Che la narrativa cambi, si adatti ai tempi, si evolva, è un dato di fatto. Nel caso del romanzo poi questo è ancora più evidente, visto che con i suoi quattro secoli o giù di lì rappresenta un modello di composizione relativamente giovane, se confrontato ai millenni della poesia in versi, per esempio.
Ho deciso allora di svagarmi con un passatempo che non ha nessuna valenza scientifica o critica, ma è solo un diletto più o meno intelligente. Ho scelto due romanzi di genere, in particolare due romanzi di genere giallo, che avessero qualcosa in comune, e appartenessero però a periodi storici diversi. E mi sono divertito a confrontarli. Gioco a carte scoperte sin da principio. Sono un amante dei classici, detesto il modello industriale che gli editor negli ultimi anni hanno imposto alla narrativa, quello che definisco provocatoriamente editorazzismo; quindi, tra i due non c’è stata assolutamente gara e non farò nulla per nasconderlo. I due romanzi in questione sono Il profumo della dama in nero di Gaston Leroux del 1908 e Il caso Alaska Sanders di Joël Dicker del 2022. Se temete le anticipazioni, non preoccupatevi, non svelerò nulla del finale.
Cos’hanno in comune questi due romanzi in apparenza così lontani e diversi tra loro? Il fatto di essere profondamente legati ad altre opere di successo degli stessi autori, tanto da poter essere addirittura considerati dei seguiti: Il mistero della camera gialla nel caso di Leroux e La verità sul caso Harry Quebert nel caso di Dicker. Direttamente connessa a questo aspetto c’è la presenza di un personaggio più evocato che raccontato: Frédéric Larsan nel primo caso, Harry Quebert nel secondo. Più tenue infine il legame tra i due protagonisti, che in comune hanno il fatto di non essere investigatori di professione: Rouletabille è un giornalista, Goldam uno scrittore.
Le affinità, come vedremo, finiscono qui: oggi nessun grande editore pubblicherebbe il capolavoro di Leroux. Appartiene infatti a una razza reietta per il semplice motivo che viola quasi tutte quelle famose regole commerciali di cui parlavo prima. Regole che invece Dicker rispetta al punto tale che il suo lavoro le incarna, ne è completa identificazione. Se esistesse un Premio Nobel per gli editor, lo dovrebbero vincere quelli di Dicker.
Ma procediamo con ordine: nel romanzo di Leroux abbiamo una coppia di sposi, Robert Darzac e Mathilde Stangerson che chiedono aiuto a Rouletabille, il giornalista investigatore, una specie di Sherlock Holmes più empatico e appassionato; qualcosa non va, un’ombra del passato è tornata a manifestarsi (uso il punto e virgola solo perché tanto non ho un editor che me lo impedirebbe, perché per loro il punto è il virgola è il male). Si tratta del primo marito di Mathilde (la dama in nero del titolo), Larsan, che nel primo romanzo della saga, Il mistero della camera gialla, tutti davano per morto. E con la trama mi fermo qui, aggiungendo che non mancano alcuni capisaldi del genere: la suspense, il colpo di scena, le false piste.
E veniamo a Dicker. Siamo a Mount Pleasant nel New Hampshire, ma potremmo essere a Los Angeles, nel Mozambico o a Molinella: anticipando una delle riflessioni successive, vi anticipo che l’ambientazione non ha nessuna rilevanza. Come il titolo anticipa, la vittima si chiama Alaska Sanders, il colpevole confessa e si uccide. Ma le cose non sono andate davvero così: ci troviamo insomma di fronte al più classico del cold case, cioè quelle indagini su casi irrisolti – o risolti senza trovare il reale colpevole – decine di anni prima. Protagonista della vicenda sono il sergente Perry Gahalowood, che aveva seguito malamente la prima indagine, e il suo amico scrittore Marcus Goldman, l’autore de La verità sul caso Harry Quebert, precedente romanzo di Dicker. Questo è lo spunto più originale di questo lavoro, il dettaglio che il protagonista sia un alter ego dello scrittore. Anche qui, come detto, abbiamo un fantasma che ritorna dal passato, Harry Quebert in persona, anche se con un ruolo marginale, più da life coach (altro aspetto che piace tanto ai contemporanei, quei due o tre consigli della nonna su come scoprire te stesso e vivere felice inseguendo un sogno).
E con la storia fermiamoci qui, spero di avervi invogliato a leggerli perché leggere fa sempre bene. Divertitevi, se volete, a dare un’occhiata alle recensioni più attuali dei due autori: sono in tanti a massacrare il povero Leroux, segno di quanto il gusto moderno sia stato modificato dalla combriccola degli editor. Qualcuno a cui non è piaciuto Dicker c’è pure, ma i toni sono per lo più positivi: il romanzo infatti è un perfetto esempio di midcult secondo la definizione di Dwight Macdonald: ha una trama riconoscibile, temi consensuali, stile comprensibile facile facile facile, non troppo originale, non troppo eccessivo.
