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Dieci piccoli indizi: quattro di coppe

Lascia stare quella fionda, vieni con me che ti insegno a preparare la minestra. Smettila di arrampicarti sugli alberi che ti straccerai quel così bel vestitino! Non è così che si comporta una fanciulla onesta. Sono affari da uomini.

Le voci che si rincorrevano nella sua testa rischiavano di farle perdere la concentrazione. Il busto nel quale aveva stretto con fermezza il petto le doleva ogni volta che respirava. Non poteva mollare adesso. Non dopo tante fatiche. Alzò il capo con fermezza e tese la corda dell’arco. Si era esercitata ore per quel momento e non poteva mancare all’appuntamento con il destino.

Come ogni anno il villaggio di Yarubbedd si era preparato a festeggiare l’arrivo della primavera con il torneo che avrebbe dovuto selezionare le due guardie d’onore. A dire il vero l’operoso e pacifico popolo degli Sparatrapp, piccoli e longevi ometti dediti a quel poco che l’agricoltura offriva sull’isola di Apul, non aveva neppure un vero e proprio esercito regolare. Semplicemente, confidavano sullo spirito combattente degli amici gnurket che abitavano la vicina Tardnuestr e con i quali intrattenevano buoni rapporti commerciali.

Però la tradizione imponeva, ogni anno, la scelta di due giovani guardie alle quali sarebbe stata assegnata la difficile missione di organizzare le difese o intraprendere pericolose avventure, nel caso questo si fosse reso necessario. Dovevano essere pronte a tutto per proteggere il tesoro che i monaci sparatrapp conservavano tra le mura del loro convento: la biblioteca sacra.

Alla competizione potevano partecipare tutti i ventenni in salute: fedeli alle tradizioni e diffidenti nei confronti di qualunque novità, gli Sparatrapp avevano da sempre escluso la possibilità che alle gare partecipassero anche delle donne. La prima gara, che si svolgeva nel primo mattino, consisteva in una corsa intorno alla città: bastavano due giri a dimezzare i concorrenti, anche perché in molti si iscrivevano solo per compiacere i genitori e dopo un giro si arrendevano senza troppi rimpianti gridando per il fantomatico dolore. La seconda prova consisteva nella ricerca di erbe e bacche nei boschi vicini al convento, e secondo alcuni serviva soprattutto a rifornire le dispense dei commercianti del paese. Anche questa fu sufficiente a ridurre drasticamente il numero dei concorrenti, considerando poi quanto difficile fosse trovare qualcosa di vagamente commestibile nei boschi di Apul. La terza era la prova più temuta: bisognava dimostrare di saper nuotare, ma siccome il saggio e apprensivo monaco Cool, che presiedeva alla gara, non voleva che i giovani si allontanassero troppo dalla città, faceva svolgere la gara in alcune vasche per la raccolta di acqua piovana non distanti dal paese, e molti dei concorrenti rinunciavano ancora prima di immergersi, visto che l’acqua era gelida.

Nel pomeriggio erano rimaste in gara solo quattro coppie, rappresentate dai colori rosso, blu, verde e nero. I rossi erano alti e imponenti, i verdi li seguivano, mentre la squadra dei blu mostrava qualche incertezza, soprattutto in un paio di elementi abbastanza provati. Un discorso a parte andava fatto per i neri. Più minuti degli altri, apparivano piuttosto rigidi nei movimenti, anche per colpa di un goffo copricapo da cui non avevano voluto separarsi. Dal momento che non c’era un regolamento che impedisse di portare dei cappelli, nessuno aveva avuto da ridire, anche perché la coppia di valorosi concorrenti era riuscita a mostrare buone capacità natatorie nonostante quell’ingombrante turbante.

Quasi tutti i cittadini di Yarubbedd si erano radunati nella piazza principale. Le sfide a questo punto avrebbero coinvolto direttamente i partecipanti: dapprima con il classico tiro alla fune, che vide stravincere i rossi contro i blu, mentre i neri ebbero la meglio sui verdi solo per un soffio. Poi con la gara di arrampicata sugli alberi, in cui i rossi vinsero di nuovo nettamente, seguiti dai neri, dai verdi e dai blu. E infine, la prova con l’arco. Sembrava che i rossi fossero destinati a imporre di nuovo la loro prestanza atletica. Fecero il primo tiro, con un centro. Ma i neri risposero. Fecero il secondo, da distanza maggiore. Non un centro, ma un buon tiro. Non tanto quanto quello della squadra nera che fece centro di nuovo.

