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Magliette buffe

Sono un grande estimatore di magliette buffe. Quelle con una frase corrosiva, una immagine divertente, uno spunto ironico. Ne ho una autentica passione e se le vedo sulle bancarelle o in un negozio online difficilmente resisto.

Ovviamente scelgo il contesto adatto per indossarle, quasi sempre vacanziero. Non ritengo opportuno indossare la maglietta “Contra omnia pericola, tasta testicula” in ufficio, per esempio. Anche se un giorno, chissà.

Condizione necessaria per indossare una maglietta, che sia buffa o no, è secondo me comprenderne l’umorismo, la citazione. La lingua, per lo meno. Ebbene, se ho condiviso questa mio discutibile slancio, è perché sempre più di frequente vedo gente in giro che non capisce quello che indossa.

Quasi sempre signore di terza età che indossano con piglio t-shirt che magari hanno scelto per il colore o la fantasia floreale, sulle quali per esempio campeggia la scritta “Sono nata per essere selvaggia“. Vista pochi giorni fa a una amena settantenne truccata per assistere uno spettacolo serale, con tanto di messa in piega a colpi di lacca e tintura. Gentile nonnina, cosa minacci di fare di così selvaggio? Uscire con una dentiera due misure più grande? Lanciare il reggiseno a un concerto e vedere se riesci a coprire mezzo pianoforte con la tua coppa extralarge?

Alcuni anni fa vidi un’altra signora in fila per ricevere l’eucarestia con una maglietta con un’evidente scritta “killer loop“. Il nome del marchio, appartenuto per diversi anni al gruppo Benetton, derivava, a quanto leggo, da una manovra del windsurf, ma potrebbe essere tradotto letteralmente come “cappio assassino”, per dirne una. Secondo altri è una tattica per uccidere gli avversari nei videogiochi. Insomma, proprio quello che ti aspetti di leggere mentre sei in fila per ricevere un sacramento.

Ho visto anche qualche arzillo vecchietto indossare capi che lo indicavano come pericolo pubblico, e probabilmente alla guida della sua Fiat Uno lo era davvero, ma io voglio comunque lanciare un appello.

Nipoti, salvate le vostre nonne o zie o i vostri vicini di casa che non conoscono l’inglese. Dite loro che indossano una maglietta (ce ne sono) con una scritta che invita i lettori a un momento di sesso casuale. Non sia mai che incontrino un coetaneo che l’inglese sa leggerlo davvero e potrebbe fraintendere.

Ai spic inglisc

Hanno cominciato, qualche tempo fa, a pronunciare la sigla dvd “dividì” anzichè “divudi” per fare i fighi e mostrare che sanno l’inglese. Perché in Italia si dice “Vu” e non “Vi”: abbiamo le videocassette “vuaccaesse”, non viaccasse, guardiamo la tivù, non la tivì, e abbiamo anche una simpatica lettera, la w, che si chiama doppiavu, e non doppiavi.
Non stanchi di queste boiate ridicoli, i guru della tecnologia ne hanno inventato un’altra. C’è una tecnologia per la connessione digitale che si chiama HDMI. Acca-di-emme-i. Pronunciarla in inglese sarebbe tostissimo, verrebbe più o meno “eic-di-em-ai”. E allora cosa fanno? Pronunciano acca-di-emme-ai! Almeno la i teniamocela in inglese, “ai”. Ma fatemi il piacere…anzi, “fac iu”…

Why not

L’inglese, è stato detto tante volte, è una lingua che fa della flessibilità la sua forza. I neologismi inglesi entrano ed escono nel lessico con una velocità impressionante, oggi si parla di “phising” e “toothing” mentre in Italia stiamo ancora digerendo “customizzare” e “cliccare” (qualcuno ancora scrive clickare!). Per cui, chi si occupa di tecnologia spesso è abituato ai termini inglesi, così come chi si occupa di finanza, medicina, e chissà quanti altri campi del sapere. Ma finchè i termini inglesi (o, più in generale stranieri) non hanno corrispondenti italiani, ben vengano. Ma perchè da qualche tempo a questa parte sento spesso dire “why not” quando “perché no” funziona benissimo? Abbiamo fatto una considerazione sul progetto e ci siamo detti why not…Nei confronti di questa iniziativa abbiamo un attegiamento aperto e costruttivo, abbiamo pensato why not…E via andare. Ovviamente non lo digerisco, non lo sopporto, non lo tollero.
La prossima volta che sento dire “why not” risponderò “because you’re a nerd”. Chissà in quanti capiranno.

Mi vien da dire basta

Odio i tormentoni, quei modi di dire che si insinuano tra le pieghe di una lingua e cominciano a riprodursi spasmodicamente senza che nessuno riesca a capire perchè e quando è partita la loro diffusione. Ho già parlato, in questo blog, del virus dell'”assolutamente sì”, adesso vorrei soffermarmi su un’altra formula virulenta, il “mi vien da dire”, con le varianti “mi vien da pensare”, “mi vien da chiedere”. Cosa c’è dietro questo virus? Il tentativo, che alla nostra lingua riesce molto bene, di deresponsabilizzare il soggetto. Noi italiani spesso il soggetto lo sottointendiamo, oppure lo camuffiamo dietro le forme impersonali (es. “Si dà comunicazione che a partire…per non dire chiaramente che il Comune, o la Provincia, comunica che…). Pensate all’inglese I like you: in italiano il fatto che “io” soggetto “apprezzi” te complemento oggetto, diventa un complicato “tu mi piaci”, dove la responsabilità del gradimento viene scaricato non su chi gradisce, ma su chi, incolpevolmente, è gradito. Il “mi vien da dire” ha origine dal “mi vien da ridere” o “mi vien da piangere”: in quei casi, tuttavia, davvero il soggetto non è responsabile, perché il riso o il pianto sono espressione di sentimenti che possono sorgere incontrollati, irrazionali, attribuibili ad altro. Ma se vuoi dire qualcosa, la dici e basta, sei tu che agisci: non ti viene da dire, non esiste un entità superiore che ti fa parlare: lo dici, e te ne assumi le responsabilità.