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Non chiamateli gialli

Da sempre la letteratura poliziesca e la cronaca nera rappresentano due vasi comunicanti: le vicende criminali alimentano la fantasia degli scrittori e a loro volta c’è chi – nel male ma anche nel bene – nella vita si ispira a personaggi letterari.

Personalmente trovo molti spunti nei fatti di cronaca realmente avvenuti, utili a tracciare le vicende dei miei romanzi, perché mi sembra che così le storie siano più realistiche. Può darsi che in questo incida anche la mia formazione giornalistica.

Non ci trovo niente di male in tutto ciò: è il contrario che mi mette in imbarazzo. L’utilizzo cioè di tecniche letterarie per raccontare la cronaca nera, a cominciare dall’abuso della parola “giallo”.

Sappiamo bene che l’origine del termine per indicare la narrativa poliziesca nasce dal colore della famosa collana Mondadori. Però il giallo è fantasia, è divertimento, intrattenimento.

Anche nelle versioni più crudeli, spietate, nel noir più angosciante, alla base c’è l’immaginazione dello scrittore. Che può fare riflettere, appassionare, denunciare, angosciare forse, ma un pubblico di lettori che ha scelto di farlo. E che in ogni momento può chiudere il libro, o spegnere la tivù. Nella vita è diverso. Non ci sono gialli, nella vita, ma tragedie. C’è gente che soffre, non fantasie. Gente che non ha scelto di essere lì, di vedere morire un proprio caro, un parente, un amico. Sono persone, non personaggi. Invece, dai plastici agghiaccianti di certi salotti televisivi al proliferare di documentari che adesso si chiamano “true crime”, la passione morbosa verso queste storie cresce e disorienta chi, come me, non riesce a non essere empatico nei confronti delle vittime, ma anche dei carnefici, che spesso sono vittime a loro volta.

Per cui, cari colleghi giornalisti, documentaristi, cineasti, continuate a raccontare la cronaca perché è un presidio della libertà e nessuno ha nostalgia negli anni in cui era sparita dai quotidiani perché andava tutto bene e i treni erano puntuali. Però con il tatto e la consapevolezza di incidere nella carne viva delle persone.
In caso contrario, potete sempre scrivere romanzi.

PS. Chiudo con una civetta di alcuni anni fa per sdrammatizzare un po’.
Ritrovato dito mozzato di un cinese.
È giallo.

Una puntata di Report su Report

Ho un sogno televisivo che mi piacerebbe tanto si avverasse. Non è una partita del Taranto in serie A (mi sono arreso), né un film con Sabrina Ferilli diretta da Tinto Brass (sebbene…).
No, il mio sogno è una puntata di Report che ospita un servizio dedicato a Report. Un Report al quadrato.
Già immagino l’avvio: una voce fuori campo, con una musichetta allegra e delle inquarature di Viale Mazzini fatte con il drone, danno la stura al tipico “Vi siete mai chiesti quanto costa una puntata di Report?” A questo punto grafiche 3d un po’ a casaccio che fanno tanto festa, inquadrature di giornalisti di inchiesta che percorrono corridoi, e poi la bomba: 180 mila euro. Che però detto così non sembra neanche tanto. 180 mila euro dei nostri soldi già va meglio, magari con un accenno al fatto che con quei soldi si potrebbero sfamare 180 mila bambini nello Zimbabwe, che fa tanto sinistra.

Per colpire al cuore lo spettatore poi ci starebbe bene un agguato in un ristorante in cui i redattori stanno facendo pausa pranzo, chiedendo loro quanto stanno spendendo alle spalle dei contribuenti italiani. Rapida occhiata al menù, e accenno a quanto debito pubblico si sarebbe potuto risparmiare se solo il giornalista avesse preso un’insalatona al posto dei maccheroni con le zucchine.

Ovviamente la scena al ristorante, montata all’inizio, è l’ultima da girare, per non insospettire la redazione. A questo punto nel montaggio via con la carrellata di dati. Tasso di disoccupazione in Italia, costo delle bollette elettriche di Report, investimenti nel nucleare, tutto con grafica stilish a gogo. Confronto dello stipendio di un caporedattore (magari laureato, magari con esperienza all’estero, si vabbe’) con quello dell’usciere che non riesce ad arrivare a fine mese ed è costretto a stare seduto a fare niente tutto il giorno, con le gravi conseguenze per il suo stato di salute.

Però siamo di sinistra, dobbiamo aprire al dibattito. Contattiamo un redattore dicendo che vogliamo intervistarlo per un documentario su come si diventa giornalista. Lui ci accoglie contento, e a quel punto noi gli piazziamo la camera sulla scrivania, con inquadratura dal basso della pappagorgia che fa tanto corrotto, e vai di indignazione con il nostro tema preferito: lo sperpero di denaro pubblico. Sarà forse vero, gli chiede la giornalista in un montaggio serrato in cui lei è inquadrata a favore di luce e lui con un primissimo piano che lo fa sembrare un Mangiafuoco appena uscito dalla sauna, che ha speso soldi pubblici per iscrivere suo figlio ad un corso di pianoforte? La notizia bomba ovviamente è stata recuperata dopo una breve ricerca sulla pagina Facebook del giornalista. Uno dei pochi dipendenti, va detto, perché la maggior parte sono collaboratori.
Il redattore risponde che lo ha iscritto, sì, ma pagando con i suoi soldi. Ma questa risposta non la vedremo mai, tagliata dal montaggio, eh signora mia la televisione ha i suoi tempi. Tanto il suo stipendio lo paghiamo noi contribuenti, sono soldi nostri, alla fine. La faccia basita del redattore che non capisce se lo stanno prendendo in giro continua a venire inquadrata mentre gli viene mostrato un finanziamento che lo stesso avrebbe fatto con i soldi pubblici (si vabbe’ è il suo stipendio, ma è un dipendente Rai, quindi sono soldi nostri, uffa) per una associazione che si occupa di cani randagi. Guarda caso, spiega la voce fuoricampo, il redattore è proprietario di un mastino napoletano. Una coincidenza? Non credo proprio. Indignazione.