Terzo e ultimo tiro. Poteva rimettere in discussione la graduatoria definitiva: verdi e blu erano ormai fuori gioco, ma i neri avrebbero ancora potuto ribaltare la classifica, anche se occorreva un miracolo. Il tiro dei rossi, da distanza impossibile, fu molto buono. Era difficile chiedere di meglio ad uno sparatrapp: neppure un berfatt, da sempre i migliori arcieri di Apul, avrebbe fatto centro da quella posizione.

Non è così che si comporta una fanciulla onesta. Sono affari da uomini.

Il concorrente nero fece partire l’ultima freccia. Una traiettoria lunghissima, quasi una palombella, con la freccia che si innalzò verso il cielo, rimase quasi sospesa in aria prima di scendere con risolutezza e centrare il bersaglio. Tutti rimasero in silenzio. Nessuno aveva mai visto niente del genere.

Dopo qualche istante qualcuno gridò un “bravi!” dalla folla, e a quel punto l’applauso e le urla di gioia sembrarono colmare ogni imbarazzo.

Anche i due giovani concorrenti si lasciarono andare ad un abbraccio, ma nel farlo uno dei due perse il copricapo, lasciando intravvedere la folta e lunga chioma. Di nuovo il silenzio gelò i presenti. Non era un concorrente, quindi, ma una concorrente. Anzi due, perché anche l’altra liberò il viso. Due donne avevano vinto il torneo. Le due giovani sorelle Maskloan e Mustazz.

L’anziano Cool, che attendeva su un piccolo palco per procedere con la premiazione, rimase di stucco. Dapprima la rabbia e l’indignazione sembrarono prendere il sopravvento. Avrebbe squalificato le due partecipanti. Non si era mai vista una sfacciataggine simile.

Poi però, qualcuno, dalla folla, gridò “brave!”, seguito da nuovi e ancora più vigorosi applausi. C’era poco da fare, ormai, il popolo degli Sparatrapp aveva approvato la vittoria delle due ragazze, e opporsi sarebbe stato inutile.

Cool richiamò le due giovani fanciulle a sé. Con le labbra strette e le braccia dietro la schiena si sforzò di tenere un portamento che si confacesse all’occasione. Accanto a lui le due guardie in carica consegnarono le spade con il sigillo di guardie d’onore alla coppia che subentrava. Cool si avvicinò e strinse le mani a entrambe. Accipicchia, che brutto ventaccio, sussurrò stropicciandosi gli occhi prima che qualcuno potesse sospettare che il vecchio stregone si fosse commosso.

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Dieci piccoli indizi: cinque di bastoni

La pioggia insistente non agevolava certo l’arrampicata di Capasone, il gigantesco chiummo che da tanti anni viveva isolato nelle campagne a sud del regno dei Berfatt e badava a me e al resto della mia famiglia. Era grosso e forzuto, ma di certo non particolarmente agile: ciò nonostante, se quello che dicevano su di lui era vero, non si sarebbe arreso fino a che avesse avuto anche solo la forza di muovere un solo passo.

La colpa era tutta di Capasone. Si era distratto, e questa è una colpa imperdonabile per un pastore. In un’isola poi in cui poi noi animali eravamo quasi completamente estinti, c’era da comprenderlo se piagnucolava disperato all’idea che qualcosa di brutto mi sarebbe potuta accadere. In fondo era stato un attimo. Be’ forse un paio di attimi, e piuttosto lunghi, considerando che il nostro era un gregge di pecore e non certo di lepri.

Mentre il resto del gregge si accontentava della solita erba insipida e secca, io avevo deciso di andarmene a cercare di più fresca. Visto che chi avrebbe dovuto sorvegliare sulla mia incolumità si era addormentato beato, io mi ero allontanata, e sgambettando silenziosa, mi ero messa alla ricerca di erba più fresca. E alla fine ne avevo trovato di davvero gustosa. Peccato che fosse proprio a un passo da un burrone profondo, e peccato soprattutto che me ne resi conto dopo averlo fatto, quel passo.

Non ero morta, però, nonostante una zampa mi facesse terribilmente male. Il buon Capasone ebbe un sussulto quando aveva riconosciuto il mio manto bianco, sporgendosi verso il basso lungo i margini del fossato. Anche a me aveva fatto piacere rivedere il suo faccione rosso e paffuto. Scendere però sarebbe stato rischioso, così Capasone aveva prima pensato a riportare all’ovile tutte le altre mie sorelle, poi aveva studiato come calarsi per recuperarmi.

Come tutti i Chiummi, era uno straordinario allevatore, ci capiva e ci curava amorevolmente, ma non era proprio un fine stratega. Un altro infatti avrebbe fatto attenzione a stringere una corda intorno ad un grosso albero, prima di calarsi giù. Cosa che a dire il vero Capasone fece. Però un fine stratega, ma anche uno stratega grezzo diciamo, avrebbe scelto una corda robusta, e invece il mio simpatico chiummo si lasciò calare nel burrone aggrappato ad una radice esile che lo fece precipitare sotto il mio sguardo deluso. E dire che stavo cominciando a credere nelle possibilità di recupero.

