Alcuni giorni rientrando a casa mi sono accorto che c’erano stati dei lavori sul marciapiede non distante dalla mia abitazione. Visto che era buio sulle prime non mi sono reso conto di ciò che era stato aggiunto o rimosso, ma poi ho guardato meglio e ho visto: la cabina telefonica non c’era più. Sostituita da un telefono pubblico con una striminzita pensillina di plastica.
Per carità, nessuna obiezione seria potrebbe giustificare la presenza di un oggetto che appartiene indiscutibilmente al nostro passato: e sono abbastanza sicuro che tra breve anche il telefono pubblico scomparirà. D’altronde le cabine erano sempre più spesso prese di mira da vandali, e chi ha lavorato nella SIP racconta di quanto costoso e faticoso fosse provvedere alla manutenzione di quelle cabine e prima ancora al recupero del denaro, quando prima dell’avvento delle carte telefoniche si pagava con gettoni e monetine.
Eppure con le cabine scompare definitivamente una serie di abitudini, modi di fare, e perché no, anche di ricordi legati a quei posti. Pensate soltanto all’importanza iconica della cabine londinesi, o alle migliaia di scene di film ambientate in una cabina telefonica (e qui mi limito a citare Uccelli di Hitchcock e Duel di Spielberg, però se volete partecipare al gioco suggerite le vostre preferite).
Pensate all’importanza, nella narrativa poliziesca, della possibilità di lasciar perdere le proprie tracce, oppure delle necessità di recuperare un telefono pubblico tipica del protagonista in fuga: oggi, tra dna tramite il quale si risale praticamente a tutto (nelle serie americane: nella realtà italiana mi sembra un tantino più complicato) e segnali lasciati dal cellulare, studiare un colpo di scena è molto più difficile.
Personalmente il telefono pubblico mi fa venire in mente le prime gite con la scuola, quando la sera in fila indiana raccoglievamo i gettoni per telefonare a mamma che aspettava con ansia in quei pochi minuti di sentire come era andata la giornata, se avevo sudato e se avevo mangiato abbastanza. Le mamme di oggi tracciano gli spostamenti dei figli con il gps, controllano le foto pubblicate su facebook in tempo reale e prima o poi troveranno il modo di misurare online la temperatura corporea dei figli collegando un termometro allo smartphone.
E poi le telefonate lampo ai tempi del liceo quando con quelle carte telefoniche sempre agli sgoccioli ci seccava il tempo che il papà della nostra amica (rispondeva sempre il papà, maledizione) ci metteva prima di passarcela alla cornetta. Perché il telefono pubblico ti garantiva la privacy da un lato, ma dall’altro il problema del papà rimaneva.
E che dire dei bar con l’insegna con la cornetta, a indicare che dentro avresti trovato un sarcofago di legno con un telefono risalente agli anni sessanta che puzzava di tabacco, birra e big babol?
Il telefono pubblico mi fa venire in mente anche gli anni dell’università (il mio primo cellulare è venuto dopo la laurea), le ore passate nelle cabine pubbliche con la mappa di Bologna in mano per cercare un posto letto, le striscioline di carta con i numeri di telefono degli annunci scritti a mano, la disperata ricerca di un bar per cambiare il denaro quando gli spiccioli finivano. Noi quando chiamavamo non chiedevamo “dove sei”, perché chiamavamo sempre un fisso che da trent’anni campeggiava in soggiorno, ma semmai dovevamo essere noi a dire dove eravamo.
Mi fa venire in mente anche le mie urla inferocite di fronte ad un amico che entrato con me nella cabina si lasciava andare a peti roboanti ma rifiutava di uscire perché fuori pioveva. E la speranza che in cabina ti accompagnasse quella ragazzina così carina per chiamare gli altri, che invece sistematicamente rispondeva “ti aspetto qui fuori”.
Ricordo ancora la telefonata a casa per dire che avevo superato i test per l’accesso all’Università di Bologna da una cabina in via Borgo di San Pietro, e quella per annunciare la prima borsa di studio dai dintorni di via Galliera… Per non parlare dei soldi spesi in numeri sbagliati, perché noi il numero lo facevamo sul serio, mica schiacciavamo un nome sullo schermo. Di numeri ne conoscevo a memoria decine, adesso ricordo a malapena il mio. Le telefonate erano poche e importanti, e il luogo diventava parte integrante. Ed era impoortante anche il tempo: nei primi anni di università ero in un collegio dove potevamo solo ricevere le telefonate, per cui era fondamentale sincronizzare i tempi con il chiamante. Sembra passata una vita, sono passati vent’anni.
Sullo stesso marciapiede dove risiedeva l’ultima cabina del quartiere, un giorno mia figlia mi chiese: papà, a che serve quella? Borbottai che serviva per le persone che non hanno un cellulare. O l’hanno dimenticato. O per i nostalgici.
Ora non più.