Risulta sempre particolarmente affascinante leggere testi di fantascienza ambientati in un futuro anteriore che poi non si è concretizzato, o che ha preso forma diversamente da come gli scrittori avevano immaginato.
In questi racconti che possono ormai essere considerati un classico, Brandbury considera più probabile che l’uomo del terzo millennio colonizzi Marte piuttosto che i neri raggiungano una emancipazione dignitosa. È andata peggio? Meglio? Chissà.
La raccolta ha una peculiarità, e cioè i racconti seguono un percorso cronologico, dall’arrivo dei primi colonizzatori sino al finale che non mi sembra corretto anticiparvi ma che non sorprenderà chi conosce un po’ l’autore.
Alcuni interpreti ritornano più volte, altri sono continuamente evocati, come i marziani, che qui non sono né brutti né mostruosi, ma semmai talmente angelici da far vergognare noi esseri umani per la nostra pochezza. Dal momento che i racconti sono stati scritti in periodi diversi, anche lo stile ne risente: dalle avventure quasi western dei primi, alle meste riflessioni escatologiche degli ultimi. I miei preferiti? Quello del marziano che cambia sembianze e carattere a seconda delle persone nei cui ricordi si rispecchia e quello dei due abitanti solitari che scoprono al telefono di non essere più soli, salvo essere delusi poi dell’incontro.
Sia chiaro, siamo lontani dall’ottimismo fanciullesco della fantascienza disneyana di Star Wars o dei fumetti Marvel, così come il discorso meramente scientifico alla Asimov passa in secondo piano (Brandbury non ci spiega mai come si respira su Marte, perché semplicemente non gli interessa).
Sono i meandri della psiche umana a interessare lo scrittore, e l’abisso nel quale siamo condannati a sprofondare non sembra evitabile nemmeno dall’altra parte della galassia.