La sua tempra massiccia lo fece rialzare quasi incolume dalla brutta caduta. A pagarne le spese era stato semmai il cespuglio di rosmarino ridotto a moquette dall’impatto con il pastore precipitante. Per recuperarmi, a questo punto, non gli restava che arrampicarsi. Mano destra, piede sinistro, mano sinistra, piede sulla pietra scivolosa, e caduta. Mano sinistra, piede destro, mano destra su una pianta spinosa, ahia, caduta.

Continuava a saltare, aggrapparsi e cadere. Saltare, aggrapparsi e cadere. Stavo per addormentarmi contando i suoi salti, e dire che di solito dovrebbe avvenire il contrario. Dopo l’ultima caduta, rimase a braccia aperte, per terra, come una medusa spiaggiata. E lì qualcosa avvenne.

Non so se fu un atto di coraggio, il mio, una scelta rischiosa ma definitiva, o semplicemente il dolore alla zampa mi fece perdere l’equilibrio. Fatto sta che mi lanciai giù, in direzione del mio pastore, anzi del suo pancione grande, chiusi gli occhi maledicendo quell’erba fresca e giurando che se ne fossi uscita viva mi sarei fatta carnivora, e op! Riaprii gli occhi fra le sue braccia, mentre quel vecchio sentimentale piangeva stringendomi al petto come fossi il suo cuscino preferito.

Era fatta. Mi mise sulle sue spalle, e insieme tornammo verso la sua grotta. Lo sentii borbottare che quell’avventura l’aveva spossato e che sperava di non viverne altre perché ne sarebbe morto di crepacuore.

Se non ricordo male, tutto ciò accadeva qualche giorno prima che arrivasse quello strano gruppetto di esploratori e cambiasse per sempre l’esistenza del mio pastore. Ma questa è un’altra storia, e la mia invece finisce qui.

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Dieci piccoli indizi: sette bello

Ponte nel boscoQuanto sarebbe piaciuto agli elfi che popolavano il nord di Apul, conosciuti anche come Berfatt, essere gli unici abitanti dell’isola! Ma purtroppo non era così. C’erano gli Gnurket che abitavano più a sud la città di Tardnuestr e i dintorni, così grezzi e trogloditi, poverini. Fondamentalmente pacifici, almeno nei loro confronti, ma certo cambiarsi d’abito una volta ogni tanto avrebbe migliorato la loro vita sociale. Poi c’erano gli Sparatrapp, che confinavano anche loro a sud ma sul confine orientale: simpatici e innocui, potevano essere considerati i fratelli originali della famiglia. E però c’erano anche i mostruosi Mucidi, con le loro angherie e le loro continue minacce, per non parlare di gruppi sparuti come i Vashvash, commercianti gretti e puzzolenti, e i Chiummi, giganteschi esseri con giganteschi problemi di igiene personale. Un tempo Chiummi e Berfatt erano stati stretti alleati, ma quei giorni erano ormai ricordi lontani, e dei Chiummi si era persa traccia.

«Prego, accomodatevi». Fu Capurél, la madre del re, a rivolgersi ai due ospiti invitandoli a sedersi vicino a lei, mentre il figlio osservava qualcosa fuori dalla finestra. Per un attimo anzi costui sembrò voler dire qualcosa, ma la madre lo anticipò.
«Vi abbiamo fatto chiamare perché abbiamo una missione importante da affidarvi. Una missione per la quale abbiamo bisogno delle vostre capacità».
Per quanto i Berfatt preferissero contemplarsi nello specchio piuttosto che confrontarsi con gli altri, di tanto in tanto occorreva mandare un messaggero alle popolazioni vicine. E tutte le volte diventava difficile individuare qualcuno, perché nessuno voleva allontanarsi dalle terre del nord, con il rischio di perdersi o di finire vittima di un’imboscata. La scelta pertanto era stata quella di nominare ambasciatori coloro i quali potevano pure perdersi o finire vittime di un’imboscata senza arrecare danno alcuno al regno, anzi.
Due campioni in questo senso erano stati trovati in Pizzarun e Scapucchiun, due fratelli che condensavano il peggio che il popolo berfatt potesse proporre: pavidi, scarsi nella lotta, piuttosto impacciati con le armi, incapaci di accostare bene i colori di calzini e giubbe. E poi, per quanto cercassero di curarsi con manicure e trattamenti estetici, rituali molto diffusi tra i Berfatt, non riuscivano ad ottenere una sembianza per lo meno accettabile per gli standard di un popolo molto attento alle apparenze come quello degli elfi. Erano “elfi di periferia”, vivevano cioè lontani dalla città, nella quale venivano richiamati solo in grandi occasioni: mandarli in giro, insomma, era una buon modo per tenerli lontani e dimenticarsi del loro mono-sopracciglio. A dire il vero ogni volta che partivano i consiglieri del re rimanevano in trepidante attesa per il loro ritorno. Tremavano alla sola idea che potessero essere uccisi per strada. Che figura avrebbero fatto, i Berfatt, se altri popoli confinanti avessero recuperato quei due cadaveri spettinati, trasandati e fisicamente fuori forma?
Nessun dubbio che se c’era da inviare qualche comunicazione ai popoli vicini, toccasse a loro farla.