Dopo l’imboscata statica, ci vuole quella in movimento alla Striscia la Notizia. Si insegue un uomo per strada gridando “scusi, è vero che sua moglie fa la bidella alle scuole Giovanni Paolo?” L’uomo in questione è un elettricista Rai che si occupa dell’illuminazione dello studio che è riuscito a far sistemare la moglie in un comodo impiego statale. Poi si potrebbe scoprire che la donna lavora lì da vent’anni prima, ma intanto c’è la corsa sui marciapiedi, l’uomo che non risponde, che si gira dall’altra parte, il pathos.
Siccome il giornalismo di sinistra poi però coinvolge anche l’interlocutore preparato, che non siamo mica le Iene, ecco allora che sei ore prima della messa in onda del programma si manda una e-mail a info@report.it. A seguire, drammatica inquadratura della sedia vuota dove avrebbe dovuto essere il caporedattore, che non ha voluto rispondere. Si scoprirà il giorno dopo che l’indirizzo e-mail non esiste, ma intanto grazie al cielo c’è Report che ci apre gli occhi.
La puntata potrebbe avere altri picchi. Per esempio con un’intervista al medico che ha rilasciato un certificato medico alla segretaria di direzione, (e qui confronto tra il tasso di malattia tra i dipendenti Rai e gli autotrasportatori della Florida, che lascia di stucco, vergogna!!!!), medico che guarda caso – troppe coincidenze – abita nello stesso quartiere. E concludersi con una scena, anticipata da bambini che corrono su prati verdi e anziani che si abbracciano in riva al mare, di una televisione locale danese, dove con 180 mila euro fanno dieci mesi di programmi, loro. Alla faccia nostra. Ovviamente non sapremo mai di quali trasmissioni si tratta.

PS Ho davvero amato Report, in passato, così come amo il giornalismo d’inchiesta. Così come spero di tornare ad amarlo, quando torneranno a fare giornalismo d’inchiesta.

Sbloccare i fondi. Fosse facile

Una delle espressioni giornalistiche più infelici di sempre è quella che fa riferimento al termine “sblocco”, associato quasi sempre a finanziamenti di opere pubbliche. Si sblocca un’auto ferma con il freno a mano o una serratura chiusa a chiave: operazioni semplici e immediate.

Perché la faciloneria ignorante che purtroppo imperversa in alcune redazioni a questo allude: soldi pubblici pronti, disponibili per realizzare opere mirabolanti e migliorare le magnifiche sorti progressive dell’umanità, tenute ferme dall’inerzia di qualche burocrate fannullone. Ora, a parte che almeno la visione di centinaia di telefilm polizieschi avrebbe dovuto insegnare a saccente titolista di turno che dietro ogni crimine c’è sempre un movente, e davvero non si capisce, se lo sblocco è così banale, per quale fine il funzionario non dovrebbe dargli seguito.

Ci sono dei soldi per fare delle cose, e tu non li sblocchi? Vi assicuro che anche il più pigro dei lestofanti lo farebbe, non foss’altro per levarsi di dosso la pressione.

La verità è un’altra. La verità è che dietro quella parolina semplice ed edificante, sblocco, ci sono procedimenti lunghi, complessi e farraginosi. E non crediate che sia colpa solo degli italiani, le norme europee spesso sono anche più difficili. Non riesco a fare degli esempi, perché ci vorrebbe un trattato di miglisoldiaia di pagine, altro che un post. Ma tornando all’esempio della serratura da sbloccare, diciamo che è necessario prima presentare un progetto per spiegare come si ha intenzione di girare la chiave nella toppa, trovare i fondi perché la chiave non te la pagano, farsi approvare il progetto di giramento della chiave, apportare le varianti che sicuramente verranno richieste dagli organi la cui esistenza sarebbe messa a rischio se non chiedessero sempre varianti.

E poi ancora selezionare con evidenza pubblica chi dovrà maneggiare la chiave, valutandone integrità e curriculum, il tutto sempre, mi raccomando, rendicontando ogni passaggio, seguendo la dettagliata modulistica e pubblicando i dati doverosi per garantire il diritto alla trasparenza dei cittadini. E una volta approvato il progetto di giramento di chiave e selezionato il giratore, finireste poi in tribunale, perché il primo dei candidati giratori non selezionati come minimo vi farà ricorso. Perché ammettere che c’è un altro più bravo, quando possiamo usare il magico alibi della raccomandazione degli altri? Fare ricorso è doveroso, e se perderemo sarà colpa della lentezza della magistratura.

Ancora convinti che sbloccare i finanziamenti sia così facile? Allora procedete pure, ma sappiate che nel frattempo qualche politico avrà promesso a un cugino, un finanziatore, un amico o un elettore di peso un utilizzo dei fondi diverso da quello previsto inizialmente, per cui si ricomincia.

Maledetti burocrati, se solo i finanziamenti potessero essere sbloccati dai titolisti dei giornali, quanti progressi faremmo.