Se dovessi fare un paragone, direi che il romanzo di Leroux è una sonata di Beethoven: parte lentamente, rallenta, accelera, si prende delle pause, ha dei picchi e poi delle frenate, divaga e illumina. Dicker è più che altro una compilation di reggaeton latino americani: sempre orecchiabili, sempre di facile ascolto, sempre lo stesso dannato ritmo. Il lettore contemporaneo medio lo adora, mentre invece lamenta la lentezza di Leroux, le sue pause, le sue divagazioni, la sua introspezione psicologica. Il romanzo francese infatti viola quasi tutte le regole di Santa Maria dell’Editing: descrive a lungo ambienti e paesaggi, con dovizia di particolari, in alcuni passaggi basta chiudere gli occhi per sentirci lì, sulla Costa Azzurra, giusto pochi chilometri dentro i confini italiani. Queste descrizioni aggiungono qualcosa alla storia? Niente. Un editor contemporaneo le avrebbe cancellate senza pietà, non producono jump scare e peggio ancora rallentano l’arrivo dello story twist: non va, caro Leroux, il lettore a quel punto si sarà messo a cercare su youtube gattini sovrappeso che camminano sui cornicioni. Come anticipavo prima, il romanzo di Dicker avrebbe potuto essere ambientato ovunque perché non c’è traccia di descrizioni, paesaggi, ambienti, se non quelli indispensabili alla storia. E non è solo una questione immaginifica: è il contesto anche sociologico a mancare completamente. Quegli eventi avvengono lì ma sarebbero potuti accadere altrove, i paesi sono solo uno scenario, non sono parte della vicenda. Al contrario Leroux è ossessionato dai risvolti psicologici dei suoi personaggi e del contesto angosciante che i suoi protagonisti vivono, prede impotenti che si sono rinchiuse nella loro stessa prigione.
Per non parlare dell’infodump, altro mantra degli adepti dell’editorazzismo: si tratta insomma dell’errore dello scrittore che fornisce troppe informazioni, tutte insieme, al povero lettore, senza che queste aggiungano nulla allo svolgimento. Per carità, può capitare, ma gli editor di oggi vedono il lettore come un disgraziato semianalfabeta che non può reggere a troppe subordinate causali. Che abbondano in Leroux, e sono completamente assenti in Dicker. Quest’ultimo ha uno stile leggerissimo, semplice: una azione dopo l’altra, una vicenda dopo l’altra, nessun salto, nessuna evocazione, tutto straordinariamente lineare, sempre paratassi, via l’ipotassi. Legata al dogma dell’infodump c’è poi il primo comandamento fondante della combriccola: show, don’t tell. Lo scrittore deve mostrare, non raccontare. Anche in questo caso, mio caro Leroux, la invitiamo a rileggere il suo manoscritto: la storia c’è, per carità, ma c’è un eccesso di raccontato. Inutile dire che nessun editor oggi potrebbe leggere Dostoevskij o Tolstoj senza contorcersi sul divano.
Non parliamo poi della cosiddetta narrazione a focalizzazione zero, quella cioè del narratore onnisciente che vede e giudica. Anatema! Un buon editor come minimo brucerebbe un manoscritto del genere e chiamerebbe poi un prete esorcista per cacciare gli spiriti maligni che potrebbero aleggiare nella stanza. Indovinate dove c’è questo narratore e dove no, nel mio confronto?
Non parliamo poi del colpo di scena. Lo scrittore contemporaneo deve essere ossessivamente realistico e credibile: niente conigli tirati fuori dal cilindro. Leroux, come gli autori del suo periodo (ah, che invidia), se ne infischia della verosimiglianza. Qui devo essere sincero: persino io ho sollevato un po’ il sopracciglio, perché alla fine sono un lettore dei miei tempi ed evidentemente ho assorbito un po’ di editorazzismo. Neanche Dicker scherza però, su quest’ultimo aspetto.
Potrei continuare ancora, ma mi fermo con un’ultima riflessione. C’è stato un periodo in cui gli scrittori pensavano al proprio romanzo già in chiave di trasposizione cinematografica: tempi giusti per rientrare nell’ora e mezza o due di una proiezione, senza fare ammattire lo sceneggiatore. Dicker va oltre. La sua è praticamente già la sceneggiatura di una serie televisiva in dieci puntate: ci sono persino i cliffhanger alla fine di ogni puntata. Il metodo è talmente industriale da risultare stupefacente.
In conclusione, io non ho nulla contro i romanzi contemporanei scritti come Il caso di Alaska Sanders: appassionano, divertono, sono un ottimo passatempo. Quello che non sopporto è la combriccola di editor e le loro regole ortodosse che fanno sì che tutti gli autori di gialli, oggi, devono mirare a scrivere qualcosa come Il caso di Alaska Sanders.
Consentitemi uno sfogo personale: se è il prezzo da pagare per avere successo, mi tengo stretti i miei venticinque lettori.