«Madre – borbottò Vacandin cercando di prendere la parola – a dire il vero…»
«I Mucidi preparano un attacco epocale. Ci è stato comunicato da un messaggero sparatrapp, e mio figlio Vacandin l’ha rimandato indietro proponendo un incontro. Ma visto che i giorni passano e con essi cresce la paura che qualcosa di brutto gli sia accaduto, è arrivato il momento di andare a scoprire direttamente cosa sta succedendo a Yarubbedd, la città principale degli Sparatrapp».
Quando il gioco si fa brutto, insomma, i brutti cominciano a giocare.
«Mamma – intervenne allora il re alzando la voce – guarda che quelli non sono Pizzarun e Scapucchiun. Non vedi? Di solito i due indossano calzini spaiati e giacche a strisce marroni. Questi invece sono vestiti di blu».
La regina madre ebbe un sussulto e portò la mano al petto.
«Chi siete voi, dunque, e come osate sostituirvi ai nostri due messaggeri?»
«A dire il vero, vostra maestà, noi siamo i loro cugini. Il fatto è che Pizzarun e Scapucchiun avevano troppa paura di presentarsi direttamente davanti a voi. Ma adesso che sappiamo che non volete imprigionarli o peggio ancora depilarli, possiamo andare a chiamarli».

Non erano belli, Pizzarun e Scapucchiun, ma avevano il dono della strizza. Convivevano con la paura in qualsiasi circostanza. Il re poteva fidarsi: sapeva che anche stavolta la loro straordinaria capacità di fuggire a gambe levate davanti al pericolo li avrebbe salvati, consentendo loro di portare a termine la missione.

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Dieci piccoli indizi: otto di coppe

Priscilla, segretaria di direzione in una nota azienda di software gestionale, stava mettendo a posto il meeting report dell’ultima riunione del suo direttore, riempendo ben due cartelle della sua tombola delle cazzate. Si trattava di una cartella in cui, al posto dei numeri, si scrivevano parole insulse ma tanto amate dai manager, quali “customer oriented”, “best practice”, “redemption”, “competitors” “core business”, “proattivi”. Ogni volta che qualcuno utilizzava una delle parole, si segnava sulla tombola. Da quando aveva scoperto quel gioco, Priscilla era molto più attenta durante le riunioni con il suo capo, anche se in più di un’occasione aveva dovuto mordersi la lingua per non gridare “Tombola!” una volta completata la cartella.

La riunione aveva per tema la drammatica questione del valore aggiunto. Il loro software infatti da sempre presentava una caratteristica schiacciante sulla concorrenza: era “a valore aggiunto”. Nessuno sapeva dire esattamente cosa ciò significasse, ma domandare “che vuol dire” era sconveniente per un manager che sa sempre tutto a prescindere, per cui si andava avanti, tra cliente a fornitore, sul tacito accordo del valore aggiunto: io e te sappiamo cosa vuol dire, strizziamo l’occhiolino, diamoci la mano, che fighi che siamo, mi raccomando il panettone a Natale lo voglio artigianale e con lo spumante.

Purtroppo però i concorrenti avevano lanciato il guanto di sfida. Per rispondere al loro straordinario software a valore aggiunto, infatti, avevano lanciato una campagna di comunicazione in cui descrivano il loro prodotto “ad elevato valore aggiunto”. Si trattava in effetti di un colpo geniale. In quell’“elevato” c’era un distacco difficile da colmare, una distanza che avrebbe potuto mandare all’aria il loro business plan e forse addirittura il premio di produttività a fine anno. Si discusse per ore, alla fine si decise di spendere qualche migliaio di euro per affidare ad un consulente l’incarico di produrre uno studio tramite il quale arrivare ad una risposta “performante”, come dicevano loro.

