Per anni ci hanno riempito la testa con messaggi che reclamizzavano la presenza di ingredienti magici nei prodotti che acquistavamo. Dalle pro-vitamine all’omega 3, l’elenco fatto di strani nomi che vagamente ricordavano termini scientifici o medici, è sterminato.
Poi evidentemente qualcosa nel meccanismo si è rotto. Noi non ce ne siamo accorti, ma siamo entrati nell’era del senza. Ai primordi di questo passaggio c’è la madre di tutte le privazioni, il senza zucchero: improvvisamente caramelle, gomme da masticare, bevande e dolci perdevano il loro elemento caratterizzante di sempre (e acquistavano l’aspartame sui cui effetti collaterali c’è più di qualche dubbio, ma questa è un’altra storia).
Gli americani, più politically correct, usavano espressioni più ambigue, come "light", leggero: noi no, dritti al cuore del problema, senza zucchero. E anche la benzina che qualcuno ha provato a battezzare verde (uno degli ossimori più divertenti dello scorso decennio) da noi è sempre stata "senza piombo". Adesso, in piena era del senza, ecco i succhi di frutta senza zuccheri aggiunti, gli yogurt senza conservanti, le brioche senza aromi, le vernici senza additivi, i formaggi senza grassi. Quasi sempre è roba buona, per cui ti chiedi perché diavolo ce li mettevano, quegli additivi.
Poi capisci che non è il caso di polemizzare: siamo nell’era del senza.
Il prossimo passo sarà pane senza companatico.
Passo che in tanti purtroppo hanno già fatto e non certo per sentirsi light.
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Delusione Coliandro (prima parte)
Non c’è nessuno che sappia meglio esprimere la delusione quanto un fan della prima ora deluso.
MI riferisco al primo episodio della terza serie de L’ispettore Coliandro, a mio modo di vedere il peggiore di quelli sin qui trasmessi. E per me, che ho amato questa fiction come poche in passato, è stato quasi doloroso assistere ad un episodio di una mediocrità imbarazzante.
Ci sono almeno una quarantina di motivi per cui non amo la regia dei Manetti Bros, primo fra tutti il peccato originale di tutti i registi presuntuosi, e cioè l’interruzione della sospensione di incredulità. Quando guardi un loro film, cioè, ad un certo punto capisci che stai guardando un film, a causa di una carrellata virtuosistica o di una steadycam fuori luogo. Ma loro sono fatti così, prendere o lasciare, e bisogna ammettere che sono al di sopra della media degli sceneggiati televisivi,sopratutto sono tra i pochi a saper gestire una scena d’azione sulla scia non tanto di Tarantino, citato spesso a sproposito, quanto dei migliori poliziotteschi anni settanta di Di Leo. Ma non sono stati loro a deludermi, anche se inscenare una rapina ad un portavalori sulla salita che porta a San Luca può risultare estremamente inverosimile per chi conosce Bologna. Ma immagino che sia costato meno girarla lì (di fatti è una strada praticamente deserta nei giorni feriali), e poi i portici fanno scena, e pazienza. Poi non li amo perché riempiono sempre i loro episodi di attori e intrepreti romani: risulta veramente insopportabile che in una serie ambientata a Bologna praticamente non ci siano bolognesi fra gli interpreti principali. Ma questo valeva anche per gli episodi precedenti.
A deludermi profondamente stavola è stata la sceneggiatura, da sempre il punto di forza di questa serie. (continua)
Donne al volante, prima parte
La mia esperienza di automobilista mi porta a dire che in genere le donne guidano meglio degli uomini.
Sono meno prepotenti, meno sicure di sé e quindi meno temerarie, più rispettose del codice della strada. Sicuramente più creative e quindi imprevedibili: mentre di un cafone in gippone lo capisci subito che ti affiancherà mettendosi in preferenziale per tagliarti la strada in fondo al rettilineo, la cafona in gippone ti stupisce, perché magari si inventa un allungo in frenata o un sorpasso da destra che ti lascia senza parole ma quasi sempre incolume.
Ci sono solo due momenti della vita di automobilista incompatibili con l’essenza femminile. Il primo è il parcheggio. Per le donne l’unico parcheggio buono è quello a pettine, sul lato del senso di marcia, possibilmente tra due auto molto distanti e senza strisce per terra che denunciano noiosamente l’imprecisione nella svolta. Tutti gli altri parcheggi sono una rottura di scatole. Quello perpendicolare al senso di marcia richiede un movimento a 90° della vettura che anche alla signorina più abile riesce due volte l’anno. Quello dei centri commerciali (di solito anche lui trasversale) crea gli stessi disagi con l’aggravante che l’ansia da astinenza da shopping innervosisce ancora di più le automobiliste che il più delle volte abbandonano l’auto in fondo all’ultimo padiglione del parcheggio sotterraneo, quello con il muschio e le pozzanghere per le perdite dal tetto, perché almeno lì non ci sono quei noiosi pensionati che ti guardano e scuotono il capo.
Quello in retromarcia poi non ne parliamo: quattro botte alla macchina dietro, una strisciata a quella davanti, e quando scendi ti accorgi che il marciapiedi ti saluta sorridente e ti domanda ingenuo perché non ti avvicini di almeno mezzo metro.
Ho visto auto parcheggiate in seconda fila senza che ce ne fosse una prima: auto parcheggiate quasi sempre da signore.