Capita talvolta leggendo i romanzi di autori esordienti o magari i manoscritti che qualcuno ti propone per chiedere un parere di osservare come a fronte di un?estrema cura nei confronti dello stile, delle scelte lessicali, della parola se vogliamo ad effetto, della frase emblematica non corrisponde altrettanta attenzione nei confronti della struttura narrativa, della trama, del ritmo, dei pesi dei personaggi.
Volendo usare un termine caro alla narratologia, diremmo che c?è più cura alla fabula che all?intreccio, come se ci si trovasse di fronte a tante belle pagine a cui però manca un forte filo conduttore che le tenga assieme. Non è quello che capita a Luciano Vitali Roscini, autore di “Fine dei giochi”: neanche una parola è sprecata, non c?è spazio per i virtuosismi dell?autore e le digressioni filosofiche, qui c?è tanta sostanza, uno stile asciutto, concreto, netto. Tutto ha inizio con una notizia sconcertante, Bianco, un amico di Marco, si è tolto la vita in cella. Marco, che più che un criminale è uno sfaccendato che vive facendosi mantenere dalla madre, non ci sta, non riesce a credere che Bianco si sia tolto la vita, e decide di intraprendere una personale ricerca della verità, anche perché non crede nella volontà delle forze dell?ordine che anzi, sospetta stiano a guardare dietro una guerra di mala che sta facendo fuori molti criminali del Pilastro.
E così cominciano le indagini di cui non voglio svelare troppo, se non anticiparvi che il racconto si muove su due binari paralleli: le indagini di Marco, che avvengono nel presente storico della narrazione, e la vita di Bianco, che è ignota a noi ma anche a Marco stesso. Tra i due piani narrativi ci sono alcuni anni di differenza. L?espediente è molto efficace perché ci troviamo da un lato a scoprire alcuni dettagli insieme al protagonista, dall?altro ci sono alcuni aspetti di Bianco che noi conosciamo, perché il romanzo ce li ha resi evidenti, ma che Marco non conosce. Una via di mezzo insomma tra il giallo classico, quello alla Agata Christie insomma, in cui il finale si svela alla fine, e quello, un po? alla Derrick per intenderci, dove invece noi sappiamo già chi è il cattivo ma ci domandiamo quando e come lo scoprirà il protagonista.
Un?altra piacevole sorpresa è quella di trovarsi di fronte a personaggi che si fa fatica a inquadrare in categorie o prototipi. Il protagonista, Marco, con cui è facile che il lettore si identifichi, è animato da amicizia e lealtà, ma è anche un irresponsabile, un eterno adolescente, qualcuno direbbe un bamboccione. Bianco è un criminale bello e maledetto, però non esita a ricorrere all?omicidio per non perdere l?onorabilità e la fama nel branco; Alce e Negus ispirano simpatia, ma sono dei bestioni che trasudano violenza. Persino Remo, uno dei vecchi, dei capi della malavita, fa quasi tenerezza mentre scruta fuori dal suo negozio spaventato da una guerra che prima o poi lo coinvolgerà.
Unica speranza: le donne, quando non cedono anche loro al fascino del boss.