Mentre Priscilla completava il resoconto, meccanicamente la mano la indusse in tentazione, spostando il mouse e, click!, infilandola in quel percorso di perdizione che erano per lei i siti delle agenzie di viaggio. Viveva sei mesi l’anno progettando le vacanze natalizie e altri sei pensando a quelle estive. Erano queste ora ultime al centro dei suoi pensieri.

Provò a chiudere gli occhi, e si vide in una spiaggia tropicale, con indosso un bikini firmato e un pareo d’alta classe, a bere champagne mentre un aitante indigeno le spalmava la crema sulle spalle e lei lo rassicurava suggerendogli di non fermarsi… Non le ci volle molto a capire che su bikini firmato e pareo d’alta classe occorreva un po’ di fantasia, visto che ultimamente giurava di aver sentito singhiozzare il suo bancomat straziato dalla fame. Ma si, si sarebbe accontentata di un acquisto in saldo, tanto – si disse con un pizzico d’orgoglio – non era mai successo che un uomo le guardasse bikini e pareo, talmente occupato ad osservare il resto. Tornò alla sua spiaggia immaginaria, ma solo per concludere che anche lo champagne era un dettaglio a cui avrebbe dovuto rinunciare. I prezzi dei viaggi “tutto incluso” erano decisamente al di sopra delle sue possibilità, e poi c’era sempre il rischio di mettere su qualche chilo di troppo con tutto quel cibo già pagato. No, niente champagne. Rimaneva il bellone e la spiaggia. Non tropicale, però, che anche in quel caso le esigenze di budget stridevano con le potenzialità finanziarie del suo stipendio di impiegata.

Certo però non doveva esagerare con i risparmi. Ricollocò infatti la scena in una affollata spiaggia romagnola, con un vicino di ombrellone che parla ad alta voce al cellulare, ragazzine truccate che sfilano avanti e indietro, e un uomo che le si avvicina per venderle braccialetti di gomma e musica da discoteca ad ogni ora del giorno e della notte. Cancellò l’ultima scena dai ricordi e, dopo diversi di tentativi, si ritrovò di fronte ad una scelta. Quindici giorni in Puglia, regione che conosceva bene perché suo padre era originario di quelle parti, oppure, con un piccolo sforzo, andare un po’ più giù e raggiungere Corfù. Non ci pensò un secondo. Le piaceva la Puglia, ma c’era stata già tante volte. Invece Corfù faceva tanto isola selvaggia, spiaggia isolata, incontro avventuroso. Poi era pur sempre un viaggio all’estero da raccontare in pausa caffè, e raggiungendo la Puglia in auto, per poi proseguire in traghetto, non sarebbe nemmeno costato troppo. Stava già per osare una prenotazione quando una telefonata del direttore la riportò sul pianeta terra. Costui aveva di nuovo perso un file sul quale stava lavorando, uno dei progetti più straordinari dell’ultimo decennio, a sentir lui. Sì come no. Provi nel cestino. No, non un cestino vero, quello sul desktop, sulla scrivania… Arrivo. Non tocchi niente, per carità. Non chiuda la finestra su cui sta lavorando. Finestra virtuale, certo, so bene che le finestre del suo ufficio sono sempre chiuse perché preferisce l’aria condizionata. Un attimo e sono da lei.

Giusto qualche attimo in più, invece, e sarebbe stata a Corfù, a prendere il sole e a godersi gli sguardi tormentati della gioventù locale. Meglio però se avesse trovato un’amica con cui dividere le spese di viaggio, e che magari non le facesse concorrenza con gli spalmatori di crema indigena. Ci avrebbe pensato dopo, adesso aveva un file da salvare.

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Dieci piccoli indizi: nove di spade

Da ormai molto tempo gli Gnurket, uomini dalla carnagione scura che vivevano nella città di Tardnuestr, nel cuore del regno di Apul, rappresentavano l’ultimo baluardo contro i feroci eserciti dei Mucidi, provenienti da sud.
La loro disperata difesa impediva alle orde mostruose di invadere le terre pacifiche e più civilizzate che si estendevano fino all’estremo nord della penisola, abitato dai tranquilli e inoffensivi Berfatt. A permettere di resistere nonostante la schiacciante inferiorità numerica era soprattutto l’ammirazione e la stima che i soldati riponevano in Turtigghiun, valoroso re sempre in prima linea a combattere contro gli invasori.
E se la forza fisica degli uomini era sicuramente inferiore a quella dei Mucidi, in compenso il loro re era capace di escogitare ogni sorta di tranello per trarre in inganno i nemici forti e possenti sì, ma non particolarmente brillanti, ad eccezione del famigerato condottiero Trappagghiun.
Era sera. Un gruppo di soldati, stanchi dopo una lunga giornata di guerriglia contro truppe sparse di Mucidi che cercavano di penetrare i confini, si scaldava intorno al fuoco prima di andare a dormire per qualche ora, giusto il tempo di recuperare le forze per poi iniziare un nuovo turno di guardia.
Qualcuno cominciò a parlottare della leggendaria retromarcia. Nei momenti di difficoltà, infatti, i soldati per farsi forza raccontavano lo storico inganno della retromarcia, che aveva salvato Tardnuestr da una distruzione che era ormai data per certa, anni prima. Il più anziano dei soldati, avvertendo che come al solito si stavano aggiungendo particolari inesatti, scosse la testa. Non era così, che erano andate le cose. Lui c’era, infatti, nei giorni della retromarcia. In quei giorni in cui un gruppo numeroso di Mucidi sembrava ormai prossimo a vincere definitivamente le forze degli uomini a cui mancavano acqua e viveri, a causa di un incidente alla carovana che avrebbe dovuto rifornirli.

