Domenica mattina: nella sala parrocchiale attigua alla chiesa dove si sta celebrando la messa, un gruppo di papà controlla i piccoli teppisti qui relegati per impedire loro di dare fuoco alle navate con le candele votive, capovolgere i banchi con i nonni appisolati e correre verso l’altare scivolando sul pavimento lucido. Nella saletta gli spazi sono limitati, le possibili arme improprie costantemente monitorate, le bizzoche che guardano di traverso i piccoli rumorosi isolate al di là di una solida parete.
Tra i papà (e qualche mamma) la solita tipologia di accompagnatori: quello apprensivo che accompagna suo figlio maggiore anche sullo scivolo anche se ormai ha 12 anni ed è più grosso di lui, quello distratto che fissa lo smartphone lamentandosi della copertura 3g, quello divertito che osserva il suo figlio bullo che monopolizza gli spazi a discapito di tutti gli altri.
Io rivesto il ruolo di papà scrittore di insuccesso, quindi osservo, scruto, memorizzo e intervengo solo se necessario (in fondo non sono uno scrittore realista, di tanto in tanto mi concedo di interagire nella storia).
Il figlio bullo ha qualche centimetro più degli altri e lo ritiene sufficiente per spostare e spingere tutti quelli che invadono il suo campo. Più che spingere di fatti si limita al gesto appena accennato, una sorta di scostamento che resta comunque piuttosto odioso. La prima volta che spinge mia figlia Serena questa incassa sorpresa, barcolla e si allontana. La seconda volta lei gli lancia uno sguardo irritato, con quel misto di minaccia e rabbia di cui solo i bambini che si ritengono nel giusto sono capaci.
La terza volta schiva la spinta in anticipo, si sposta all’indietro e gli assesta uno spintone deciso. Non è un banale segno di prepotenza, stavolta, è proprio uno spintone che fa cascare da una piccola piattaforma il piccolo bullo, lo manda faccia a terra e lo fa esplodere in un pianto disperato.
Io mi avvicino, lo aiuto a sollevarsi, gli chiedo se si è fatto male (sii, urla il piccolo teppistello, bene, penso io), borbotto a Serena che non è bene spingere, la rimprovero e la allontano dalla scena del crimine.
In cuor mio vorrei sollevarle il braccio destro in segno di vittoria e andarmi a pavoneggiare di fronte al papà divertito, che è un po’ meno divertito e si è dovuto alzare per raccogliere il pargolo strillante. Non lo faccio, perché i giovani papà sono tutti un po’ ipocriti. Mi ripeto però che in un mercato del lavoro che sarà sempre più competitivo non è poi tanto sbagliato se Serena impara già da adesso a far valere la sua candidatura.