(Continua dal post precedente)
A ll’inizio della passeggiata la visitatrice dissimulerà il suo interesse.
In realtà con la coda dell’occhio sta calcolando distanze, spazi, costi, sta verificando quanti bancomat le potranno servire e quanto tempo ha a disposizione per accaparrarsi vestitini e bijoux. Soprattutto, sta considerando quando potrà verificarsi il dramma di ogni donna, il momento in cui si aprono i furgoncini e i venditori ripongono la merce negli scatoloni tra rimpianti e malinconie. Di solito in questo momento la visitatrice adocchia un oggetto interessante. Si rifiuterà di comprarlo, nonostante le suppliche dell’accompagnatore, forte della tesi del "guardiamo se più avanti c’è di meglio".
Non ci sarà di meglio, più avanti, e dopo due ore di cammino l’unica speranza per non rovinarsi la giornata è recuperare quella bancarella che all’inizio aveva mostrato l’oggetto del desiderio. Per raggiungere questo scopo ci sono varie alternative.
Ci si può munire di una pistola lanciarazzi chiedendo al proprietario della bancarella di esplodere un colpo ad un segnale telefonico. Un po’ scomodo però perché la pistola non sempre è a portata di mani e perché un colpo potrebbe non bastare.
Si può allora segnare su una mappa l’esatta posizione geografica della bancarella: ma questo deve essere fatto al momento del "guardiamo più avanti" e soprattutto la mappa deve essere attendibile. Si possono lasciare briciole di pane o pezzi di stoffa sul cammino, ma la calca tende fastidiosamente a portarli via.
Si può usare un navigatore satellitare anche se incredibilmente ancora in commercio non ne esistono di programmati per mercatini (e mi domando fino a quando l’industria tecnologica attenderà per rispondere a questa impellenza così attuale). Oppure si p0uò costringere la visitratrice al succedaneo: un bene molto più costoso e ingombrante di quello visto all’inizio del mercatino, ma che per le meno è a portata di mano. Per vincere la nostaglia di quell’oggetto, che con il passare dei minuti la fantasia ha trasformato in un’autentica pietra filosofale, nell’arca perduta di tutte le visitatrici, il graal da mercatino, occorreranno almeno tre o quattro acquisti. Il tutto mentre fa un caldo africano, o in alternativa sta piovendo a dirotto.
Siete pronti a tutto ciò per lei? Allora avete trovato la donna giusta.
Archivi tag: due ore
Dalle 6 alle 8
Alcuni amici mi hanno chiesto quando trovo il tempo per scrivere, considerando il tempo passato in ufficio, un minimo di ore da dedicare al sonno e le funzioni vitali.
La risposta è semplice: la domenica, dalle sei alle otto. In pratica la scrittura ha riempito nella mia quotidianità il vuoto lasciato da Novantesimo Minuto. Sì perché quel clone indegno trasmesso dalle televisioni commerciali, con un gol e venti minuti di dibattito tra la velina e l’ospite fisso che commentano il prezzo del cartellino della nuova promessa uzbeka, proprio non si regge. E così, dalle sei alle otto, prendo il mio storico portatile del 97, e comincio a scrivere. Ovvio che non posso reggere il passo di Grisham e o King, con le loro 400 pagine all’anno. Io scrivo una pagina alla settimana, e mi ci vogliono tre o quattro anni per pubblicare qualcosa di decente.
Però non mi lamento, almeno fino a quando riuscirò a difendere le mie due ore la domenica pomeriggio, la mia carriera proseguirà nel suo lentissimo inesorabile corso di soddisfacente insuccesso.
Chiamo io o chiami tu?
Sotto l’ombrellone, mentre i bambini giocano sulla riva e la moglie prende il sole; a teatro, parlando a bassavoce per non infastidire troppo gli attori che, si sa, sono permalosi; a cena con gli amici. Sono solo alcuni dei casi in cui ormai nessuno più si scandalizza se osserva un uso quantomeno aggressivo del cellulare. Non c’è niente di male, direte voi. Infatti.
Se non fosse che sotto l’ombrellone si parla con lo zio, che abita al piano superiore e che si rivedrà dopo due ore; al teatro si racconta l’ultima novità al collega, in anticipo rispetto alla pausa caffé del giorno dopo; a cena con gli amici si chiacchiera al cellulare con altri amici. Non sto parlando di comunicazioni di servizio (ho lasciato le chiavi sul tavolo, vicino alla frutta), parlo di lunghe conversazioni.
E allora? Possibile che non si possa fare a meno di comunicare con persone con cui comunichiamo già tutto il giorno? Sarebbe bello se fosse possibile inserire un microchip che attiva le conversazioni solo se l’interlocutore è a più di trenta chilometri di distanza.
Negli altri casi, muoviti e parlagli di persona, imbecille.
Babel
Lento come una vecchia tartaruga che si sgranchisce le gambe, pesante come una pizza con uovo tonno e melanzane fritte, insopportabile come il conoscente che ti parla di gruppi afro-jazz-funky sconosciuti e di guarda sbarrando gli occhi quando affermi di non avere idea di chi diavolo stia parlando.
