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L’uomo che allevava i gatti

Raramente capita di assistere a una tale divergenza tra una forma espressiva poeticamente così coinvolgente e un contenuto così drammaticamente duro, a tratti indigesto.

I racconti di Mo Yan raccolti nel volume “L’uomo che allevava i gatti” hanno una musicalità straordinaria, tanto che vien voglia di leggerli ad alta voce (complimenti anche al traduttore). Mai una parola fuori posto, un aggettivo inutile, il testo ha una grazia sorprendente e a tratti commovente. Le storie che racconta, di converso, sono atroci.

Siamo nella Cina della politica del figlio unico, tra contadini ben lontani da un’immagine edulcorata che ci viene a volta proposta di “uomini e donne umili ma di buon cuore”. Sono spietati, crudeli, egoisti. Non c’è traccia di senso materno nelle donne, non c’è affetto negli uomini, solo disperata lotta per la sopravvivenza.

A pagarne le conseguenze sono quasi sempre i bambini, i più deboli e indifesi; per non parlare delle bambine, abbandonate per strada dopo la nascita perché se puoi avere un solo figlio, almeno che sia maschio. Non c’è speranza di redenzione in questa umanità, è un libro letteralmente deprimente (ma non lo considero un aggettivo negativo: ti mette di fronte a una cruda realtà che deprimerebbe chiunque).

In particolare il secondo racconto, Il fiume inaridito, è straziante e indimenticabile, nelle sue vivide immagini di morte e disperazione. Un capolavoro assoluto, una lettura consigliata con qualche controindicazione sull’umore.

Per l’Auditel siamo in Cina

La battuta più simpatica sul festival l’ho sentita oggi alla radio e l’ha fatta il comico e musicista Patrucco. Ma se quindici milioni di persone erano davanti alla televisione, e altri venti milioni erano sparsi sugli altri canali, se aggiungiamo i tre o quattro milioni che guardavano Sky, quelli che navigavano su Internet, quelli che sono andati al cinema, al teatro o a farsi una pizza con gli amici, quanti diavolo sono gli italiani?
Miracolo dell’Auditel, per una settimana, a febbraio, siamo più numerosi dei cinesi.

Janos Baranya

Il video è piuttosto raccapricciante, e se proprio volete potete vederlo qui.
Un atleta ungherese, nello sforzo per sollevare quasi 150 chili, di rompe un gomito e si lussa una spalla. Agghiacciante, l’episodio fa porre delle domande sulla pericolosità di certi sport e sull’ossessione dell’uomo di spingersi sempre oltre, hano quando ovviamente non si può. Ma non è questo che mi ha colpito del video, quanto la sequenza successiva: un gruppo di ragazzine dotate di cartellone che coprono la scena alle telecamere. Il dolore, il fallimento, la sofferenza non fanno parte di questi giochi. Qui tutto va bene.
E se per una volta siamo pure d’accordo nel non voler esibire le urla del povero atleta, sorge spontanea la domanda: cos’altro nascondono, quei cartelloni, in Cina?