torri. Era il 2000, dopo 6 anni a cavallo di ferraglia sgangherata, troppo arrugginita per interessare un ladro, avevo finalmente deciso di acquistare una bicicletta. 250 mila lire, usata, ma per un laureando era tanto, “tanta roba” come dicono a Bologna. Durò poche settimane, e l’immagine dei due lucchetti spaccati ancora evidentemente sconvolti e abbracciati al palo dove l’avevo legata mi ha perseguitato per anni.
Ma con Mobike è tutto diverso. Il funzionamento lo conoscete, si installa una app, si caricano pochi euro sul conto, e attraverso una mappa si va alla ricerca della bici più vicina da individuare, sbloccare, e lasciare una volta arrivati a destinazione.

La prima sgradevole impressione è che l’italiano è pur sempre un italiano, anche se va in bici. Ho individuato almeno tre mobike vicine a casa mia, ma invisibili: semplicemente, il genio l’ha lasciata in garage, per poterne usufruire a proprio piacimento. Si tratta di un malcostume che – ho letto – è piuttosto comune, e racconta bene la crisi prima di tutto morale di un paese che non riesce a superare le sue grettezze.

La seconda impressione è l’euforia di tornare a circolare in bici dopo tanti anni, su una bici tutto sommato comoda. Ha tre marce: la marcia Fantozzi con cui puoi pedalare quanto vuoi, resti sermpre lì, la marcia Coppi, con cui hai l’impressione di scalare le Alpi anche se sei in via Indipendenza, e una marcia intermedia che chiameremo “tu” perché è quella che userai tu. Ricorda che se sono trascorsi vent’anni dall’ultima volta che hai preso la bici, ne sono trascorsi venti anche per la tua prostata. Trattala bene. Le strade del centro di Bologna non hanno il problema delle buche, ma il rimbalzo sui mattoni di via Zamboni fanno male lo stesso. Penso che gli over 40 apprezzerebbero molto una versione moll-bike con un sedile imbottito e comodo, ma non stiamo a piagnucolarci addosso, che con la pancia le lacrime si fermano tutte sull’addome e non è bello.

La terza impressione è che le piste ciclabili sono belle (specie quando sono vere piste e non banali strisce bianche sul marciapiede) ma hanno la brutta tendenza a portarti dove vogliono loro. Perché tu ti fai prendere da quella trance agonistica e segui quelle strade con passione, ed è un attimo finire alla Bolognina quando invece dove andare in Via Saragozza. Non ho provato la tangenziale delle bici, ma so che quando lo farò comincerò a girare in circolo dimentico completamente delle destinazione, nel caso venite a cercarmi addormentato vicino a qualche albero, senza nemmeno l’ansia che qualcuno mi porti via la bici.

Mobike m’hai provocato, e io te pedalo.

Mezzo tappo in un secchio

Lo sguardo rivolto fuori dal finestrino, il telefono in una mano, il capo di un sacchetto pieno nell’altra, poggiata per terra. Fa caldo, per essere ottobre, ma lui non lo sa perché è il suo primo ottobre a Bologna. L’autobus semivuoto ferma rumorosamente, lui alza la voce per farsi sentire.

«Certo che sto andando a letto, appena rientro, che vuoi che faccia.»
Sguardo a curiosare nell’autobus alla ricerca di uno sguardo di intesa.
«E va bene, se proprio insisti darò una lavata al pavimento visto che non lo faccio da alcuni giorni, mezzo tappo di detersivo in un secchio.»
Vorrebbe usare lo smartphone per distrarsi con qualche gioco, ma non può, perché è al telefono e l’interlocutore non molla.
«Non fa freddo, te lo assicuro. Si, fra poche fermate sono a casa. Capirai, è sabato sera e sono le dieci meno un quarto, proprio una seratona.»
Si afferra il bavero della giacca, lo accarezza, una smorfia contratta sul viso.
«Ho quello marrone. Fa caldo, con quello verde, te l’ho detto. Quello marrone va benissimo.»

Arriva la mia fermata e devo scendere, ma io conosco quel ragazzo che parla al telefono. Non so come si chiama o dove abiti, ma so chi è, perché lo sono stato anch’io. È uno studente fuorisede. E meridionale, perché durante la conversazione hanno anche parlato di tempo di cottura e sugo, o qualcosa del genere, purtroppo ho perso qualche passaggio. Chissà se sua madre gli nasconde il dentifricio e le lattine di tonno nelle tasche dello zaino, come faceva la mia, che c’è rimasto un po’ di spazio e non si sa mai.

