Non c’è nessuno che sappia meglio esprimere la delusione quanto un fan della prima ora deluso.
MI riferisco al primo episodio della terza serie de L’ispettore Coliandro, a mio modo di vedere il peggiore di quelli sin qui trasmessi. E per me, che ho amato questa fiction come poche in passato, è stato quasi doloroso assistere ad un episodio di una mediocrità imbarazzante.
Ci sono almeno una quarantina di motivi per cui non amo la regia dei Manetti Bros, primo fra tutti il peccato originale di tutti i registi presuntuosi, e cioè l’interruzione della sospensione di incredulità. Quando guardi un loro film, cioè, ad un certo punto capisci che stai guardando un film, a causa di una carrellata virtuosistica o di una steadycam fuori luogo. Ma loro sono fatti così, prendere o lasciare, e bisogna ammettere che sono al di sopra della media degli sceneggiati televisivi,sopratutto sono tra i pochi a saper gestire una scena d’azione sulla scia non tanto di Tarantino, citato spesso a sproposito, quanto dei migliori poliziotteschi anni settanta di Di Leo. Ma non sono stati loro a deludermi, anche se inscenare una rapina ad un portavalori sulla salita che porta a San Luca può risultare estremamente inverosimile per chi conosce Bologna. Ma immagino che sia costato meno girarla lì (di fatti è una strada praticamente deserta nei giorni feriali), e poi i portici fanno scena, e pazienza. Poi non li amo perché riempiono sempre i loro episodi di attori e intrepreti romani: risulta veramente insopportabile che in una serie ambientata a Bologna praticamente non ci siano bolognesi fra gli interpreti principali. Ma questo valeva anche per gli episodi precedenti.
A deludermi profondamente stavola è stata la sceneggiatura, da sempre il punto di forza di questa serie. (continua)
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La soglia psicologica
Gesù a trent’anni decise che era venuto il momento di fare sul serio, appese il martello al chiodo, chiese a Giuseppe il TFR e partì per il suo viaggio.
A trent’anni i giocatori comprendono che il tempo di giocare sta per finire, se sono bravi cominciano a mostrarsi in giro in giacca e cravatta per convincere il presidente a riciclarli come dirigenti, se sono scarsi iniziano a commentare i fatti della giornata in qualche emittente privata.
A trent’anni anche le letterine si sposano.
A trent’anni quando guardi una donna non pensi subito a come starebbe in costume da bagno, ma ti domandi se sa fare le lasagne al forno. A trent’anni le donne non hanno più bisogno di mostrare le curve per sedurre, ma semmai devono nascondere quelle di troppo. Trenta, come i giorni del mese, trenta come la percentuale di stipendio che se ne va in tasse.
A trent’anni ti chiamano signore quando chiedono un’indicazione, e non sei più obbligato a cedere il posto in autobus. È già tanto che qualcuno non lo offre a te. A trent’anni sei grande, hai superato la fatidica soglia: il tuo stipendio è rimasto di là, lui è ancora junior, chissà per quanto tempo lo sarà, è bello sapere che una parte di te rimane giovane. Sul retro di copertina del mio libro c’è scritto che sono nato vent’otto primavere e mezzo fa. Sul prossimo, semmai il mio editore avrà il coraggio di pubblicarlo, ci sarà scritto che ho trent’anni: li compio fra qualche settimana.
Non sarà un libro comico: cacchio, come fa un trentenne a scrivere un libro comico?