Non so perché ma il connubio nostalgia-sport mi affascina e mi coinvolge sempre. Ho già raccontato di come mi manchino, nel calcio, i numeri dall’uno all’undici, dove il tre era il terzino sinistro e il dieci il trequartista con i piedi buoni.
Domenica, guardando il gran premio di formula uno, sono stato colto da un altro tipo di nostalgia. Ma ve la ricordate la Lotus nera, con le finiture che richiamavano lo sponsor John Player Special? Era così elegante che l’avresti tenuta in salotto, avendo un salotto sufficientemente capiente. E la Brabham, che sembrava uno squalo balena? E le Arrows tutte bianche, che facevano tenerezza, sembravano lì per errore, timide, e infatti dopo pochi giri tornavano ai box.
Le auto di formula uno attuali sono tutte uguali, tutte dello stesso colore: patchwork. Sembra di vedere dei volantini pubblicitari ambulanti. Il rosso Ferrari, con un po’ di fatica, regge; ma per le altre è un disastro. Neanche si capisce quando qualcuno sta sorpassando un avversario o un compagno di squadra.
Ma cari sponsor, dico io: se non potete permettervi di avere una scuderia tutta vostra (come la Red Bull, o una volta Benetton), se non potete determinare i colori della squadra (come la mitica McLaren che sembrava un pacchetto di Marboro) allora rinunciate, il vostro box giallo sulla finacata inferiore destra dietro i bocchettoni non lo vedrà mai nessuno e sarà solo una macchia di fastidio per il telespettatore.
Se proprio volete, cercate di acquistare uno spazio sulla chiappa destra del pilota, che tanto siamo abituati a vederli vestiti come clown carnevaleschi: ma le macchine lasciatele stare.
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Grazie Michael
Ha cominciato che c’era ancora Senna, la Ferrari che festeggiava se finiva la corsa e una Formula Uno che dopo gli anni della noia cominciava a interrogarsi su quelle corse così monotone.
Ha vinto il primo titolo con una macchina che sembrava uno cartellone pubblicitario, anzi lo era, quella Benetton patchwork che serviva a vendere bluejeans. Quando ha deciso di passare alla Ferrari non tutti si sono resi conto dei rischi che si assumeva: a parte un glorioso passato, la scuderia di Maranello a metà anni novanta non offriva nessuna garanzia di risultato, e ripartire da zero per un campione del mondo non è facile (guardate che fine ha fatto Villeneuve). Ci ha messo un po’, un paio d’anni di duro lavoro, quel titolo perso per un soffio nel 97 e l’antipatico sospetto che avesse cercato di speronare la Williams, poi gli anni dei trionfi.
Con la Ferrari ha vinto praicamente un gran premio ogni tre corsi, stratosferico.
E ieri, nell’ultima gara della carriera, sembrava un papà che gioca con i bimbi, parte con un giro di ritardo, scoppia la gomma, li riprende tutti e ci manca davvero poco che non li ripassi tutti. Si ferma al quarto posto dopo un sorpasso memorabile a Raikkonen che se aveva qualche ansia sul ruolo di erede adesso ne sarà schiacciato. Tanto di cappello, Michael, dopo aver sentito a lungo i racconti di mitici di chi ha visto correre Nuvolari e Fangio, adesso possiamo dire di aver visto anche noi un campione senza tempo.
Chissà quanto ci vorrà per vederne un altro.
PS Massa, che ieri ha vinto il gran premio, è nipote di un emigrante di Cerignola. I pugliesi per vincere devono lasciare la Puglia…