Ogni anno li rivedo a Bologna: lui o lei davanti, lo sguardo sognante a fissare le vetrine dei negozi così grandi, i coetanei in giro, il pensiero a quelle aule dove si arriva con i libri sotto braccio e si scelgono le lezioni da seguire. Poi la mamma, che si domanda come farà a curarsi quando avrà l’influenza, quale sarà il posto migliore dove fare la spesa, se basterà un cambio di lenzuola, se il suo compagno di camera non nascondeva qualcosa di losco, come se la caverà con il fisso che gli passeranno ogni mese. Dietro il papà, che pensa soltanto come se la caveranno loro, con il fisso che gli passeranno ogni mese.
Bologna ha una miniera di diamanti a cielo aperto, e sono le migliaia di studenti fuori sede che la popolano. E non solo per la faccenda degli affitti, delle spese, dell’indotto, che c’è, ma non è l’aspetto più importante. Molti di quei ragazzi, dopo la laurea, si fermeranno qui, ne arricchiranno il tessuto sociale, ne potenzieranno le imprese, ne creeranno di nuove. Ci sarà pure qualche inutile addetto stampa che se ne andrà a lavorare in Appennino, ma insomma, si tratta di fallimenti trascurabili e minoritari. È come se a una squadra di calcio arrivassero continuamente rinforzi di cui non deve neppure pagare il cartellino. Mentre le “squadre” del sud si spopolano e si impoveriscono. Ora, il rischio serio che si sta  profilando è quello che questi diamanti se ne vadano altrove, in Francia, Germania, Spagna, Regno Unito (lì forse meno).

E sarà dura, molto dura, perché su certe moquette tedesche altro che mezzo tappo di detersivo in un secchio, ci vuole.

PS Io sono stato molto più fortunato, di quel ragazzo, perché lo smartphone non c’era ancora.

Va’ là va là, vieni qui, e altri tranelli per il sudista ingenuo

Una delle prime difficoltà che il sudista trasferito in Emilia deve affrontare riguarda la corretta interpretazione di alcune strutture lessicali. Per carità, non parliamo dei veri e propri problemi di lingua che un protosudista, capace magari di esprimersi solo in dialetto, poteva incontrare il secolo scorso. Si tratta semmai di piccole sfumature, artifici grammaticali che possono mettere a disagio. Sappiamo tutti che il tiro è il pulsante per aprire il cancello e il rusco è l’immondizia, sono la seconda e la terza nozione che apprende una matricola universitaria appena giunta in città (la prima è che addentare la pizza di Altero senza aver prima aspettato qualche minuto provoca ustioni di terzo grado a labbra, palato, esofago e bocca dello stomaco).

Anche i meno esperti possono dare sfoggio della loro integrazione rispondendo “altro!” al salumiere che domanda “altro?”, con vezzoso francesismo, e pazienza se il salumiere è di Battipaglia e vi prende per scemi. Qualcuno ancora può spaventarsi al telefono udendo di amici che spiegano di essersi rifatti il bulbo, ma niente trapianti di cornea, si tratta semplicemente di un passaggio dal parrucchiere.

Sugli avverbi di luogo, tuttavia, qualche perplessità può sorgere. Come tradurre infatti “Dal di lì, lui là è rimasto qua“?Dov’è esattamente, lui, sta qua? Veniva da lì? E che faceva là allora? Cosa è successo? Agli emiliano-romagnoli piace confondere le coordinate spaziali: “va là, va là, vieni qui che ti faccio vedere” capite che può essere un’espressione che genera un certo imbarazzo. Il fatto è che quello che conta non sono tanto le parole, ma il tono con cui sono espresse, e per aiutarvi dovreste farvi leggere questo articolo da un indigeno. Che potrebbe per esempio sintetizzare un “esprimi chiaramente il tuo dissenso su questo argomento, se davvero nei hai il coraggio” con un meraviglioso: “di’ mo‘”. Oppure sostituire un prolisso “vedi un po’tu quali conclusioni trarre a proposito” intonando un “fa’ te”.
Direi che come introduzione basta, bona lè.

Però se vi offrono una cicles, non rispondete che preferite andare a piedi. Trattasi di giungomma.

Il colesterolo passivo

fritturaSuperata la soglia dei quaranta ci si abitua a salutare tanti superpoteri che si affievoliscono con gli anni: il superpotere di essere sufficientemente lucido dopo una notte quasi insonne, quello di saltare un pranzo senza gravi effetti collaterali, quello di giocare due partite di calcetto consecutive senza dieci giorni di intervallo tra una e l’altra. Anche il metabolismo, quella magia che bruciava salame, cioccolata e patatine fritte e la trasformava in energia comincia a battere la fiacca. Il risultato è che bisogna cominciare a fare più attenzione alla dieta evitando salame, cioccolata e patatine fritte.