MI riferisco ad un un film, lento, pesante e insopportabile: Babel. Un film che è piaciuto tanto ai critici, e che infatti ha vinto a Cannes. Ma i critici di mestiere guardano film. Finito questo ne vedono un altro. Loro non hanno l’angosciante consapevolezza di aver sprecato due ore e mezza della nostra breve volatile vita aspettando una cacchio di ambulanza che non arriva mai in uno sperduto villaggio del Marocco.
Per carità, capisco che ai critici sia piaciuto. Già sento le loro vocì: osserva il lento movimento della macchina che accompagna il distaccamento dell’uomo e ne evidenzia lo stato confusionale. Apprezza il cromatismo così freddo e blu in alcuni momenti e così intensamento rosso e avvolgente in altri. Apprezza la fotografia che ritaglia i personaggi come se fossero sagome su uno sfondo che non gli appartiene. Cogli i riferimenti colti e incrociati che sottolineano i parallelismi tra storie di identità lontane e pure così intrinsecamente legate. E via discorrendo. BALLE.
Mi piace il cinema d’autore, un film può anche essere lento, senza però stritolare, maciullare e compirmere fino allo spasimo i testicoli dello spettatore. Ti sto dedicando due ore e mezza di vita, regista d’autore dei miei stivali, meritateli, invece di indulgere su un panorama desertificato come lo stato d’animo di un io distante che piace tanto ai critici ma a me mi fa cadere le braccia a terra.
E non solo quelle.
Scarsi e perdenti
Gli scarsi sono i membri di una squadra che proprio non riescono a svolgere decentemente un’attività. Non sono capaci, lo sanno, e lo sanni gli altri.
Per usare nella metafora calcistica, sono quelli incapaci di stoppare la palla, giocarla, fare un passaggio. Li piazzi in difesa, invitandoli a infastidire l’avversario muovendosi e cercando di colpire il pallone e mandarlo lontano. Non sono dannosi, gli scarsi: presto il gruppo si adegua alle loro caratteristiche ed evita i contraccolpi generati dal loro modo di fare. Il vero problema del gruppo non sono gli scarsi, sono i perdenti.
I perdenti sono coloro con i quali sistematicamente si perde, nel lavoro come nello sport o nella vita. Hanno letto un libro nella vita, e lo citano continuamente; hanno partecipato ad un corso di due ore di qualcosa, e si sentono ormai esperti della materia; hanno cioè quel minimo assoluto di competenza sufficiente a farli sentire sicuri di sé, e a fare danni. I perdenti sono quelli che di solito pretendono di fare i centravanti, si fanno passare decine di palloni (e se non gliela passi se la prendono da soli) e li mandano sempre, inevitabilmente fuori.
Ci sono perdenti e scarsi ovunque: per fare un esempio la Arcuri è una scarsa, ma non fa danni, nessuno si aspetta che reciti nei suoi film, fa parte della scenografia; la Bellucci invece è perdente, perché pretende di partecipare a film seri, e li rovina. Ce ne sono tanti anche in politica, in letteratura. L’importante è imparare a distinguere: abbracciare gli scarsi perché in fondo lo siamo un po’ tutti in qualche settore, e tenere alla larga i perdenti che ci trascinano a fondo con la loro boria
Irripetibilmente stupido
La discussione sul diritto d’autore, sul costo di cd e dvd, sulla pirateria è lunga e complessa e non può certo essere ridotta negli spazi di un blog. Spazi che invece sono sufficienti per definire proposte ridicole per non dire demenziali come quella degli "Irripetibili".
Si tratta di una serie di dvd – li ho visti oggi in un centro commerciale – che si deteriorano 48 ore dopo la loro apertura. Perché? Perché così l’acquirente può vederli una volta sola e non prestarli magari ad un amico. Davvero, siamo alle soglie dell’avanspettacolo, a quando l’automobile con un solo sedile così non puoi dare passaggi e i biscotti che si autodistruggono se non li mangi tutti in due ore? Perché?
Lo slogan afferma che i questo modo si possono vendere al pubblico anche film che sono ancora nelle sale. A parte il fatto che non è vero (i film che ho visto in vendita a 8 euro sono usciti 5-6 mesi fa e fra qualche settimana saranno disponibili nella versione "duratura" a poco più di 10 euro). Ma poi, che ragione è? Siccome si autodistrugge allora non fai concorrenza al cinema? E perché, magari perché va in fumo dopo il primo tempo così ti costringe ad andare al cinema per vedere com e va a finire? Se prendo un dvd che si distrugge comunque non vado al cinema a vedere lo stesso film. Per combattere la pirateria, allora?
Ma non scherziamo. 48 ore sono più che sufficienti per dupilcare un film, alla faccia di tutti i sistemi anti-copia. Anzi, al pirata si fa un favore, perché a lui il film serve davvero poche ore, quelle necessarie ad avviare i masterizzatori e generare cloni.
Credo che questa proposta verrà rapidamente seppellita nella peggiore forma di disprezzo, l’indifferenza.
Tranne, forse, che per un caso: il pornazzo che dopo 48 ore non solo non è più visibile, ma assume le sembianze di un documentario sulla pesca d’altura. Così, se tua mamma lo becca nell’armadio, al limite si chiederà come fai senza canna…