Turtigghiun, allora molto giovane, era partito di notte con un gruppo di soldati fidati alle volte dell’accampamento dei Mucidi. Era difeso da almeno una decina di guardie su ogni fronte. Se le avessero attaccate, queste ultime avrebbero immediatamente svegliato gli altri. Occorreva stanarle. Turtigghiun decise di far accendere un fuoco in una boscaglia non distante dall’accampamento e di cominciare ad arrostire michimaus. I Mucidi infatti ne erano ghiotti, e forse anche per questo riuscivano ad avere una massa muscolare maggiore rispetto a quella degli uomini che invece quelle bestiole faticavano a mandarle giù. Quando la prima guardia vide il fuoco, partì subito in avanscoperta, ma arrivata nei pressi del fuoco trovò solo michimaus fumanti, e con l’ingordigia tipica dei Mucidi cominciò a ingurgitare a più non posso. Così fece la seconda che si era mossa per capire perché la prima non tornava, e così la terza, finché tutte le guardie dei Mucidi non si ritrovarono a banchettare. I soldati allora pensarono fosse venuto il momento di attaccare. Avrebbero potuto colpire tanti Mucidi. Costoro erano talmente superiori numericamente che alla fine anche darsi alla fuga sarebbe stato difficile, ma certo ne sarebbe valsa la pena. Un sacrificio da eroi. Ma Turtigghiun disse che no, non voleva attaccarli. Voleva solo rubare le insegne che i Mucidi erano soliti depositare sulla linea più avanzata dell’accampamento. I suoi compagni borbottarono allibiti: tutti quei rischi per rubare due bandiere senza valore? La mossa avrebbe solamente fatto infuriare il generale dei Mucidi che la mattina seguente avrebbe attaccato con maggior veemenza! Ma Turtigghiun non ne volle sapere. Partì lui stesso alla volta delle insegne: la notte era buia ma aveva osservato con cura l’accampamento il pomeriggio precedente, sapeva dove trovarle, le estrasse dal terreno senza troppa difficoltà, ma anziché fuggire nelle retrovie, corse oltre, invitando i suoi a seguirlo. Raggiunsero le retrovie dell’accampamento. Certo, pensarono i suoi: un attacco alle spalle, ecco a cosa pensave il giovane sovrano. Cogliergli da dietro sarebbe stato più violento e spietato. E invece il re riorganizzò il banchetto per le guardie, anche stavolta michimaus arrostiti, anche stavolta violazione delle regole dei Mucidi per una lauta mangiata. Però stavolta non c’erano insegne da rubare: e infatti il re andò a piantare nel terreno quelle che aveva rubato dall’altra parte, tra lo sgomento dei soldati che continuavano a domandarsi se stavano rischiando la vita per un pazzo furioso.

La mattina dopo fu finalmente tutto chiaro. I Mucidi disponevano di un mediocre senso dell’orientamento, e scrutare le stelle era complicato, in un’isola quasi sempre ricoperta da un cielo nuvoloso come era Apul. Quando la mattina si ritrovarono con le insegne a sud anziché a nord, semplicemente pensarono che quella era la direzione verso cui andare. Ovviamente nessuna delle guardie ebbe molto da obiettare, anche perché Turtigghiun aveva fatto condire i topastri arrosto con spezie ottenute da papaveri blu e rossi, e la mattina dopo era già tanto se le vedette riuscivano a fare pipì senza innaffiarsi i piedi.
L’esercito mucido si rese pertanto protagonista in quella occasione della più impressionante retromarcia che la storia ricordasse. Addirittura si narra che quando all’orizzonte apparvero le prima città dei Mucidi, queste vennero assediate e colpite, in uno scontro fratricida che richiese un po’ di tempo prima che il generale si rendesse conto del pasticcio combinato.
Da quel giorno in poi i Mucidi impararono a prendere nota con attenzione del posto in cui si accampavano, cercando riferimenti precisi nell’ambiente circostante. Si erano resi protagonisti della più clamorosa retromarcia della storia.
Non potevano correre il rischio di ripetere la figuraccia.