E qui però sorge un problema gravemente trascurato dalla comunità scientifica. Quello del colesterolo passivo. Perché sappiamo tutti che vivere con un fumatore fa male anche ai nostri polmoni. Così come è noto che in caso di convivenza con un matto prima o poi si rischia di ammattire.

Ma del colesterolo passivo, vogliamo parlare? Vogliamo parlare di un povero disgraziato che circondato da ventenni tonici si strazia per una mezz’oretta in palestra per bruciare ventigrammi di grasso, e nella strada del ritorno a casa è assalito da pizzerie d’asporto, sushi, trattorie, ristoranti chic, tavole calde e chi più ne ha più ne metta che sprigionano un unto tale che a raccoglierlo si rimpiono un paio di silos? Vogliamo parlare di questa benedetta food city in cui anche la rugiada al mattino è una miscela satura di olio di semi? Le pozzanghere a Bologna non si asciugano mai perché in larga parte sono composte da olio di frittura esausto. E io questo colesterolo lo assumo quotidianamente. Perché ormai in questa città si cucina ovunque, nelle librerie, nei cinema, in piazza, sotto i portici. E anche nelle case, certo: solo che una volta cucinava solo chi ne aveva bisogno per poi mangiare. Ormai anche gli architetti, i postini in pensione e le estetiste nel tempo libero sfornano, impastano, cuociono.

Quella che cala la sera in pianura padana non è nebbia, sono i vapori sprigionati dalla frittura proveniente dalle cappe domestiche. L’unica speranza è che il vento si porti via tutto e provochi una tormenta di dislipidemia sulle coste croate.

Grand Tour Bologna

Grand Tour BolognaNell’epoca della multimedialità alla portata di tutti, delle foto ad altissima risoluzione e delle recensioni che si aggiornano in tempo reale, “Grand Tour Bologna” della casa editrice Pendragon è prima di tutto un’operazione editoriale coraggiosa. Perché si tratta di una guida turistica compatta, dedicata con affetto e maniacale attenzione a Bologna, alla sua vita culturale e commerciale, alle sue mode e ai suoi gusti, essenzialmente e fondamentalmente cartacea. Niente sito, per ora, niente contenuti via socialnetwork, niente cd-rom (si vabbe’ il cd-rom allegato fa tardo paleolitico, mi scuso per quest’ultimo commento). Una guida fatta quasi escusivamente di contenuti, non vi troverete infatti foto o illustrazioni: per quelle d’altronde basta farsi un giro in libreria per trovarne a bizzeffe, oppure accedere a Internet. In compenso però troverete quel genere di informazioni che vi darebbe un amico che vi consiglia un bar dove fanno un’ottima cioccolata in tazza, o che vi suggerisce un festival da non perdere, oppure un negozietto dove trovare dei prodotti veramente insoliti. Tante notizie per scoprire e riscoprire la città (a proposito, i cinquantenni con i primi problemi da vicino si rassegnino agli occhiali, per farci stare più roba le autrici hanno usato un corpo da bugiardino farmaceutico). Quel genere di informazioni che nelle guide tradizionali appaiono magari come contorno, nella colonna colorata accanto alla foto della piazza.

Informazioni che nascono dalla passione per la città felsinea che emerge tra le righe e che le due giornaliste Giorgia Olivieri e Francesca Bleasio non riescono proprio a nascondere. E sia ben chiaro, non troverete i soliti publiredazionali che dietro una bella recensione nascondono una lauta mancia al giornalista. Perché la credibilità di questo libro nasce proprio dal fatto che racconta angoli della città, esperienze e storie che gli altri non solo non recensiscono, ma non vedono proprio. Insomma, una guida (a proposito, io la considero guida turistica senza che ciò rappresenti un discredito, anzi: si tratta di un genere letterario di tutto rispetto e con un glorioso passato che anzi andrebbe riscoperto, perché le stelle e i voti dei portali online non restituiscono il colore di uno sguardo autoriale) che mi sento di consigliare sia ai bolognesi, che in questo modo, sono sicuro, scopriranno qualcosa che non conoscono della loro città, sia ai turisti e ai visitatori. Magari da affiancare ad una guida “istituzionale”, di quelle con le foto dei monumenti e i numeri utili insomma, giusto per avere il pane da associare al companatico.
PS Di recente è stata resa disponibile anche la versione in inglese. Ma se avete letto fin qui, evidentemente, non vi serve: ma sai che figura se lo regalate al nipote d’America che ha dimenticato la lingua madre?

Arrivederci professore. Deve ancora farmi quella domanda…

Umberto Eco il giorno della mia laurea15 settembre 1994.
Dopo una notte passata in un albergo di via Galliera a Bologna, un giovane pugliese alle prime esperienze “da grande” si aggira sperduto nei pressi di un freddo piazzale in viale Berti Pichat. La città l’ha lasciato un po’ perplesso, non è proprio bella come se l’aspettava ma d’altronde ha visto stazione, via Galliera di sera e i viali, ed è un po’ prematuro da parte sua esprimere un giudizio. Una folla di altri giovani alle prime armi come lui chiacchiera nel piazzale. Sono centinaia. E non sono tutti: le domande per accedere al test di selezione di Scienze della Comunicazione sono state più di 4000, i posti sono 150. I test sono stati organizzati in diverse strutture. Il giovane pugliese è affascinato dalla potenza organizzativa dell’Università più vecchia del mondo, se pensa che lui al liceo faceva ginnastica all’aperto solo nei giorni di bel tempo, quasi ha un mancamento di fronte alla grandezza che gli si propone innanzi. Una voce lo scuote da suoi sogni, è una persona che riconosce: è Umberto Eco, il professor Umberto Eco, che si avvicina e chiede: ragazzi, ma è qui che si tiene il test per scienze della Comunicazione?
Il giovane pugliese pensa allora che tutto sommato anche la potenza nordica di Bologna mostra qualche limite. Ma tanto lui sa che quel test non lo passerà mai, non ha nemmeno preso 60 alla maturità, è qui solo per farsi un’idea, punta semmai di essere ammesso a Siena.
Estate 1996
Il professor Eco è seduto in fondo alla stanza, gioviale e chiacchierone come sempre. Spiega che ha letto la tesina che il pugliese e un amico romagnolo hanno predisposto, è un ottimo lavoro, diligente e accurato. I due hanno analizzato un ipertesto sul processo di Norimberga, prodotto su floppy-disk (floppy-disk!)  e i loro commenti sono tutti a segno. L’esame di semiotica del testo sembra indirizzato ad un successo. La sua assistente Giovanna Cosenza interviene: si, il lavoro è accurato, però, però. Però non esageriamo. Non è che i due abbiamo scoperto la ruota. Non bisogna essere di manica troppo larga. C’è un attimo di dibattito, il pugliese è concentrato per trattenere lo sfintere e le altre funzioni vitali che in quel momento lo avvicinano all’uomo primordiale, che evacuerebbe e scapperebbe via. Sembra ci si indirizzi verso il trenta. Il professore alza gli occhi verso i due, e lancia la sfida. Facciamo così: vi faccio una domanda. Se rispondete bene, 30 e lode. Se sbagliate 28. Altrimenti ve ne andate con un 30. Lascia o raddoppia, insomma. Solo che il Mike Bongiorno in questione non è uno qualunque. Farsi interrogare da lui in semiotica è come rispondere ad una domanda di Dante sulla poesia medievale, o di Einstein in fisica teorica. I due giovani si guardano per un millesimo di secondo, allungano il libretto quasi in contemporanea. Il trenta andrà benone.
Caro professore, non saprò mai cosa ci avrebbe domandato, e se saremmo stati in grado di risponderle. Porterò sempre con me un suo insegnamento: essere colti non vuole dire conoscere la risposta ad ogni domanda. Essere colti vuol dire sapere in dieci minuti dove trovare la risposta a quella domanda. Tanto è vero che ai suoi esami scritti si potevano consultare i libri. Con Wikipedia e gli smartphone, che allora non c’erano, forse potremmo ridurre quei minuti a cinque.
Io però quel giorno non credo che sarei stato in grado di risponderle nemmeno dopo dieci ore. O forse si. Magari questo me lo dirà la prossima volta che ci vedremo.

Potrei ancora raccontare della mia seduta di tesi, quando, appena entrammo, il professore si accorse della presenza di mia cognata, che allora era una bimba di otto anni, e mi domandò a brucia pelo: abbiamo appena discusso una tesi su Satanik. La prego, mi dica che la sua non ha temi affini, perché vedo che ci sono minori tra gli astanti. Oppure di tutte le volte che la lezione finiva all’una ma lui rimaneva sull’uscio fino all’una e quaranta per rispondere a tutte le domande che noi giovanotti curiosi gli ponevamo.

Ma il messaggio finale in realtà voglio lasciarlo a tutti coloro che svolgono il prezioso e delicato incarico dell’insegnamento: che voi siate insegnanti in una scuola primaria o docenti universitari, che il vostro sia uno stipendio da titolare di cattedra o facciate fatica ad arrivare a fine mese, non liquidate in fretta le domande dei vostri allievi. Non trascurateli perché vi sentite superiori. Non irritatevi nei momenti di stanchezza. Voi potete davvero incidere nell’esistenza dei vostri allievi. Proprio come il professore fece con la mia.

Questo non dimenticatelo mai.