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Dieci piccoli indizi: apertura e Re di denari

Apertura

Lo starnuto del brigadiere Crisafulli fu talmente violento che la pastiglia alla menta balsamica che teneva in bocca gola si proiettò fuori dalle sue labbra, rimbalzò sulla scrivania e andò a spataccarsi sulla giacca del maresciallo Zavaglia che proprio in quel momento faceva il suo rientro in caserma.

La pastiglia rimase incollata alcuni istanti prima di scivolare, lentamente, lasciando una scia verdastra sul petto del militare, tra l’incredulità del maresciallo che istintivamente portò la mano al fodero della pistola. Decisamente non era una medaglia di cui andare fieri, quella pastiglia contro il mal di gola, che per fortuna ritenne opportuno cadere per terra senza l’intervento da parte di alcuno.

«Mi perdoni maresciallo. È il raffreddore. Forse dovrei stare a casa a riposo qualche giorno.»

Zavaglia stava per avviarsi verso il suo ufficio senza nemmeno rispondergli quando si accorse di un mazzo di carte napoletane sul tavolo del suo sottoposto. Per un attimo, pensando al fatto che quella notte era stato chiamato alle due per un furto in una abitazione, che doveva predisporre un paio di verbali urgenti, che doveva occuparsi di uno spacciatore che aveva colto in fragrante quella mattina, che doveva accompagnare l’ufficiale giudiziario per eseguire alcuni sfratti e che soprattutto non ricordava più nemmeno quando era stato in ferie l’ultima volta, ebbe sul serio la tentazione di ricorrere all’arma e svuotare il caricatore contro la scrivania del brigadiere.

«Fai sparire subito quelle carte. Quante volte te lo devo ripetere? Che figura ci facciamo con un cittadino che entra e ti vede impegnato in un solitario?»

«Posso spiegare tutto, maresciallo. Sto lavorando. Cioè sono al centralino, ma non chiama nessuno. Le carte…»

Il maresciallo allargò le braccia e lo invitò, almeno, ad avere la decenza di giocare con il computer, così da dare meno nell’occhio. Ma Crisafulli aveva una risposta per tutto, e gli spiegò che il solitario al computer non gli piaceva: una volta era andata via la corrente e aveva perso tutto. E invece un mazzo di carte non si spegneva mai, funzionava all’aperto e in treno, era portatile e silenzioso. Tuttavia quelle non erano carte, erano un referto. Il giovane carabiniere stava ancora fornendo dei dettagli quando il suo superiore lo interruppe.

«Sai che ti dico, Crisafulli? Mi hai convinto. Ho bisogno di fare una pausa. Gioco anch’io. Però non un solitario. Giochiamo a briscola. E però ci giochiamo qualcosa.»

A Crisafulli non piaceva l’andazzo che stava prendendo la conversazione. Non era un granché come giocatore di briscola. Non era un granché nemmeno con il solitario a dire il vero, ma lì non poteva perdere niente se non un po’ di tempo. Con quelle carte, però… Se vinci tu, concluse il maresciallo, dimentichiamo l’increscioso episodio delle carte, della caramella, e persino del fatto che se non metti a posto quella cornetta difficilmente riceverai mai telefonate. Se vinco io, tu ti fai gli sfratti di oggi e no, non mi importa che hai promesso di tornare a casa in Sicilia entro sera, vorrà dire che ci metterai un po’ di più. Allora, mescoli le carte o no?»

Crisafulli eseguì gli ordini maledicendosi in silenzio per non essersi messo in malattia, quella mattina, come gli aveva suggerito Cosimina, la sua fidanzata che l’aspettava a Messina un fine settimana sì e uno no.

Re di denari

La notizia della morte del re si era diffusa velocemente nel piccolo regno dei Berfatt, a nord dell’isola di Apul, gettando nello sconforto sudditi e familiari. Benché anziano, infatti, il re godeva di buona salute e probabilmente avrebbe vissuto qualche anno in più se non avesse fatto il bagno di mezzanotte dopo aver mangiato mezzo chilo di alghe al forno. Non che fosse stata la congestione a ucciderlo: quella l’aveva costretto semmai a un paio di giorni a letto. Il re però non sopportava di stare recluso in casa, e per evitare le guardie che sua moglie aveva posto accanto alla sua porta aveva cercato la via di fuga dalla finestra, cadendo precipitosamente al piano inferiore. Non che fosse stata la caduta a ucciderlo. Quella l’aveva imbracato in una serie di fasciature piuttosto ingombranti e aveva costretto la moglie Capurél a prevedere una guardia anche vicino alla finestra. Ma al re la convalescenza dava sui nervi, soprattutto perché l’umidità rendeva crespi i suoi magnifici capelli e complicava la cura dei baffi a cui teneva molto. D’altronde per il suo popolo Dio, patria e ciglia erano i valori fondanti, ma visto che la fede ultimamente viveva una fase di stanca e il regno era al sicuro da parecchio tempo da invasioni e razzie, quello che rimaneva ai suoi sudditi era una cura maniacale per l’aspetto fisico.

Insomma, il re era pacificamente morto nel sonno, ma secondo alcuni saggi chiamati a verificare le cause della sua morte, ad accelerare la dipartita era stato lo smarrimento del suo pettine preferito, che aveva lasciato in consegna ai suoi figli, visto che da solo non riusciva più a pettinarsi a causa delle fratture.

Quale che fosse la causa della morte dell’anziano sovrano, di una cosa erano certi quasi tutti: nessuno dei due figli era ancora pronto per raccoglierne l’eredità. Vacandin, il maggiore, era timido, riservato, silenzioso. Tutte caratteristiche che rendevano difficile adempiere alla principale missione di tutti i sovrani dei Berfatt: trovare una moglie combattiva e coraggiosa e lasciare che a occuparsi del regno fosse lei. Al massimo il re poteva dilettarsi in pubbliche relazioni e battute di caccia ai funghi, le uniche battute di caccia possibili visto che ad Apul gli animali scarseggiavano e i cacciatori erano talmente fuori forma che più che un fungo immobile non avrebbero potuto catturare.

Il fratello Cip Ciap avrebbe avuto meno difficoltà a trovare una donna, ma il problema non era la donna, ma semmai l’una; al giovane una sola compagna pareva non bastare. Erano piuttosto numerose le ragazze a poter raccontare di aver avuto una relazione, di un giorno o di un mese, con il bel principe gaudente e spensierato.

La regina Capurél convocò pertanto i due figli subito dopo le esequie del marito. Non era infatti scontato che il trono sarebbe passato a Vacandin: la regina avrebbe potuto scegliere il figlio minore, come speravano i popolani (soprattutto le popolane) o anche un estraneo, purché bello e senza problemi di alopecia, secondo le sacre tradizioni dei Berfatt. Parlò loro con estrema franchezza. Voleva sapere chi dei due avesse perso il sacro pettine del padre. Non era tanto la loro l’impudenza, che voleva valutare, spiegò loro, quanto la sincerità e il coraggio dei suoi figli. Cip Ciap prese subito la parola: a perdere il pettine era stato Vacandin, lo custodivano una settimana per uno, e quando era arrivato il suo turno, il fratello non glielo aveva consegnato. Cip Ciap affermò anche di aver visto Vacandin uscire con il pettine in borsa, senza prendere precauzione alcuna. Non si poteva affidare il regno ad un inetto incapace di custodire un oggetto di valore. Non si poteva.

Vacandin rimase in silenzio. Capurél attese allora la sua versione dei fatti. Il figlio le rispose che era vero, il pettine era in custodia da lui, ma che non lo aveva mai portato fuori dal castello. Tuttavia questo non aveva importanza, ormai. Era stato perduto mentre lui avrebbe dovuto custodirlo, e doveva pagarne le conseguenze.

Capurél si volse indietro verso un armadio in fondo alla sala, aprì un cassetto e ne estrasse il pettine. Era stata lei a prenderlo per farlo ripulire. Cosa che faceva abitualmente senza avvisare il marito, il quale temeva potesse sciuparsi. Lo faceva perché il re era capace di farsi cogliere da profonda malinconia alla vista dei capelli attaccati al pettine, e con gli anni era andato peggiorando. Per questo la moglie li faceva rimuovere di nascosto. Solo che questa volta l’artigiano che se ne prendeva cura le aveva chiesto un po’ più di tempo per completare il lavoro

Capurél guardò con aria severa Cip Ciap: un mentitore non solo non sarebbe mai stato un buon re, ma non sarebbe mai stato un buon berfatt. Doveva cambiare e in fretta, se non voleva fare la fine che il destino assegna agli uomini falsi. Poi mise una mano sulla spalla di Vacandin e lo invitò a farsi coraggio, a guardare al futuro con fiducia e ad usare più balsamo.

Il popolo dei Berfatt avrebbe presto incoronato un nuovo re.

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Le testine si allineano, le teste pensano